12 / 07 / 2012

Comunicare il vino secondo Angelo Gaja

Angelo Gaja, l’artigiano del vino

A Barbaresco, un paesino di 400 anime famoso per la produzione dell’omonimo vino, incontriamo Angelo Gaja, erede di un patrimonio vitivinicolo che data oltre centocinquant’anni. Gaja, che si autodefinisce un “artigiano del vino”, è ormai da tempo un leader del settore riconosciuto a livello internazionale. Oltre a realizzare un prodotto di eccellenza, ne ha sempre curato con estrema attenzione anche l’immagine esteriore: dalla vestizione della bottiglia, all’imballaggio secondario, dalla grafica aziendale alla comunicazione. Con lui abbiamo parlato del rapporto tra vino e packaging e di come si accresce il valore di un marchio storico.

di Marco Senaldi



Affrontiamo subito il tema della comunicazione: dal punto di vista di un produttore, come si fa brand con il vino, quali sono le strategie comunicative vincenti?

Primo, proponendo vino della migliore qualità possibile, in relazione alle diverse fasce di prezzo; poi, con il marketing, curando il corretto ed appropriato posizionamento del prodotto sul mercato e con la visibilità dell’etichetta e la qualità della comunicazione aziendale. Inoltre, valorizzando sia i marchi individuali (brand aziendale, nome dei vini) che il patrimonio comune delle IGT, DOC e DOCG. Utilizzando le sinergie che il territorio di origine del vino esprime in cultura, storia, tradizione, modernità, ricchezze architettoniche… Integrando il vino alla territorialità.
 

Ma questa inarrestabile crescita del vino, sia in termini di consumo, che di valorizzazione economica, a cosa è dovuta?

Soprattutto al fatto che è aumentata la percezione del valore culturale del vino. Fino agli anni ’60-70, in Italia il vino era considerato la bevanda alimentare per eccellenza, poi si è trasformato in un bene voluttuario, spesso addirittura un bene di lusso. Certo, esiste ancora una fascia di bottiglie vendute a due euro, due euro e mezzo, che continuano ad avere ancora una funzione alimentare, ma dai dieci euro in su – fino a bottiglie che vanno sul mercato o alle aste a migliaia di euro – il vino risponde ad altre esigenze, ad altre gratificazioni e, in un Paese dove aveva un significato alimentare, ora è anche un genere di lusso.

…ma in un mondo globalizzato come il nostro è possibile sfuggire all’uniformità del gusto?

Certo che sì! – anzi: secondo me, chi rende variegato il settore sono proprio gli artigiani. L’artigiano è quello che nel fare il vino ci mette qualcosa di “suo”. Non è detto che sempre abbia successo, magari non trova riscontro nella critica – però ciò che più desidera è fare il vino a modo suo. È una scelta che solo gli artigiani possono fare: i Mondavi, gli Antinori, i Frescobaldi, la grande industria vinicola, anche se molto valida, non lo può fare, perché, per sostenere i propri volumi di produzione, deve confrontarsi con l’80% del mercato occasionale – cioè deve fare dei vini che incontrino anche quel gusto popolare. L’artigiano invece ha una funzione diversa, anche di ricerca. Questa ricerca della pluralità è la ricchezza dell’Europa, e dell’Italia in particolare.


A questo punto però sono obbligato a chiederle come si colloca Gaja: siete industriali o artigiani?

