23 / 04 / 2020

In tuo ricordo

giacomo collage

“Più di un mese è passato da quel tragico 19 marzo… Oggi sarebbe il giorno del tuo compleanno. Vogliamo celebrarlo così: con immagini, frasi e pensieri tratti dalle nostre esperienze comuni per ricordare quello che sei stato per tutti noi in questi anni fin dai nostri primi passi; che fossero nel lavoro o nella vita non fa differenza, l’importante è averli fatti insieme. Con infinito affetto”.

Guarda la gallery di foto

25 / 03 / 2020

Ringraziamenti

Cari amici,
nella mattina di giovedì 19 marzo 2020, dopo aver lottato fino all’ultimo contro questo spietato nemico che così duramente sta colpendo la nostra comunità, Giacomo ci ha lasciati.

Tutti i messaggi ricevuti e che ancora arrivano carichi di affetto, stima e ammirazione, sono per la famiglia e per noi di grande conforto: testimoniano come Giacomo, nella sua genialità e generosità, abbia lasciato un ricordo autentico, sincero e indelebile nella memoria di tutte le persone che ha incontrato.

Con il suo costante impegno professionale e umano in SGA, Giacomo ha creato una “scuola”; sarà nostro impegno e privilegio portare avanti il suo pensiero e insegnamento, nel lavoro come nella vita.

Grazie di cuore a tutti.

06 / 02 / 2020

Editori del Sole | Dietro al marchio

editori del sole brand

Editori del Sole | anno 1983

Sole come metafora del sapere; questa piccola casa editrice molto ha contribuito alla formazione e diffusione di una cultura materiale, sia fornendo orientamento alle scelte d’acquisto in ambito enologico e gastronomico, sia valorizzando le tradizioni locali italiane, con uno sguardo attento alle proposte più innovative nei settori del design, della moda e delle tecnologie.

Il simbolo della Editori del Sole, fondata all’inizio degli anni ’80 da un piccolo gruppo di giornalisti amici (Paolo Panerai, Cesare Pillon, Luigi Veronelli), costituisce un esempio ben chiaro del nostro approccio progettuale che si propone di:

- rispondere in modo efficace, quindi non banale o schematico, al compito di rappresentare un’entità produttiva complessa, rendendone esplicita la missione, l’ambito operativo e l’unicità.

- attribuire al simbolo una stretta corrispondenza con l’azienda e marcate caratteristiche di originalità per assicurare distintività, memorabilità e mantenere la propria efficacia nel tempo. Il marchio costituisce la ‘pietra angolare’ sulla quale l’intero ‘edificio’ dell’identità aziendale verrà in seguito sviluppata.

- evitare il riferimento stilistico a mode e tendenze, il cui rapido ‘passaggio’ e invecchiamento renderebbero il simbolo rapidamente obsoleto.

- dal punto di vista tecnico, rendere facile la sua ripetizione su ogni supporto e con ogni tecnica di riproduzione; aspetto al quale occorre dare molta attenzione.

- assicurare facilità di lettura e capacità di avviare un ‘dialogo’ - vera e propria relazione - con l’osservatore/lettore, offrendo molteplici spunti interpretativi in grado di entrare in risonanza con chi osserva il nostro marchio.

Il marchio è il risultato della distillazione di un’ampia serie di contenuti evocativi, concentrati attraverso un accurato processo di sintesi in un simbolo denso di significati fra loro ben armonizzati; intrecciati ma ben distinguibili. Un dispositivo visuale e comunicativo nel quale ogni elemento è in stretta relazione con tutti gli altri coinvolti.

Per gli Editori del Sole, la stilizzazione dei due volumi con le pagine aperte a ventaglio indica immediatamente l’ambito produttivo ed anche la complessità: i ‘raggi’ che ruotano attorno al centro esprimono la molteplicità degli argomenti e degli interessi culturali che la casa editrice avrebbe trattato.

La dualità visualizzata dai due libri simmetrici, esprime una scelta editoriale precisa e molto caratterizzante, che consisteva nel dare - di ciascun argomento trattato nelle proprie pubblicazioni - il racconto sviluppato da due punti di vista: da un lato il contenuto culturale (storico, filosofico, psicologico) e dall’altro il contenuto informativo (funzionale, tecnico, economico). Punti di vista intesi come complementari e inscindibili.

Il simbolo rivela, inoltre, la dinamicità che avrebbe caratterizzato l’attività editoriale che spaziava in molti ambiti produttivi, purché caratterizzati dall’alto livello degli argomenti e dall’alta qualità dei prodotti trattati: il sole, oltre che di naturalità, è simbolo di eccellenza.

Tag brand identity, corporate identity, editori del sole, logo design

02 / 04 / 2019

Gastronomia come cultura: debutta il primo corso dell’Alta Scuola Veronelli.


Una visione dell’enologia e della gastronomia come prodotti culturali; un approccio alla cucina, al vino, alla vigna e alla degustazione che privilegia le modalità della ricerca, l’esame critico, l’assegnazione di significato e valore: l’ispirazione data da Luigi Veronelli, eminente personalità che ha accompagnato e sostenuto le produzioni agroalimentari e la cucina italiana di qualità dal secondo dopoguerra sino agli anni Duemila, è oggi più viva che mai, e la Scuola a lui dedicata intende raccoglierne e condividerne l’eredità attraverso la formazione.
Oggi incontriamo Andrea Alpi, membro del Comitato Scientifico e Responsabile didattico dell’Alta Scuola Italiana di Gastronomia Luigi Veronelli, gastronomo, sommelier, Sensory Project Manager SISS (Società Italiana di Scienze Sensoriali); insieme a lui Andrea Bonini, Direttore del Seminario Permanente Luigi Veronelli e Coordinatore dell’Alta Scuola Veronelli. Ci racconteranno una delle ultime iniziative promosse dal Seminario Veronelli, associazione volta a promuovere la qualità dei prodotti alimentari italiani attraverso lo studio e la divulgazione della cultura gastronomica. Si tratta del primo corso attivato dall’Alta Scuola Veronelli, Camminare le vigne: luoghi, persone e cultura del vino italiano, in agenda alla fine di maggio presso la Fondazione Giorgio Cini, sull’Isola di San Giorgio Maggiore a Venezia.
Strutturato per svilupparsi nell’arco di un semestre, fino a ottobre 2019, approfondirà le produzioni vitivinicole italiane mettendone in luce sia l’appartenenza a un sistema alimentare che comprende la cucina e i giacimenti gastronomici, sia le connessioni con il mondo dell’arte e della cultura.

Alta Scuola Italiana di Gastronomia Luigi Veronelli brochure


Chiedo brevemente ad Andrea Alpi, in dettaglio, a chi è dedicato il corso.

Il corso Camminare le vigne è dedicato ai titolari e al personale di aziende vitivinicole, in particolare agli addetti del marketing, della comunicazione e al settore commerciale; agli operatori del commercio vitivinicolo e alimentare di qualità; ai patron e al personale di ristoranti, enoteche e wine bar; agli operatori della comunicazione quali giornalisti, blogger e persone che si occupano di pubbliche relazioni; alle guide e agli operatori del settore turistico. Camminare le vigne si rivolge, inoltre, agli studenti universitari iscritti ai corsi di laurea di viticoltura ed enologia, scienze e tecnologie dell’alimentazione e della ristorazione, scienze del turismo e dei beni culturali.


Quali requisiti occorrono per potervi accedere?

L’accesso è vincolato soltanto ad avere svolto con successo un primo corso di degustazione di vino che spesso viene fornito da agenzie formative come l’Associazione Italiana Sommelier oppure molte altre.


Quali competenze potranno acquisire i partecipanti?

Le competenze che questo corso fornisce sono legate alle sei aree tematiche di cui il corso è composto: andiamo da competenze molto operative, quindi un perfezionamento con alcuni dei maggiori degustatori italiani in ambito di analisi sensoriale, a competenze di ordine economico, poiché avremo un focus specifico sui mercati del vino. Naturalmente protagonisti saranno i vini d’Italia, i territori: avremo un lungo excursus nei distretti vitivinicoli italiani. Inoltre abbiamo riservato, e questo è uno degli elementi caratterizzanti, addirittura un terzo delle 180 ore previste a materie o temi che non ci si attende in un corso dedicato al vino. In effetti la cultura gastronomica sarà una parte fondamentale del corso.


Quali aree tematiche verranno approfondite durante le lezioni frontali?

