18 / 12 / 2011

1996 - Il Codice della Cucina Italiana

L’intervista
Giacomo Bersanetti - Dare forma e immagine alla sostanza

Incontriamo Giacomo Bersanetti a Bergamo, nella sede attuale dello Studio Grafico Artigiano, del quale è fondatore e titolare da oltre quindici anni, che ha “firmato” il successo di molti loghi ed etichette. Anni trascorsi a lavorar sodo, a farsi un nome. Dapprima cercando e trovando aziende prevalentemente vinicole fortemente motivate a costruire o rifarsi un’immagine, poi estendendo il raggio d’azione ad altri settori produttivi, ad altre esperienze egualmente siglate da una indiscutibile qualità di intervento in termini progettuali: un programma articolato in cui l’immagine sia sempre coerente con la comunicazione e con la competitività dell’impresa committente sui mercati. Dal graphic all’industrial design, da una piccola etichetta di vino alla corpo-rate image di una grande holding industriale, lo studio di Bersanetti ha conosciuto uno sviluppo, anche in materia di supporti tecnici e tecnologici (l’adozione, ad esempio dei più sofisticati strumenti di infografica), che non ne ha tradito le prerogative di partenza: l’aspetto “artigiano” della progettualità, caratteristica di questa sua “creatura”, è garanzia di una pratica ancorata a salde cognizioni (e convinzioni) di base e di una accuratezza che, nell’odierna “arena digitale”, passa spesso in secondo piano. A riprova della qualità del lavoro prodotto dallo studio sono giunti innumerevoli e prestigiosi riconoscimenti. Tra gli ultimi, il premio ricevuto lo scorso anno per l’immagine coordinata de “L’Albereta - Ristorante Gualtiero Marchesi”, nell’ambito del concorso indetto dalla Ardo - Waggins. In occasione dell’ultimo VinItaly: due Etichette d’Oro per il packaging del vino (produttori: Bellavista e Cascina Castlèt) e - last but not least - il massimo riconoscimento: l’Etichetta dell’Anno per il packaging di tre vini (produttore: Cascina Castlèt). Giacomo Bersanetti si fa intervistare da “Il Codice de la Cucina Italiana” in una palazzina settecentesca, dai soffitti alti e affrescati, nei cui locali ha trasferito la propria attività da un paio d’anni, dopo aver lavorato a Milano per oltre un decennio. “Qui si vive meglio”, esordisce Bersanetti, “non senti le fibrillazioni, non avverti i ritmi impossibili che la metropoli inevitabilmente impone a chi la frequenta. Qui, a Bergamo, le cose stanno diversamente e quel che più mi ha sorpreso da quando mi ci sono trasferito è stata la scoperta che, in realtà, la vita culturale cittadina è molto più ricca di quanto non sia dato di avvertire dalle apparenze. Il fatto è che la cosiddetta provincia mostra oggi più dinamismo e vivacità che non la grigia routine milanese”. Giacomo Bersanetti rinnova l’immagine di aziende vinicole attraverso lo studio di etichette e contenitori di disegno e forma inusuali.

Albereta
L’immagine coordinata de “L’Albereta - Ristorante Gualtiero Marchesi

Vuole fornirci qualche cenno riguardo alla sua crescita e affermazione professionale?
“Ho frequentato l’Accademia di Belle Arti, prima a Bergamo, per tre anni, poi a Carrara, nella sezione di Scultura, quindi ho terminato gli studi presso l’Accademia di Brera, a Milano. Per la precisione, a Carrara ho cominciato a occuparmi anche di design, graphic e industrial, storia delle arti applicate e del design e di fotografia”.

Di qui l’idea di avviare lo Studio?
“No. Quella è venuta dopo. Per tornare agli studi di Carrara, è allora che ho avuto la possibilità di confrontarmi con gente del mestiere, invitata dall’architetto Silvio Coppola a tenere seminari e workshop. Un’esperienza che giudico basilare è stata quella dell’incontro con Bob Noorda, per il quale in seguito ho avuto l’occasione di lavorare. Terminata l’Accademia, ho fatto il mio apprendistato prima con Coppola, poi con Salvatore Gregorietti e Noorda all’Unimark International. Tra gli altri miei insegnanti e maestri che hanno avuto un qualche peso sulla mia formazione citerei anche Piercarlo Santini, Alik Cavaliere e Roberto Sambonet”.