Essere artigiani significa soddisfare ad alcune condizioni: primo, non comprare uve, ma utilizzare solo quelle dei propri territori. Secondo, non comprare vino, perché il vino deve essere costruito nel proprio vigneto. Terzo, ci deve essere una presenza importante della famiglia, i cui membri dedicano essenzialmente e pienamente la loro attività a quel settore. Infine, l’azienda artigianale deve stabilire qual è la sua dimensione ottimale oltre la quale decide di non crescere. L’artigiano deve saper rinunciare a crescere, perché sa che se va oltre un certo limite, la qualità ne viene intaccata. L’artigiano non accetta volentieri la presenza di consulenti – ha la presunzione di saper fare da sé. Il primo obiettivo dell’industria è quello di soddisfare i consumatori – mentre quello non certamente è l’obiettivo dell’artigiano, che invece ha in mente di realizzare il proprio prodotto, il vino che vuole lui. Ecco perché noi siamo artigiani. Da anni abbiamo 100 ettari di vigneto; poi abbiamo acquistato dei vigneti in Toscana, ma anche lì abbiamo deciso di non andare oltre. E poi c’è il discorso del prezzo. L’ambizione dell’artigiano è di creare vini che abbiano un valore qualitativo elevato – e di conseguenza un prezzo sostenuto.

Un concetto che percorre lo stile italiano, e che comunque lo rende riconoscibile nel mondo, è quello dell’“eleganza” – che ne pensa?

Che bisogna distinguere l’idea di eleganza da quella di opulenza. Mi spiego meglio: nel settore enologico i consumatori occasionali sono anche quelli più attratti da vini “piacevoli”, che non presentano spigoli, hanno poca acidità, non hanno tannini, sono “rotondi” al gusto e vanno bene un po’ per tutti. Ma il concetto di eleganza non ha spazio per questa “perfezione” innaturale. La natura crea disuguaglianze; ci sono terreni, anche nella zona del barbaresco, che in termini di produzione non hanno le stesse potenzialità. Ciò che appare perfetto, dunque, spesso è stato contraffatto. L’eleganza invece non ha bisogno di perfezione. L’eleganza è qualcosa che bisogna metabolizzare e poi oltrepassare, e questo vale anche per il vino. I nostri vini sono segnati anche dalla mancanza di questo eccesso, di questa esagerata pienezza, di questa opulenza; possono persino sembrare imperfetti. Ma proprio quella piccola imperfezione è il segno ultimo dell’autentica eleganza.

A questa eleganza interiore deve corrispondere anche un’eleganza esteriore… per esempio, come vi è venuta l’idea di queste casse di legno “scanalate” con il marchio Gaja, che hanno una notevole leggerezza visiva?

Questa è un’idea sviluppata da SGA proprio perché il marchio Gaja appariva troppo pesante ed imponente sulla classica cassa di legno. L’idea è stata di riprendere il segno di una antica lavorazione del legno diffusa dalle nostre parti [ci conduce fuori a vedere una porta antica lavorata, appunto, scannellando il legno]… è una lavorazione che si chiama “grissinatura”, l’abbiamo voluta riproporre sulle nostre casse rafforzando così un legame con la tradizione.

[Nel frattempo, chiacchierando, ci siamo trasferiti nel Castello, dove sono raccolte le bottiglie con le etichette storiche]. Guardando queste antiche etichette si nota quasi una certa continuità nel tempo…

Guardi, questa è la prima etichetta di mio bisnonno, Gaja Giovanni e figli. Poi mio nonno ha adottato un’etichetta del 1900, con le medaglie che allora non erano riferite tanto al vino, quanto all’azienda, che aveva vinto questo o quel riconoscimento, medaglia d’oro o croce al merito. Nel 1937 mio padre opera una rivoluzione in termini di comunicazione: scrive il nome del produttore con caratteri enormi. “Gaja” sovrasta il nome del vino stesso. Il fatto è che lui vendeva il barbaresco ad un prezzo più caro del barolo e questo era inaccettabile, era una provocazione, perché il vino per eccellenza era il barolo. Ma il prezzo era dovuto alla qualità, alla lavorazione, al fatto di non imbottigliare le annate scadenti, e via dicendo: così, il nome in caratteri maiuscoli ben visibili GAJA aveva un significato preciso: “questo non è un barbaresco qualsiasi, ma quello di Gaja”. Era già un concetto di marketing!