Si tratta di un percorso che ha il vino e i luoghi del vino come focus principale. Sarà più che un viaggio enologico in Italia: andremo virtualmente, ma anche fisicamente, a camminare le vigne italiane, e quindi l’aspetto enografico sarà il cuore pulsante del corso. Sarà affiancato però da aspetti propedeutici e da aspetti di approfondimento: degustare, conoscere, vuol dire anche capire cos’è il territorio. Comprendere il territorio è una sezione che verrà particolarmente curata: dalla giacitura del terreno, alla composizione dei suoli, ma anche ai paesaggi e a tutto ciò che rende il vino italiano un aspetto culturale.
Abbiamo già parlato delle aree comprendere il territorio e vigne e vini d’Italia; oltre a queste proporremo la cultura gastronomica, usufruendo delle professionalità e delle autorità in materia presenti nel Comitato Scientifico, a partire naturalmente da Alberto Capatti, il quale promuoverà anche un excursus sulla cucina italiana individuando dieci capitali che per storia e per portato culturale e gastronomico ben rappresentano il patrimonio della cucina italiana. Avremo poi un focus sulla comunicazione della qualità, cioè tutte le competenze necessarie per trasferire il valore aggiunto di questi prodotti agroalimentari ai nostri interlocutori e un focus, come già accennato da Andrea, sulla sensorialità e la valutazione: non parliamo soltanto di analisi sensoriale, che pure sarà un momento importante della formazione, ma anche di tutte quelle competenze che devono essere padroneggiate per esprimere in modo compiuto un giudizio.

Alta Scuola Italiana di Gastronomia Luigi Veronelli presentazione corso all'Italian Cultural Institute London


Per completezza, chiederei ad Andrea Bonini, di elencarci in dettaglio le aree tematiche che verranno approfondite.

Il primo corso di perfezionamento promosso dall’Alta Scuola Italiana di Gastronomia Luigi Veronelli ha un piano di studi che è composto dalle seguenti aree tematiche: comprendere il territorio, vigne e vini d’Italia, cultura gastronomica, cucina italiana, comunicare la qualità, sensorialità e valutazione.
Un piano didattico così composto riflette bene l’approccio multidisciplinare che l’Alta Scuola vuole proporre ai suoi corsisti: riteniamo infatti che sia finito il momento degli iper-specialisti. È invece necessario riuscire a coordinare competenze diverse proprio per restituire la complessità e la varietà del settore vitivinicolo italiano.

Alta Scuola Italiana di Gastronomia Luigi Veronelli Sensorium Venezia

Alta Scuola Italiana di Gastronomia Luigi Veronelli Sensorium Braida Bricco dell'Uccellone


Quanto spazio verrà dato alla degustazione? Sono previsti momenti esperienziali sul territorio?

La degustazione è un presupposto ma è anche uno strumento. È uno strumento di approfondimento: in ognuna delle 20 lezioni che saranno dedicate ai territori vitivinicoli italiani, un’ora sarà dedicata espressamente alla degustazione, quindi all’assaggio dal vivo di vini scelti in base ai territori esplorati ma anche in base alle storie, ai racconti, al taglio che il docente vorrà dare alla propria esposizione.
La degustazione sarà anche oggetto di un corso specifico di analisi sensoriale: i sensi degli allievi verranno sviluppati e portati a un grande livello di consapevolezza attraverso degustazioni dal vivo, non soltanto di vino ma anche di essenze, di aromi dal vero che potranno dare la chiave di lettura, per esempio, dei principali vitigni italiani.


È possibile accedere al corso senza trascurare la propria attività professionale o lo studio universitario?

Il corso è costruito appositamente per incontrare le esigenze di persone che studiano, lavorano, svolgono delle attività durante l’anno. Abbiamo declinato l’offerta formativa in weekend intensivi, circa uno al mese all’interno del semestre; prevediamo poi un momento di concentrazione della formazione in un’unica settimana nel mese di luglio, residenziale come ovviamente anche i weekend, all’interno dell’Isola di San Giorgio, presso la nostra sede della Fondazione Giorgio Cini. In quest’occasione saranno proposti sette giorni di lezione, di incontri con i vini, con i produttori, con gli esperti, con i docenti.
Abbiamo anche la possibilità di affiancare i momenti formativi diretti e frontali con una parte di formazione a distanza attraverso l’uso di una piattaforma dedicata appositamente a questo.

Alta Scuola Italiana di Gastronomia Luigi Veronelli Bonini Capatti Alpi

Alta Scuola Italiana di Gastronomia Luigi Veronelli conferenza stampa


Da quali figure è composta la faculty?

Per questo primo corso abbiamo riunito una faculty molto numerosa, oltre 35 docenti. A di là del numero colpisce il livello qualitativo e l’autorevolezza dei docenti stessi. Abbiamo enologi ed agronomi, quindi docenti universitari con una preparazione specifica sulla viticoltura e l’enologia; abbiamo anche figure del mondo della cultura, e questo a restituire l’approccio multidisciplinare tipico dell’Alta Scuola Veronelli e di questo corso.


Che ruolo ricopre la Fondazione Giorgio Cini nell’ambito di questo progetto?

Fondazione Cini è partner del Seminario Veronelli in questa avventura e il suo ruolo è naturalmente fondamentale, innanzitutto per la sede meravigliosa che mette a disposizione, un ex convento Benedettino sull’Isola di San Giorgio Maggiore, di fronte al bacino di San Marco: è un luogo che connota in modo importante la nostra attività formativa.
Ma ha anche un ruolo fondamentale per le competenze che riesce a mobilitare. Quando parliamo di formazione culturale, Fondazione Cini è senz’altro un’autorità e quindi sarà pienamente coinvolta nella promozione delle azioni formative.
Tra l’altro il personale della Fondazione Giorgio Cini ci assisterà e farà parte del corpo docente proprio nelle aree che riguardano per esempio il vino, il cibo e l’arte italiana.

Alta Scuola Italiana di Gastronomia Luigi Veronelli studio logo


Sono ancora aperte le iscrizioni?

Le iscrizioni sono ancora aperte. Sul sito dell’Alta Scuola Veronelli, all’interno della sezione “formazione”, è possibile consultare i dettagli del corso, le modalità di accesso ed esprimere il proprio interesse attraverso la compilazione di una breve intervista scritta.


In che modo il corso si differenzia rispetto ad analoghe attività formative?

A differenziare tutti i servizi formativi dell’Alta Scuola Veronelli è l’approccio, la volontà di proporre il vino e i prodotti agroalimentari come elementi di un patrimonio culturale. Sfrutteremo al meglio tutte le sollecitazioni formative disponibili per formare in modo attivo i corsisti e coinvolgerli a pieno.
Avremo sensorialità, avremo esempi dal vivo, avremo un parterre di docenti che porterà punti di vista particolari: ognuno racconterà e descriverà i territori, le persone e i vini attraverso un taglio personale, unico e irripetibile, arricchendo di dimensioni questo percorso di grandissimo fascino e di grandissima cultura.
Proprio l’autorevolezza dei docenti è un fattore distintivo del nostro percorso formativo rispetto ad altri possibili servizi.


Come sintetizzereste la filosofia che sottende la formulazione di questo percorso formativo?

Una domanda difficile, a cui io rispondo subito con uno slogan: gastronomia come cultura. La gastronomia non si può separare dalla cultura; la cultura arricchisce questa visione, soprattutto per chi vuole apprenderla a pieno, vuole comunicarla e vuole impadronirsene.
Un presupposto dell’Alta Scuola è quello di creare un’alternativa alla gastronomia come spettacolo che pare essere l’unica dimensione legata al cibo e al vino nel nostro periodo storico. Riteniamo che gli operatori in primis debbano riconoscere il proprio ruolo di soggetti attivi dal punto di vista culturale e farsi promotori di un patrimonio che è immenso e che riteniamo ancora poco valorizzato.


Tra le immagini: logo e immagine coordinata, inviti, brochure e sito realizzati da SGA

Tag Enologia, Gastronomia, Global design, Intervista, Prodotti culturali

13 / 02 / 2019

I nuovi mercati del vino attraverso lo sguardo di Luca Mazzoleni.

Come intercettare più efficacemente i consumatori stranieri? Quali virtù sono maggiormente riconosciute ai vini italiani all’estero? Come impostarne la comunicazione per rispondere opportunamente all’evoluzione del mercato? Abbiamo posto queste e altre domande cruciali per chi opera (o intende operare) sui mercati internazionali a uno dei massimi esperti del settore in Italia, Luca Mazzoleni, selezionatore e sales man negli USA per diversi anni e fondatore di UnoVino Wine Trading, ditta specializzata nell’intermediazione in vino e prodotti alimentari verso le principali destinazioni export.

Nato a Bergamo nel 1975 e avvicinatosi al mondo del vino grazie ai corsi del Seminario Permanente Luigi Veronelli, dopo la laurea a pieni voti in Storia moderna presso l’Università degli Studi di Milano si sposta a New York per lavoro e lì rimane dal 2002 al 2008. Durante i sei anni negli USA, presso l’importatore Selected Estates of Europe Ltd, opera prima in qualità di responsabile acquisti/selezionatore, e successivamente quale area manager e formatore della forza vendite. A fine 2008, scaduto il secondo permesso di lavoro negli USA, rientra in Italia e fonda UnoVino Wine Trading, ditta individuale di intermediazione in vino e prodotti alimentari verso i principali mercati export. Oggi collabora con oltre trenta aziende in Italia e in Borgogna, aiutandole a esportare in Nord Amarica, Nord Europa e Asia. In aggiunta all’attività di intermediatore con la propria ditta individuale ha ricoperto in passato il ruolo di direttore commerciale presso due aziende vitivinicole italiane di prestigio, l’azienda Gulfi in Sicilia e Tenuta Mazzolino in Lombardia.