I punti di riferimento “forti” davvero non le sono mancati. Poi che è successo?
“Quando ho ritenuto che potevo muovermi con le mie gambe ho aperto il mio primo studio: `Congegno’ “… divenuto poi “Studio Grafico Artigiano”… “Esattamente: un’esperienza che condivido felicemente con l’amico e collaboratore Francesco Voltolina. Ci sono due ragioni che possono dar conto della scelta di questo nome. Innanzitutto l’attenzione per tutto ciò che è progettualità grafica, anche se poi tutto l’aspetto relativo allo studio di oggetti tridimensionali - in prevalenza contenitori - ha acquisito la medesima importanza del design in due dimensioni. Un ruolo non secondario nella nostra attività professionale è assegnato inoltre alla conoscenza dei materiali, al modo migliore di utilizzarli. L’esperienza maturata negli anni a stretto contatto con fornitori e committenza ci ha dato l’opportunità di approfondire le possibilità d’impiego dei materiali e di intervento su di essi. In genere, questa curiosità tende a esaurirsi non appena si è raggiunto un livello di cultura in materia soddisfacente. Noi, invece, siamo sempre curiosi delle possibilità offerte da nuovi materiali frutto di ricerche a partire dalle quali investiamo la nostra creatività. Un tipo di carta, un modo di confezionare una scatola, di studiare il supporto più appropriato per un libro. E tante altre cose: siamo stati i primi, per esempio, a introdurre l’uso della serigrafia su vetro, parlo di lavori per aziende vinicole evidentemente”.

Vi siete misurati, dunque, con molti materiali diversi per progetti di ampio raggio. Come avete costruito e conservato la vostra identità di studio?
“Semplice: a ogni azienda forniamo una risposta differente, ‘personalizzata’; le risposte standardizzate non ci interessano né crediamo che alla lunga possano funzionare. Il metodo sì, quello è nostro e ce lo siamo costruito lavoro dopo lavoro. Un metodo, direi, di gestione del progetto”.

E l’aspetto artigianale, oltre alla cura nella scelta dei materiali?
“Certo, come tutti anche noi oggi ci serviamo quasi esclusivamente di computer e relativo software, ma se occorre trovare quella giusta tonalità di colore e l’infografica non ci soccorre, non esitiamo a partire dal colore steso a pennello. La sperimentazione pratica ci consente di non avere preclusioni né verso strumenti di lavoro attuali né verso quelli più lontani dall’era cibernetica; grazie a questa flessibilità, a volte troviamo soluzioni autenticamente originali. Se è assente una solida e aperta cultura di base, anche il più sofisticato ritrovato della tecnologia al servizio del design potrà fornire ben poco aiuto a chi ne faccia uso. E questa cultura si sviluppa e si arricchisce attraverso un costante senso critico nei confronti del proprio lavoro. In studio, il confronto è sempre aperto e la critica è sempre vis-suta come un arricchimento”.

Trasferiamoci ora sul terreno dei rapporti con la committenza: voi avete conquistato una posizione di tutto riguardo nel settore vinicolo. Come ha avuto inizio questa vostra specializzazione e come si è sviluppata?
“Abbiamo iniziato con produttori di vini, ma anche di distillati e oli. Quando un’azienda ritiene che l’‘abito’ confezionato a misura del proprio prodotto stia ‘stretto’ o non risponda più alle esigenze del mercato, si rivolge a uno studio come il nostro, chiedendo di rinnovare e far emergere la qualità che gli è propria”.

Solo il packaging o anche la bottiglia, il contenitore?
“Dipende dal grado di originalità e unicità che l’azienda vuole sottolineare. Vi sono aziende sensibili a quest’aspetto, con loro lavoriamo molto volentieri. Siamo consapevoli che si tratta di un progetto più articolato e complesso. Esso implica cognizioni in merito alla lavorazione del vetro, alla sua produzione industriale o artigianale. Le fasi di imbottigliamento, di riempimento, di imballaggio, di trasporto… E ogni azienda ha in dotazione macchinari e pro-cedimenti diversi. Componenti di cui va tenuto conto nello studio di una forma realizzabile, ma al tempo stesso distinguibile dai classici contenitori”.

Una simile gamma di variabili conferma quanto lei diceva più sopra: non è possibile operare in modo standardizzato.
“Difatti. Solitamente ci rechiamo in visita all’azienda nostra cliente e ci facciamo illustrare tutto il ciclo di produzione dai suoi responsabili. Oltre a questo, guardiamo con attenzione a quanto sta intorno all’impresa, al territorio in cui è sorta”.

E questa disponibilità è caratteristica di tutto il settore?
“Tranne i casi di grandi e storiche famiglie piemontesi e toscane, il vino italiano è rimasto in una posizione molto penalizzata fino agli anni Sessanta. E non parlo solo di immagine e mercato, la qualità stessa del prodotto era piuttosto trascurata. Negli anni Settanta l’azione di rilancio iniziata da pochi produttori illuminati ha dato i primi frutti per poi esprimersi più compiutamente nel decennio trascorso. Ora chi vuole proporsi a livello internazionale, deve presentarsi con un prodotto irreprensibile e un corredo di immagine e comunicazione in piena sintonia con esso. Questo processo di crescita ed evoluzione, svoltosi contemporaneamente all’affermarsi nel mondo della buona cucina italiana e delle sue specialità, ha coinciso con la ‘scoperta’ che la tavola e le occasioni di convivialità sono espressioni di cultura, c’è di sicuro dell’arte in tutto questo”.

Francesco Massoni

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