Anche i nomi hanno la loro importanza, qui ne leggo di particolari: Spersss, Conteisa, Darmagi…

Abbiamo fatto una ricerca molto accurata sui nomi, andandoli a riprendere dalla tradizione del nostro dialetto. Spersss, ad esempio, con 3 esse, è una parola dialettale, che significa “nostalgia”, ma può essere pronunciata in lingue diverse…
“Nostalgia” – era un vigneto che mio padre avrebbe voluto acquisire, il suo sogno di una vita e che ho potuto realizzare solo nel 1988 quando sono riuscito a comprare il terreno. Conteisa invece significa “contesa”, era un vigneto che giaceva proprio al confine tra due territori, La Morra e Barolo, e conteso per quasi cento anni, fino a che è stato diviso. Darmagi invece, dal francese “Quel dommage!”, significa “che peccato! ”. Perché in quel vigneto avevo piantato il cabernet sauvignon, contro il parere di mio padre che in quell’occasione disse proprio così, “che peccato!” (per non averlo piantato a barbaresco).

Oggi qual è, secondo lei, il rapporto tra abbigliaggio, packaging e immagine globale che Gaja veicola a livello internazionale?

L’etichetta è sicuramente il primo messaggio trasmesso attraverso la bottiglia al consumatore. L’etichetta può aiutare anche a svelare l’animo del produttore, il modo di essere e le ambizioni dell’azienda. Identicamente contribuiscono forma, colore, peso della bottiglia, scritte e decori su cartoni e casse legno; fino ad arrivare alla carta da lettera intestata, ai biglietti da visita, le brochure e i depliant, al sito internet, gli incontri aziendali con i clienti, l’organizzazione di eventi, la presenza alle fiere, le degustazioni fuori casa. Tutto è comunicazione. L’immagine dell’azienda si nutre della qualità della sua comunicazione.

Là vedo un’etichetta marrone…

Questa fu fatta negli anni ‘70 da un designer che lavorava per la Baratti, una ditta di caramelle piemontese; qui c’era il concetto di oro e marrone, con il nome Gaja enorme…

…fino all’attuale etichetta bianca e nera, sobria e rigorosa insieme…

Sì – da quella etichetta lì, siamo arrivati per gradi a quella attuale, in bianco e nero, dove il nero rappresenta il passato, la tradizione, e il bianco significa l’oggi, il presente. Tutto è divenuto essenziale, senza alcun decoro, con una sua pulizia – lo definirei un “classico moderno”.

E il tipo di carta?

C’è tutta una tradizione degli anni ‘80 e ‘90 di carte uso mano, Fabriano e simili, per le etichette dei vini, perché risultano più morbide, più calde. Però quelle carte hanno due difetti: se scende una goccia di vino la sporca, e secondo, se la bottiglia è tenuta male all’esterno, o prende luce, si macchia, s’impolvera, si scurisce facilmente. Per questo alla fine abbiamo optato per una carta più lucida e, alla fin fine, più sobria.

Questa impaginazione classica e insieme efficace mi sembra una costante del marchio Gaja. Come si è evoluta l’immagine e la vestizione del prodotto in relazione agli ultimi progetti realizzati con SGA? Mi riferisco in particolare a Ca’Marcanda, Pieve Santa Restituta, Linea fagiani oro, Linee grappa Gaja.

Il restyling delle vecchie etichette di Gaja è stato portato avanti da SGA senza stravolgimenti, pulendo con misura, asciugando il decoro, e così facendo valorizzando ed impreziosendo l’essenziale.  Per Ca’ Marcanda e Pieve Santa Restituta si è guardato ad etichette che premiassero la visibilità, sempre seguendo un concetto di sobrietà e di pulizia, giocando su due colori, uniformando le scritte, proteggendo l’essenzialità.


In una parola, qual è il segreto di una collaborazione efficace tra azienda e packaging designer?

Sono convinto che ogni proposta di design deve accordarsi con la storia aziendale, col tuo passato e col tuo modo di essere… Ma un rapporto così non si improvvisa: il segreto di una collaborazione efficace sta nel fatto che richiede molto tempo. Come nel caso di SGA, perché è proprio grazie a un rapporto di fiducia che è durato nel tempo che siamo riusciti a creare insieme nuove idee.

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