Luca Mazzoleni

In base alla sua esperienza, quali sono le virtù maggiormente riconosciute ai vini italiani dai consumatori stranieri?

In primo luogo il grande patrimonio di vitigni autoctoni che possiede il nostro paese, da nord a sud, capace di generare una produzione vitivinicola eclettica e completa, che risponde a tutte le fasce di mercato e di gusto. I vitigni italiani offrono profumi e sapori individuali e inconfondibili, e generano una varietà di tipologie di vino, regione per regione, che è pari (se non superiore) a quella francese. Il nostro patrimonio ampelografico è la principale alternativa al sistema organico dei vitigni francesi che si sono via via imposti nel mondo tanto da diventare noti come “vitigni internazionali”. Già sul finire degli anni Novanta negli Stati Uniti si sviluppò una reazione all’omologazione dei vitigni internazionali, riassunta dall’acronimo ABC (anything but Chardonnay, tutto tranne lo Chardonnay). Pensiamo ai vitigni aromatici, per esempio, dove l’Italia detiene un vero e proprio primato mondiale per quantità e qualità di produzione: la famiglia dei Moscati, quella delle Malvasie, il Brachetto, il Traminer, l’Aleatico, il Ruché, la Lacrima di Morro d’Alba… sono vini di forte impatto sensoriale, che oggi affascinano per esempio i nuovi consumatori nei mercati dell’Asia. Ricordo un episodio… nel 2012 tenevo una degustazione di vini italiani presso una grande società di importazione alimentare ad Hangzhou in Cina. A un certo punto una giovane degustatrice presente nel pubblico disse «I don’t drink wine but I like Moscato d’Asti, it tastes like grape juice» («non bevo vino ma mi piace il Moscato d’Asti, sa di succo d’uva»).
In secondo luogo, i vini italiani sono considerati “vini da cibo”, cioè vini particolarmente adatti all’abbinamento gastronomico, anche con cucine esotiche e lontane da quella mediterranea. Questo in virtù di una gamma di aromi e sapori assai diversificata da vitigno a vitigno. Aggiungiamo a ciò un livello medio di acidità, di freschezza fruttata e di sapidità abbastanza spiccato, capace di contrastare i sapori forti di cucine piccanti o agrodolci.
Infine, penso che non vada sottovalutata la forza evocativa del brand “Italia” nell’immaginario dei consumatori extra-europei. Il nostro paese è una tra le prime destinazioni del turismo internazionale e quasi ogni grande DOC e DOCG d’Italia porta con sé il ricordo e l’immagine di una destinazione turistica di prestigio, dalla Firenze del Chianti alla Venezia del Prosecco.

Luca Mazzoleni in Giappone

I vini italiani sono apprezzati all’estero per le loro numerose qualità, ma devono sostenere una forte competizione. Quali soluzioni permetterebbero di intercettare più efficacemente i consumatori stranieri, per esempio quelli d’oltreoceano?

Se per oltreoceano intendiamo il mercato nord-americano (Stati Uniti e Canada) oppure il Giappone, cioè dei mercati “maturi” e “lavorati” da anni dai nostri consorzi ed export manager, allora si può affermare che i responsabili acquisti dei key accounts nel settore Ho.Re.Ca. delle grandi città possiedono oggi una conoscenza buona o ottima delle nostre DOC e DOCG d’Italia. Alcune tipologie di vino italiano tanto di alta gamma quanto di gamma economica, dal Barolo al Pinot Grigio, sono oggi dei main stay (presenze obbligate) in qualsiasi ristorante o enoteca di buon livello negli Stati Uniti, in Canada e in Giappone. Si è giunti a questo risultato grazie al “lavoro incrociato” svolto dai consorzi, da Vinitaly/VeronaFiere, dall’ICE, dalle Guide del vino, dagli export manager delle aziende vitivinicole italiane e dai loro importatori e sales managers, un lavoro durato decenni.
Se penso ai primi anni 2000, quando lavoravo e abitavo a New York, c’erano solo due grandi eventi dedicati al vino italiano in città, capaci di attirare la crème degli operatori professionisti e dei giornalisti americani: il Tre Bicchieri Tasting organizzato dal Gambero Rosso nel vecchio Puck Building in midtown Manhattan, e il Benvenuto Brunello Tasting, la presentazione annuale delle nuove annate di Rosso e Brunello di Montalcino patrocinata dal Consorzio. Oggigiorno invece sono tantissimi i banchi d’assaggio dedicati ai vini italiani negli Stati Uniti e in Canada, talora “itineranti” e con cadenza annuale, promossi dai consorzi (almeno quelli più grandi e con più mezzi finanziari) oppure da altri soggetti (penso ai roadshow multi-city di Slowfood e, ancora, Gambero Rosso).
D’altro lato i maggiori consorzi del vino italiano organizzano programmi di incoming in Italia riservati alla stampa e agli operatori stranieri, con un calendario ormai consolidato di tappe attraverso la penisola: penso a Grandi Langhe e Nebbiolo Prima, ad Anteprima Amarone, alle Anteprime toscane di Chianti Classico, Vino Nobile di Montepulciano e Brunello di Montalcino, ecc.
Infine, la ristorazione italiana (e pure quella Italian-sounding) è capillarmente diffusa negli Stati Uniti, in Canada e in Giappone e svolge giocoforza un’azione di promozione e popolarizzazione dei vini italiani.
Se invece per oltreoceano intendiamo la Cina e il Sud-Est Asiatico, l’India, il Sud America e i mercati di frontiera dell’Africa, del Medio Oriente e dell’Asia Centrale… la situazione è ben diversa. La ristorazione italiana non è ancora capillarmente diffusa e il lavoro “incrociato” di comunicazione e promozione dei nostri vini svolto dai consorzi o da altri soggetti ha ancora molta strada da fare.

Luca Mazzoleni in Giappone

Se si propongono denominazioni o vitigni poco conosciuti all’estero, come ne andrebbe impostata la comunicazione? È secondo lei una buona strategia valorizzarne la peculiarità o puntare soprattutto sui riferimenti vitivinicoli e territoriali è un atteggiamento rischioso?

Questa domanda è vitale e al riguardo ho una posizione piuttosto netta. Sono convinto che la strategia di comunicazione per le nostre uve autoctone vada impostata sulle loro peculiarità sensoriali e sui fattori competitivi ed evocativi del territorio d’origine. Trovo anacronistico provare oggi a fare vini di stampo “internazionale” con i nostri vitigni regionali, snaturandone e stemperandone l’identità varietale.
La curiosità e l’apertura mentale non mancano assolutamente ai buyers di qualità tanto nei mercati “maturi” che in quelli “di frontiera”. Nella mia carriera di selezionatore e sales man a New York ho mosso bancali e bancali di Grignolino, Freisa, Pelaverga, Uva di Troia, Susumaniello, Carricante, Perricone, Timorasso, Rossese, Moscato di Scanzo, ecc. e ancora oggi li vendo con grande soddisfazione… sia economica che professionale! Attenzione, non voglio sostenere che qualsiasi vino italiano prodotto da vitigni autoctoni sia di per sé competitivo e commercially viable: vini rustici, incostanti negli anni oppure senza uno spiccato carattere faranno sempre fatica sui mercati export, che siano prodotti con Montepulciano oppure con Cabernet. Ma per il tipo di clienti che io seguo i valori della preservazione dell’autoctono, della sito-specificità di una vigna legata a un terroir unico e caratterizzante, delle lavorazioni tradizionali in cantina e naturalmente dell’ecosostenibilità delle pratiche agricole sono valori decisivi.
Non siamo più negli anni Novanta del “turbo modernismo” enologico e della deregulation vitivinicola dove l’imperativo era fare un vino “palestrato” per prendere un buon punteggio dai soliti quattro giornalisti di grido. Sembra passato un secolo: Internet, i blog e il movimento dei vini naturali hanno stravolto le aspettative e la scala di valori di tutti i buyer di alto livello, da Tokyo a San Francisco. Nessuno degli importatori con cui mi interfaccio acquisterebbe mai un Etna Rosso o un Verdicchio di Matelica perché gli comunico che ha preso Tre Bicchieri o 94 punti da Parker… solo i tristi monopoli del Canada usano ancora i premi e i punteggi per le graduatorie dei loro tender. Quando ricevo i comunicati stampa dalle agenzie di comunicazione che seguono determinate aziende e leggo dei loro nuovi vini a volte ho l’impressione che i nostri enologi consulenti siano rimasti indietro rispetto al mercato. La confusione è comprensibile, c’è tanto vino, forse troppo vino sul mercato, negli ultimi vent’anni sono germogliate aziende nuove e imbottigliatori come funghi. Ricordo il mio primo Vinitaly nel 1993… gli espositori saranno stati forse la metà rispetto a oggi.
Questo detto, devo però aggiungere che l’iniziativa privata di un selezionatore o di un importatore non basta a creare market recognition per un vitigno autoctono o una denominazione minore. La comunicazione della tipicità di un vitigno o di una denominazione non può essere lasciata a una singola azienda, perché si perderebbe nel vuoto. Una comunicazione efficace va fatta a livello di gruppo di produttori, che si tratti di consorzio (laddove esiste, è unito e opera bene) oppure di libera associazione di vignaioli amici che condividono un progetto, uno stile e una visione di tipicità. E questo è un punto dolente del nostro comparto vitivinicolo, lo sappiamo, siamo un paese di individualisti che fanno fatica a fare squadra e lavorare assieme, le scissioni all’interno di tanti consorzi e la breve vita di tante associazioni export lo testimoniano.
Infine, la strategia di comunicazione di un vitigno autoctono e del suo territorio va pensata e va personalizzata in funzione del mercato estero che si vuole colpire e aprire. Non tutti i mercati esteri sono ugualmente ricettivi per la Malvasia di Casorzo oppure per il Frascati – faccio per dire. Il primo passo è indagare i gusti, le cucine, le abitudini alimentari e di consumo del vino nei diversi mercati esteri in cui si vuole esportare, per capirne il potenziale minimo e massimo. E per fare questo ci vuole curiosità, ci vuole disponibilità a viaggiare e magari anche l’umiltà di ascoltare professionisti locali in grado di agire da mediatori culturali e commerciali.

Luca Mazzoleni in Giappone

Originalità e innovazione nel packaging: su mercati che spesso non hanno i nostri stessi paradigmi culturali, infrangere le regole e proporre etichette e formati fuori dall’usuale può essere una scelta vincente o può risultare controproducente?

Una domanda molto stimolante! La capacità di innovare nella grafica e nella comunicazione del vino, in maniera anche dissacrante e “pop” appartiene ai vini del Nuovo Mondo, che si sono dovuti inventare un proprio spazio di mercato nuovo e alternativo rispetto ai vini del Vecchio Mondo, ovvero Francia, Italia, Spagna, Portogallo, Germania, ecc. Giustamente molte cantine in California, Cile, Australia, Nuova Zelanda, Sud Africa hanno puntato sul concettuale, sul logo virale, sul colore, sulla fantasia dei nomi e talora sulla provocazione bella e buona, non avendo una tradizione e un’immagine consolidata nei secoli su cui puntare. Ma i buyers ventenni o trentenni di New York, Shanghai e Singapore con i quali lavoro, che vivono in megalopoli iper-moderne e multietniche e appartengono alla generazione delle reti sociali, quando pensano al Vecchio Mondo sognano antiche cantine immerse da secoli in una verde e sonnolenta campagna, con le vigne gestite da generazioni dalla stessa famiglia fedele alle proprie tradizioni, in un mondo agricolo a misura d’uomo dove il tempo scorre più lento. Questo può far sorridere, ma noi siamo esotici per un cinese esattamente come la Cina appare esotica ai nostri occhi. Parlo della Cina anche perché il rispetto delle tradizioni e la devozione degli avi fondatori sono due pilastri del Confucianesimo, che è un po’ la loro religione di stato. Anche così si spiega la preminenza dei vini di Bordeaux in Cina, grazie alla politica conservatrice della loro comunicazione del vino bordolese (avete mai visto un vino di Bordeaux in bottiglia Borgognotta?) e a quelle etichette tutte simili ed eternamente costanti nel tempo: il disegnino del vecchio Chateau, il viale tra le vigne, il muretto, il vecchio blasone nobiliare. I nostri clienti in giro per il mondo non guardano le nostre etichette come noi le guardiamo.
Tornando al discorso su forme alternative di packaging, prendo sempre spunto dalla mia esperienza in Cina, che è proprio un mercato – si penserebbe – fluido e anticonvenzionale, cioè non irrigidito sui nostri paradigmi mentali old world ed “eurocentrici”. È un mercato che conosco bene e visito tre/quattro volte l’anno dal 2010. Se per “packaging fuori dall’usuale” intendiamo un contenitore diverso dalla bottiglia in vetro, allora non saprei indicare una success story o un “caso marketing” di alcun tipo. La bottiglia di vetro regna sovrana, magari con innovazioni vistose tipo sleeves o profili insoliti, con innesti di stoffa o brillanti, con gadget annessi o chiusure eccentriche, ma sempre bottiglia di vetro è. Non ho visto contenitori alternativi tipo lattina, plastica o tetrabrick, eccetto sulle linee aeree e sui treni, ma si tratta di un segmento tutto particolare. Esiste invece il mercato dei bag-in-box, che è in crescita come nel Nord America e nel Nord Europa, e sul quale si può fare un discorso a parte.
Come nota di colore… mi è capitato di esportare vecchi Marsala di pregio in bottiglie di ceramica (apprezzatissime in Cina peraltro perché il rice wine o vino di riso Cinese è quasi sempre imbottigliato in flaconi di ceramica), ma parliamo di un caso isolato e un prodotto molto particolare. Perciò, per la mia esperienza personale anche nei mercati di frontiera e lontani dalla cultura del vino del vecchio mondo, la bottiglia di vetro rimane ancora oggi, nel 2019, il contenitore largamente dominante per i vini di qualità e anche per quelli di massa.

Luca Mazzoleni in Giappone

Fermo restando che le classiche bottiglie di vetro da 0,75 l continuano a detenere la maggiore quota di mercato a valore (72,5%), da una recente analisi Nielsen si evince che tra il 2016 e il 2017 negli USA, in GDO, il valore a crescita più rilevante è stato quello dei vini in lattina (+59,5%). Come commenta questi dati? Secondo la sua esperienza, l’adozione di un wine package design alternativo può essere un driver chiave negli acquisti?

È significativo che la ricerca Nielsen da lei citata si riferisca alla GDO. In GDO valgono regole diverse rispetto all’Ho.Re.Ca. e il comportamento dei consumatori è più disinvolto e impulsivo, inoltre il vino è un articolo in vendita tra tanti altri e appare meno “aulico”, meno incorniciato in un’immagine tradizionale da enoteca. Mi è capitato di trattare con catene americane della GDO come Trader Joe’s o WholeFoods ma sempre e solo per vini in bottiglia.
La principale alternativa al vetro è il bag-in-box, in costante crescita anche per impulso di una certa immagine “ecologica” associata a questo formato (in effetti c’è meno scarto di vetro, tappi, etichette, capsule), soprattutto in Scandinavia e nel resto del Nord Europa. Al riguardo il fenomeno più interessante è quello dei bag-in-box per vini medium range o premium, e potrei citare il caso di una famosa azienda di Langa il cui fatturato è basato in buona parte sulle vendite di Barbera, Dolcetto, Nebbiolo, ecc. di buona qualità in bag-in-box, per il mercato norvegese.
Nel mercato USA questa tendenza non è ancora pienamente recepita, i vini bag-in-box sono vini di consumo quotidiano o house wine in ristoranti e steakhouses. Un fenomeno tipicamente americano è quello dei vini in bottiglione da 1,5 litri, detti anche jug wines (vini damigiana): un fenomeno che da noi è andato scemando, penso anche in GDO, e che invece resiste ancora negli States ed è legato alla natura del territorio americano, dove lo shopping si fa in SUV e si carica il pick-up sul retro delle enoteche. Per la mia limitata esperienza direi che il bag-in-box è il principale formato alternativo al vetro, molto più che la lattina o il tetrabrick.

I produttori italiani come stanno rispondendo all’evoluzione del mercato? Tendono a rimanere fedeli al vetro o sperimentano nuovi formati di packaging per competere a livello internazionale?

Sperimentare nuovi formati e nuovi materiali di packaging richiede capitali. Se guardo al parco aziende italiane con cui lavoro oggi soltanto le cantine cooperative o gli imbottigliatori privati di grandi dimensioni sono attrezzati per gestire una linea bag-in-box o una chiusura Stelvin/Screwcap. Questo lo capisco, se non c’è la domanda, se non c’è la massa critica per implementare un packaging alternativo, semplicemente non lo si fa. Produrre vino è già di per sé un’attività che richiede elevata liquidità e anticipo di capitali, con ritorni sull’investimento iniziale medio-lunghi o lunghi… e la testa di tanti produttori è sempre sugli investimenti da fare in vigna e in cantina, prima di tutto. Questo lo capisco, è naturale.
D’altra parte vini ottimi e con un ottimo potenziale di mercato possono essere penalizzati da etichette inadeguate a comunicare il messaggio che il vino contenuto all’interno porta in sé (ovvio per il produttore, ma sconosciuto all’operatore e al consumatore). È vero che l’etichetta la propone il grafico, ma il capitolato e i core values, i valori chiave che l’etichetta deve manifestare non possono non provenire dal produttore. È vero che Michelangelo ha dipinto la cappella Sistina, ma fu Papa Giulio II con i suoi consiglieri a dettargli il “capitolato” per l’affresco, cosa rappresentare e quali santi, quali profeti e quali demoni inserire nei diversi punti della volta…

Luca Mazzoleni in Giappone

Un’etichetta innovativa e fuori dagli schemi può, e come, influire sulla percezione di valore e la reputazione dell’azienda?

Durante l’ultimo viaggio di lavoro in Cina, un paio di mesi fa, ho visto il Terminal 1 dell’Aeroporto Internazionale Pudong di Shanghai completamente tappezzato da enormi banner pubblicitari della nota marca di Champagne Moët & Chandon, che promuovevano con una grafica iper aggressiva e “techno pop” il loro primo Champagne da bere con i cubetti di ghiaccio dentro… in bicchieri di plastica colorati di bianco e logati Moët & Chandon. Basta cercare su Google “Moët Ice Impérial”; è sia Demi-Sec che Demi-Sec Rosé, proposto in sobrie bottiglie con sleeve multicolori. Beh, che dire… se una multinazionale del lusso come LVMH sviluppa oggi una campagna pubblicitaria di questo tipo per uno dei marchi francesi di più lunga storia e prestigio, in barba a una AOC gloriosa come la Champagne, nel segmento delle bollicine premium… tutto è possibile! Cosa avremmo detto in Italia se una delle nostre grandi aziende spumantistiche se ne fosse uscita con una campagna di marketing di questo tipo? Eppure nessuno tra i nostri bloggers o giornalisti ha gridato allo scandalo di fronte a un nome come Moët & Chandon. Si tratta di un estremo e forse solo Moët & Chandon può permettersi questo tipo di shock marketing. Mi dispiace suonare un po’ conservatore e vecchio stile, ma francamente mi è capitato tante e tante volte di constatare rassegnato che le buone vecchie etichette degli anni ‘60, ‘70 o ‘80 erano molto più iconiche e identitarie dei successivi tristi restyling “concettuali”, minimal e di “alleggerimento”.
Da questo punto di vista i nostri amati-odiati cugini francesi dimostrano di saperla molto più lunga di noi, e di conoscere meglio i propri vantaggi competitivi: la tradizione, la storicità, l’immutabilità di una storia familiare. Non ricordo casi di aziende top in Borgogna, a Bordeaux, in Alsazia, in Rodano o in Champagne che abbiano stravolto il proprio marchio e le etichette da un giorno all’altro. Mi piacerebbe fare un confronto tra spesa media per studio grafico e sviluppo del marchio dell’azienda vitivinicola media in Francia vs Italia… Lo so, l’Italia è la patria dell’industrial design, siamo tutti designer, appassionati d’arte e individualisti nel gusto e nello stile… ma io tremo ogni volta che un produttore mi annuncia: «sai, sto rifacendo le etichette, ci voleva una rinfrescata, te le manderò a breve». Booom! In primo luogo su molti mercati le etichette vanno approvate, e una nuova etichetta vuol dire nuova approvazione: è lavoro in più per me e per il mio importatore. In secondo luogo faccio sempre presente che se un giorno io vado al supermercato per comprare la pasta Barilla e non vedo più la macchia blu compatta sullo scaffale che da sempre segnala le confezioni Barilla… è più facile che io acquisti un’altra marca. Un packaging stabile nel tempo suscita nel consumatore quel family feeling o familiarità col marchio che i teorici del marketing cognitivo indicano come un obiettivo strategico da raggiungere. Una buona fetta di consumatori è pigra e si muove con moduli di comportamento inerziali, ripetitivi… A volte mi sembra che certi produttori sentano il bisogno di cambiare le etichette dei loro vini per noia o per moda, come si cambia l’auto vecchia con l’ultimo modello o il guardaroba in base al colore in voga questo autunno. Il caso peggiore è quando la nuova veste grafica della bottiglia, sviluppata magari da un grafico lasciato solo, sul quale il produttore ha scaricato interamente la responsabilità di “rinnovare l’immagine aziendale” è assolutamente anonima, genericamente “contemporanea” senza capacità di evocare il territorio di provenienza. Oppure peggio, capita che una nuova etichetta sia in evidente contrasto con la natura e il profilo sensoriale del vino che rappresenta, e altresì con il nucleo di valori incarnati dall’azienda. Può succedere. Naturalmente queste considerazioni valgono per denominazioni e aziende con una lunga tradizione alle spalle, e non sono poche in Italia. Non si applicano ad aziende giovani e denominazioni d’origine prive di una immagine consolidata.

Tag Intervista, Luca Mazzoleni, Millennials, Packaging

26 / 11 / 2018

Professione wine designer: Giacomo Bersanetti racconta ad Altroconsumo.

Le recensioni di oltre 300 prodotti, approfondimenti, informazioni preziose e consigli utili per capire come viene prodotto il vino, come conservarlo correttamente, come degustarlo: tutto questo è la Guida Vini di Altroconsumo, che nell’edizione 2019, appena pubblicata, ospita un intervento del nostro Giacomo Bersanetti, a cui sono state poste alcune domande sulla professione del wine designer.
Vi proponiamo un estratto dell’intervista, consultabile per intero sulla Guida Vini 2019 di Altroconsumo.

Intervista SGA Guida Vini 2019 Altroconsumo

Come nasce la vostra azienda?
Ho conosciuto Chiara Veronelli e Francesco Voltolina, che insieme a me costituiscono il nucleo progettuale dell’azienda, durante il mio percorso formativo in ambito artistico, terminato con gli studi all’Accademia di Belle Arti di Brera.
Per la precisione l’azienda nasce nel 1983 con il nome Congegno, in seguito Studio Grafico Artigiano, che nel 2006 evolve in SGA Corporate & Packaging Design […]. Oggi siamo un gruppo di circa 15 persone che condividono obiettivi e metodologia, sempre aperti a nuovi progetti creativi.

braida
Le lettere “saltellanti” delle etichette la Monella e Bricco dell’Uccellone ricordano la tipologia di vino frizzante e la personalità vivace del proprietario dell’azienda che ha commissionato il lavoro.

Qual è stato il vostro percorso e perché avete deciso di orientarvi nel settore wine & spirits?
La prima vestizione di una bottiglia risale al 1983: si trattava dei vini la Monella e il Bricco dell’Uccellone dell’azienda Braida. Ci venne dato un acconto per lo studio di nuove etichette insieme a due casse di vino e noi, giovani progettisti all’inizio della nostra esperienza lavorativa, ci mettemmo a lavorare con entusiasmo, cercando di trasmettere lo spirito innovativo di Giacomo Bologna, il proprietario dell’azienda che ci aveva commissionato il lavoro. Ancora oggi questi vini sono venduti con le stesse etichette progettate da noi 35 anni fa. L’approccio sperimentale e innovativo che abbiamo messo fin dall’inizio nel nostro lavoro deriva dalle nostre esperienze nel mondo dell’arte visiva e da ricerche in ambito artistico. Lo stesso atteggiamento che abbiamo utilizzato, nel 1984, quando abbiamo realizzato la nuova veste delle bottiglie dell’azienda Cascina Castlét. […] Era la prima volta che la serigrafia veniva sperimentata su una bottiglia di vino.
In quegli anni ci siamo dedicati anche ad altri campi […], tuttavia, con il passare del tempo, abbiamo deciso di orientare la maggior parte dei nostri sforzi al mondo del vino, un mondo che ci appassiona e che ci permette grande libertà di espressione. […]

Quali sono le professionalità che compongono il vostro team?
Oltre ai progettisti che seguono ogni fase del lavoro, dal brainstorming iniziale alla consegna finale, e ai grafici, il nostro team è formato da consulenti di marketing e specialisti in ricerche di mercato. Questo ci permette di effettuare un’analisi strategica che preceda lo sviluppo del packaging o di un’immagine: prima si definiscono l’identità e i valori dell’azienda […]. È l’autenticità il pilastro su cui costruire qualsiasi progetto.
Fanno inoltre parte del nostro team gli account per la relazione con i clienti; inoltre si collabora intensamente con una web agency per i siti internet, con architetti per lo studio di stand e con copywriter per la comunicazione e la creazione di nomi per aziende o prodotti. Le diverse professionalità ci permettono di studiare un’azienda a 360 gradi: l’obiettivo è differenziarsi. […]

cascina castlet
Le bottiglie serigrafate dell’azienda piemontese Cascina Castlét.

Quale percorso formativo consigliate per specializzarsi nel settore? Quali sono le competenze che deve avere un “comunicatore del vino”?
Quasi tutti i giovani che fanno parte del nostro team provengono da ambiti artistici, come l’Accademia di Belle Arti, il liceo artistico o scuole di design. Non esistono percorsi o strutture formative specifici, a parte il master “Wine & System Design” del Politecnico di Milano, creato negli ultimi anni. Tuttavia, per fare questo tipo di lavoro, è importante avere una base di studi d’arte a cui si devono intrecciare competenze in ambito filosofico, psicologico e anche tecnico. Soprattutto, chi lavora in questo campo deve amare e conoscere il vino. […]

pio cesare barolo chinato
La bottiglia di Barolo Chinato della Casa vinicola Pio Cesare, oggetto di un restyling che potrebbe definirsi “vintage”.

Come sono cambiate le richieste di design nel tempo e di conseguenza come si sono modificate le etichette?
Fino agli anni ‘80 le etichette tendevano a raffigurare il luogo di origine o la proprietà e l’atteggiamento dei produttori era l’opposto di quello attuale: erano portati a imitarsi, a differenza di oggi, che si punta sull’originalità.
L’etichetta era inoltre caratterizzata dalla presenza di una grande quantità di informazioni: era un supporto comunicativo, pubblicitario e spesso erano presenti i premi acquisiti o i riconoscimenti dati all’azienda. L’anno scorso abbiamo realizzato il restyling delle bottiglie dell’azienda Pio Cesare richiamando proprio questo tipo di linguaggio e di immagine, caratterizzato dalla presenza di medaglie, concorsi, frasi o titoli come “Premiata Casa vinicola”.
Oggi, per lo più, sull’etichetta si usa riportare solo le informazioni essenziali […]. È stato proprio il mercato italiano, per differenziarsi dalle etichette francesi ricche di decorazioni, a puntare sull’essenzialità, abbandonando la vecchia ridondanza.
L’etichetta è cambiata non solo nella componente grafica ma anche da un punto di vista materiale: è importante che oggi sia affidabile e duratura nel tempo, quindi che non si stacchi dalla sua bottiglia […] nemmeno in caso di immersione nel secchiello […].

Qual è la cosa più complicata nel creare il packaging di una bottiglia di vino? Ci sono delle regole a cui si deve sottostare?
La cosa più difficile è individuare gli elementi distintivi che caratterizzano e differenziano le varie realtà; spesso in un’unica, piccola area sono presenti molti produttori che hanno necessità di differenziarsi. A volte il nostro intervento si traduce in una sorta di percorso introspettivo per fare emergere i valori identitari dell’azienda. Per questo motivo il rapporto che si instaura con i clienti è molto stretto.
Le regole da seguire sono legate alle normative, come l’obbligo di fornire alcune informazioni in etichetta; […] spesso è necessario consultare enti come l’Ufficio Repressione Frodi, la Camera di Commercio, i Consorzi o gli studi legali specializzati in questo ambito.

vignaioli di santo stefano
Le linee essenziali della bottiglia di Moscato d’Asti dei Vignaioli di Santo Stefano. L’etichetta è ispirata al romanzo “La luna e i falò” di Cesare Pavese.

Esiste un legame tra la forma e le caratteristiche della bottiglia e la tipologia di etichetta che viene creata?
[…] Il rapporto fra etichetta e corpo della bottiglia è uno degli aspetti determinanti. Negli ultimi 30 anni le forme delle bottiglie sono molto cambiate, diventando più belle e funzionali, caratterizzate da linee geometriche essenziali. Ne è un esempio il Moscato d’Asti dei Vignaioli di Santo Stefano di Ceretto: le linee della bottiglia sono gotiche e la soluzione adottata è stata per quel tempo, il 1987, assolutamente innovativa. Si staccava da tutto quello che era presente fino a quel momento sul mercato e fu presa d’esempio da molte aziende.
Un altro caso interessante per capire l’importanza della forma della bottiglia è quello del vino Ora da Re della Cantina dei Feudi. Il consorzio, allora committente, facendo dei lavori di restauro di una masseria siciliana, scoprì 9 botti di vino murate per oltre 60 anni. Furono fatti assaggi e coinvolti esperti come Luigi Veronelli, che diede il nome al vino e patrocinò l’iniziativa. Per l’operazione disegnammo il marchio, l’etichetta, il secondary packaging e, in particolare la forma della bottiglia. Per accentuare la forte componente temporale che caratterizzava quel vino particolare allungammo il collo di almeno tre volte.

ora da re
La bottiglia del vino Ora da Re ha una forma molto particolare, con il collo molto allungato.

In che modo i diversi target influiscono sulla creazione di un’etichetta?
Per alcuni target si utilizza un linguaggio specifico: è il caso del target legato al “mondo della notte” (discoteche e locali notturni). Oppure per i paesi nordici che preferiscono messaggi semplici, di forte impatto e che veicolino un contenuto di naturalità ed ecosostenibilità. Il mercato cinese, invece, ama etichette tradizionali. In linea di massima, comunque, i produttori preferiscono stabilire un dialogo con il consumatore indipendentemente da fascia d’età, genere e paese di appartenenza, trasmettendo messaggi trasversali.

Anche la tipologia di carta influenza la percezione? In quale modo?
Certo, moltissimo. Esistono centinaia di supporti. I supporti patinati restituiscono meglio il colore vivo, brillante; con carte naturali si ottiene invece un effetto opaco e morbido. Così, l’etichetta di un vino biologico può preferire una carta che restituisca un senso di naturalità e che provenga da cartiere allineate alle campagne di produzione di rinnovamento delle fonti. Ci sono poi anche carte metallizzate, perlescenti, supporti che rispondono al tatto e alla luce in modo diverso.

Un’ultima domanda. In che modo curate tutta la linea di un intero produttore? Come approcciate l’intero progetto?
Cerchiamo di dare coerenza all’intero progetto e armonia a tutti gli elementi che lo compongono. È importante individuare il valore di autenticità dell’azienda e su questa costruire tutta la comunicazione. Ad esempio […] per Alois Legeder, in occasione del lancio del restyling della Linea Classici, abbiamo creato un packaging particolare che conteneva cinque bottiglie, ognuna caratterizzata da un motivo artistico differente disegnato da un diverso artista.

Tag Intervista, Packaging, Press

14 / 09 / 2018

Cesare Pillon, il giornalista enogastronomico più preparato, colto e brillante d’Italia si racconta.

Nella prefazione al Manuale di Conversazione Vinicola, il caporedattore del Corriere della Sera Luciano Ferraro lo descrive così: «Pillon è dagli anni ’70 il giornalista che si occupa di vino di gran lunga più preparato, colto e brillante d’Italia». Lo abbiamo intervistato: ci ha raccontato della sua passione per l’enogastronomia, delle origini del suo percorso professionale, del giornalismo specializzato oggi.

Nato a Torino nel 1931, di origini venete, Cesare Pillon è diventato giornalista a 21 anni: ha iniziato il proprio percorso professionale all’Unità, collaborando nel corso della sua carriera con testate di prestigio come il Corriere della Sera e Il Mondo. Si è occupato di cronaca nera, politica, economia, costume, critica cinematografica. Ha dato alle stampe diversi volumi sulla storia del movimento operaio.
Dal 1979 in poi si è dedicato all’enogastronomia con innumerevoli pubblicazioni, è l’autore delle voci storico-culturali dell’Enciclopedia del Vino edita da Boroli; ha partecipato alla commissione che ha permesso a Christie’s di organizzare la prima asta dei vini italiani. Continua a scrivere di vino e analizzare il mercato su Milano Finanza.

Cesare, lei ha dichiarato: «sono venuto al mondo nel 1931, una delle più grandi vendemmie del secolo scorso, soprattutto per i rossi. Il vino, evidentemente, faceva parte del mio patrimonio genetico, era scritto nel mio destino». Dopo essersi occupato di tantissime tematiche per importanti testate, perché ha scelto di dedicarsi al mondo del vino?
Perché ho scoperto che chiunque faccia un grande vino, a qualunque ceto sociale appartenga, qualunque livello di cultura abbia, non è mai un personaggio banale. Mentre si possono fare, per esempio, delle belle automobili senza essere umanamente intensi, per fare un grande vino bisogna avere una personalità di grande spessore. È questo che mi ha affascinato, facendomi decidere che appena fosse stato possibile mi sarei occupato solo di vino e di gastronomia.

La sua carriera iniziale, fino ai 48 anni d’età, ha riguardato altri temi. Ciò l’ha aiutata nel trattare il vino?
Assolutamente sì. Di qualunque cosa mi sia occupato, di economia, di malasanità… è servito tutto. Non c’è un’esperienza della mia vita che non mi sia servita al momento opportuno per capire meglio il vino. La mia passione di ragazzino per la chimica, il mio interesse per la storia. La storia del vino è uno degli elementi che mi hanno attirato di più. Fa parte della storia umana. Non si può capire l’evoluzione umana senza avere anche la percezione di come si sono evoluti il vino e il rapporto dell’uomo con il vino.

Come si svolgeva il lavoro del giornalista negli anni del suo debutto nel mondo dell’enogastronomia?
I giornali si componevano ancora con caratteri di piombo, non erano realizzati in digitale. Non c’era Internet; le notizie non arrivavano più per telescrivente, ma arrivavano ancora via fax. Le interviste si facevano di persona, non per telefono o inviando le domande e ricevendo risposte prefabbricate via mail. Insomma, il lavoro si svolgeva in modo molto più diretto. Più difficile, più complicato, più lungo, più faticoso. Ma certamente più sano.

Quali incontri sono stati fondamentali per la sua formazione professionale?
L’incontro davvero fondamentale è stato quello con Luigi Veronelli. Ne ho scritto qualche anno fa, raccontando come è avvenuto e perché ha cambiato la mia vita.
L’ho conosciuto perché dovevo chiedergli di fare un inserto sul vino per Il Mondo; lui non poteva perché aveva un contratto in esclusiva con la Mondadori, però mi diede tutto l’aiuto possibile. Una volta pubblicato incoraggiò me, il mio editore, Paolo Panerai, e tutti i vignaioli che conosceva affinché mi aiutassero a proseguire sulla strada dell’enogastronomia.
Del resto quando ho incontrato Gino mi sembrava di conoscerlo già da anni: avevo sempre letto tutto quanto aveva scritto. Non sono mai riuscito a comporre un vero archivio delle mie pubblicazioni, ma di quello che scriveva lui sì. Tutte le sue rubriche su Panorama incollate su strisce di cartoncino, elencate per bene. Vedendolo di persona mi era sembrato semplicemente di approfondire una vecchia conoscenza.

Cosa ha comportato per lei l’opportunità di partecipare alla realizzazione dell’Enciclopedia del Vino?
Arrivando dopo 25, forse anche 30 anni, dal mio debutto nell’ambito del vino, è stata un’occasione per fare un bilancio di questa esperienza. Mi sono reso conto in quel momento che, per un colpo di fortuna, avevo assistito al rinascimento del vino italiano, perché avevo cominciato proprio negli anni in cui aveva toccato il livello più basso; da quel punto non poteva che risalire. E infatti è risalito, eccome.

C’è qualche episodio vissuto nel corso della sua carriera di cui conserva un particolare ricordo?
Ho un ricordo molto preciso di un episodio avvenuto proprio agli inizi del mio percorso nell’enogastronomia. Facevo un’indagine a Montalcino quando conobbi il conte Costanti: aveva tutte le caratteristiche di ciò che qualche anno prima avrei detestato. Era un nobile, un aristocratico, era stato podestà durante il periodo fascista… E invece ci siamo trovati in una tale sintonia che finalmente ho capito: le etichette non servono, gli uomini bisogna giudicarli uno per uno. Da quel momento ho cominciato a battermi contro le intolleranze. Intollerante non lo ero mai stato, ma da allora ho maturato la certezza che l’intolleranza è veramente uno dei sentimenti peggiori che l’uomo può provare.

Pillon
Cesare Pillon e Giacomo Bersanetti

Lei ha scritto per molte testate e case editrici. Come crede sia cambiato il rapporto della stampa e del giornalismo rispetto al mondo del vino e a che punto ritiene sia oggi?
Sono molto preoccupato perché ci sono dei sintomi di un atteggiamento che non è più sano, che non è più giusto, che non è più tollerabile. Per carità, c’è stata una democratizzazione, se vogliamo, del mondo del vino. Internet permette ormai anche alle piccole aziende di comunicare direttamente con i giornalisti; in genere lo fanno attraverso le compagnie di pubbliche relazioni, che si sono moltiplicate a dismisura.
Una volta i comunicati stampa si facevano per eventi veramente importanti; si spedivano per telescrivente oppure si mandavano per posta al giornalista specializzato imponendo un embargo perché non fosse danneggiato chi lo riceveva per ultimo. Era una cosa complicata, lunga, costosa.
Internet ha facilitato tutto, e infatti mi arriva di tutto, compresi comunicati che chiedono la pubblicazione di notizie insignificanti in modo discutibile, se non offensivo. Trovo questo decadimento molto brutto.

Alla fine degli anni ‘70, quando cominciò a occuparsi di gastronomia e di enologia, queste tematiche non erano “mainstream” come sono attualmente. Trova che la loro diffusione sia un vantaggio per il settore oppure ritiene si possa parlare di una sovraesposizione? Cosa comporta tutto ciò?
Che ci sia una sovraesposizione è verissimo. Io ho avuto la fortuna di collaborare con le testate dirette da Panerai che, molto sensibile a questo tema, aveva favorito la pubblicazione di articoli sul vino in un momento in cui questo era del tutto insolito.
Però adesso si esagera. C’è stato un appiattimento generale sulla degustazione: nell’80 percento dei casi la comunicazione è imperniata solo sulla degustazione.
Io ho sempre cercato di raccontare le storie degli uomini del vino, degli uomini che fanno il vino. Sono convinto che il fattore fondamentale per i grandi vini sia il cru, la vigna eletta, ma anche l’uomo che la coltiva è cruciale. E soprattutto nella mia attività di giornalista, non solo di giornalista enogastronomico, sono sempre stato convinto che le idee non appassionano nessuno. Ciò che interessa sono le storie degli uomini. È attraverso le storie degli uomini che si può ottenere il consenso per le idee. Lo sanno bene i populisti di oggi, che fanno perno su paure create appositamente per ottenere il consenso intorno alle loro ambizioni.

Com’è cambiato il legame del mondo del vino con il mondo della finanza da quando scrisse il primo numero della guida per manager enofili nel ’79?
Avevamo imbastito questa pubblicazione per una sezione del settimanale economico Il Mondo intitolata “Affari Personali” perché era destinata a quei manager, imprenditori, lettori che erano personalmente interessati a questo tema.
Adesso è cambiato tutto: ci sono state delle esperienze di vini venduti en primeur, esistono dei fondi di investimento nel vino, c’è soprattutto un interesse per l’investimento nel vino e quindi per le aste. Devo dire, tuttavia, che per ora sono ancora l’unico giornalista italiano che segue le aste con continuità su Milano Finanza.

Lei è iscritto all’Ordine dei Giornalisti da oltre 50 anni. In questo arco di tempo la professione giornalistica è cambiata radicalmente. Quali sfide si trova ad affrontare il giornalista di settore oggi?
I giornalisti di oggi si trovano di fronte ai grossi problemi posti da Internet, che sta subordinando tutto alla pubblicità. I mezzi che in questo momento hanno successo sono forniti gratis al fruitore via Internet, però sono schiavi della pubblicità. Questo non è sano.
La sfida che il giornalista di oggi deve vincere (non lo invidio) non è semplice perché in realtà il fenomeno, come tutti i fenomeni umani, ha due facce: una è molto positiva, la democratizzazione della comunicazione, il fatto che tutti possano intervenire. Però c’è un lato negativo. E devo dire che i giornalisti sono forse quelli che devono temere di più. Il fatto che il diritto d’autore non venga riconosciuto (il tentativo di farlo pagare ha già provocato una reazione di Trump che sostiene si tratti di un attacco alle basi stesse degli Stati Uniti) è davvero preoccupante.

Il linguaggio della critica enogastronomica in Italia è cambiato nel corso degli anni? In che modo?
Sì, è cambiato: il fatto che possano intervenire tutti ne ha sicuramente abbassato il livello. Siamo lontani da quando se ne occupavano Gino Veronelli, un uomo di una cultura sterminata, o Mario Soldati, personaggi che hanno scritto pagine letterarie molto importanti sul vino. In questo momento, certo, è tutto molto banalizzato. Però penso si tratti di un fenomeno transitorio. Qualunque forma di democratizzazione comincia con un abbassamento del livello generale però poi riparte verso l’alto.

Ogni anno si occupa anche di incrociare i voti delle principali guide italiane, tuttavia dichiarato di «non aver mai dato “voti” ai vini», e in passato ha espresso la sua solidarietà a Gualtiero Marchesi, quando contestava la «pretesa di rendere oggettivo un parere espresso in base al gusto personale». Qual è la sua posizione rispetto ai punteggi dati dalle guide gastronomiche o enogastronomiche?
Le guide gastronomiche in questo momento non vivono un momento felice, sono sicuramente in declino. Non sono più la Bibbia del consumatore e questo, devo dire, è un lato positivo dell’irruzione di Internet.
In merito alla questione dei voti: io ho cercato di umanizzarla incrociando i voti di tutte le guide in modo da ottenere l’entità del consenso collettivo intorno a un vino piuttosto che a un altro. Però il fatto di dare dei voti a un vino l’ho sempre considerato un po’arbitrario. Il vino si apprezza per le emozioni che può dare. E le emozioni variano a seconda del momento, a seconda di chi lo assaggia, a seconda delle sue abitudini. È troppo personale insomma. Certo, ci sono dei grandi vini di indiscussa importanza per tutti, per chiunque ami il vino, e dei vini che ne hanno di meno. Però da questo a dire che quello vale 99 e questo 97,5 ce ne corre.

Carla, Cesare Pillon
Carla e Cesare Pillon.

Quando si avvicina a un vino, che cosa cerca, che cosa spera di trovare?
Delle emozioni nuove e dei personaggi insoliti, che mi colpiscano. Ecco, di questo il mondo del vino è ricchissimo: di gente veramente straordinaria, di amicizie che nascono attorno a una bottiglia. È difficile stabilire un rapporto altrettanto intenso con un astemio.

 

Tag Cesare Pillon, Intervista, SGA Wine design

24 / 04 / 2018

Nell’oasi della Lugana l’anima di Zenato, incontro con gli autori: Avesani e Radino.

Le straordinarie foto di Francesco Radino, gli interessanti e coinvolgenti contributi di Bruno Avesani e Cesare Pillon: è stata inaugurata lo scorso 12 aprile, nella magica atmosfera della Biblioteca capitolare di Verona, la mostra “Nell’oasi della Lugana l’anima di Zenato”.

Mostra L'oasi della Lugana, l'anima di Zenato

Come curatori del progetto della mostra e del volume che l’accompagna, non potevamo mancare al vernissage, introdotto dal Prefetto della Biblioteca capitolare Monsignor Fasani, presenti la famiglia Zenato, l’editore Biblos e il sindaco del capoluogo scaligero, Federico Sboarina. Naturalmente c’erano anche gli autori, cui abbiamo avuto occasione di rivolgere qualche domanda.

Conferenza L'oasi della Lugana, l'anima di Zenato
I relatori introdotti da Mons. Bruno Fasani

Bruno Avesani, docente di lettere nei licei, socio corrispondente dell’Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere di Verona, ha condotto una sistematica e appassionata esplorazione del territorio veronese intesa a mettere in luce i caratteri originali di piccole collettività. Ha dato alle stampe una decina di monografie focalizzate sulla storia di comunità veronesi, sulla base di scrupolosi dati archivistici e indagini condotte sui luoghi, rilevazioni fotografiche e cartografiche. In questi ultimi anni ha indirizzato i suoi studi sulle attività vitivinicole di importanti aziende operanti nel veronese.

Il racconto, in inglese storytelling, della propria storia e dei propri valori, per le piccole aziende vinicole costituisce un’attività indispensabile.
Qual è secondo lei il giusto approccio?

Le aziende vinicole hanno la responsabilità di raccontare la storia del territorio. La vite, presente nel paesaggio dall’inizio della civiltà occidentale, in questi ultimi tempi è diventata l’espressione più alta dell’agricoltura nel nostro territorio, un elemento valorizzante. Per avere coscienza di quello che è stata la vite nel passato e di quello che è oggi, bisogna prestare attenzione alla storia. La vite stessa è storia del territorio.

Perdita di memoria, superficialità e frammentarietà, impoverimento del linguaggio. Che utilità possono avere iniziative culturali in relazione al contesto attuale?
Oggi fare qualsiasi attività significa fare delle scelte ponderate, che non sono mai date una volta per tutte, ma che vanno rinnovate ogni giorno. Se noi agiamo nel territorio conoscendone il passato e facendo un progetto per il futuro possiamo fare le scelte giuste.

Come storico e conoscitore del territorio veronese, quali ritiene siano stati i cambiamenti più significativi avvenuti in quest’area?
Nel veronese ci sono stati dei cambiamenti epocali a partire dalla rivoluzione industriale, che ha sconvolto e rimodellato notevolmente il nostro territorio. Oggi è doveroso prendere coscienza di questi mutamenti, ma anche cessare di avere un atteggiamento consumistico verso il territorio. Noi possiamo usarlo, trasformarlo se necessario, ma sempre nell’ottica di un progetto per il futuro e soprattutto sempre con rispetto. L’obiettivo è avere un territorio che sia migliore domani di quello che è oggi.

Francesco Radino L'oasi della Lugana, l'anima di Zenato
Francesco Radino

Francesco Radino nasce a Bagno a Ripoli da genitori entrambi pittori. Dopo gli studi di sociologia a Trento nel 1970 decide di diventare fotografo professionista e sceglie di operare in vari ambiti: fotografia sociale, fotografia industriale, design, architettura, paesaggio. È oggi considerato uno degli autori più influenti nel panorama della fotografia contemporanea in Italia.

«Non è lo spazio che dev’essere eccezionale ma lo sguardo di chi osserva». Può approfondire questa sua affermazione?
Questa è una delle chiavi della fotografia: lo sguardo. Ci sono fotografie di bei posti e ci sono sguardi che osservano e scavano e vanno in profondità. La fotografia è un linguaggio metastorico, un linguaggio che sta accanto a quello della realtà, in cui il tempo deraglia e si ferma. Si ferma all’interno di una messa in scena in cui lo sguardo è determinante più che la realtà stessa. Può per esempio capitare che posti insignificanti diventino significanti e diventino grandi immagini attraverso lo sguardo di grandi autori. Ne è un esempio Robert Frank, che a volte fotografa soggetti che possono sembrare insignificanti ma che vanno in profondità nella realtà, che ci portano un grande rimando nell’indagine dei luoghi, nell’indagine degli sguardi, delle storie delle persone. Quindi nella documentazione e nella ricerca dell’identità dei luoghi e dei popoli.

Dalla sua ricerca emerge una sensibilità che sconfina in quella artistica.
Ce ne può parlare?

Ho avuto entrambi i genitori pittori e la mia formazione è stata più pittorica che fotografica. Da bambino mi portavano a vedere le mostre dei grandi autori del Novecento, degli impressionisti, della fotografia antica e moderna. Così ho cominciato a capire i concetti, le modalità e le forme della rappresentazione che poi si propaga all’immagine fotografica e vive attraverso gli stessi equilibri. Una messa in scena in cui un aspetto della realtà viene inquadrato, rivisitato; viene scelto il momento, la luce, la densità e il colore. E si produce una trasformazione attraverso lo sguardo di chi realizza l’immagine e attraverso il mezzo tecnologico che ci permette di realizzarla. L’unione di queste cose, tutto il portato della storia e dell’esperienza di chi guarda e tutta la tecnologia che poi produce l’immagine si fondono insieme per produrre un immaginario che è unico per ogni autore.

Nel recente lavoro svolto per Zenato in Lugana il suo sguardo sembra liberarsi ancor più, restituendo immagini di luce e colore. Guardando queste immagini si ha l’impressione di oltrepassare la realtà e di trovarsi in uno spazio onirico.
Questa è un’altra delle caratteristiche della fotografia: ha molto a che vedere con l’immaginazione, il sogno. Non è la realtà determinante ma proprio la capacità degli autori di farsi trasportare all’interno dell’immagine, di produrre delle immagini che partono dalla realtà ma si allontanano rapidamente da essa. Quindi, soprattutto in questo lavoro che raccoglie immagini di un luogo magico, tra Lombardia e Veneto, è facile lasciarsi prendere dai colori, dalle forme, da una visione che si astrae dalla documentazione e va oltre; produce delle impressioni, produce dei colpi di luce, dei colpi d’occhio che diventano il tessuto portante del racconto e che gli danno forza. Lo stesso vigore si è riversato nell’obiettivo che mi ero preposto, quello di raccontare un territorio, una produzione, senza un’intenzione documentaria, ma con una visione puramente onirica.

Mostra L'oasi della Lugana, l'anima di Zenato
Da sinistra: Bruno Avesani, Francesco Radino, Giacomo Bersanetti, Nadia Zenato, Luciano Ferraro, Cesare Pillon.

Tag Evento, Intervista

05 / 04 / 2018

Progetto di nuovo catalogo per i supporti autoadesivi di UPM Raflatac.

UPM Raflatac è uno dei leader - a livello mondiale - fra i produttori di supporti autoadesivi. Fornisce carte e film di alto livello qualitativo sia per prodotti destinati al consumo, che per l’industria; grazie ad una struttura globale costituita da impianti produttivi, terminali per la distribuzione e una rete di uffici vendite capillare, in cui operano circa 3.000 persone.

L’occasione del nuovo catalogo per i supporti autoadesivi destinati al beverage - segmento considerato cruciale per i propri obbiettivi di crescita - ha portato UPM Raflatac a focalizzare in modo accurato alcuni obbiettivi:
- elevare e consolidare la percezione della propria reputazione, per farla corrispondere all’oggettiva qualità estetica e tecnologica espressa dai materiali in portfolio;
- dimostrare, soprattutto al target formato dai produttori di bevande, dai progettisti e dagli stampatori, che UPM Raflatac conosce a fondo ed è in grado di rispondere a tutte le loro necessità e aspettative;
- trasmettere la propria identità e i propri valori, fondati sulla massima attenzione verso l’ambiente, la sostenibilità produttiva e l’elevata competenza tecnica.

UPM Raflatac nuovo catalogo

Obbiettivi ben delineati e complessi, che richiedevano di veicolare contenuti autentici e innovativi; occorrevano soluzioni creative sia per colpire e stimolare la curiosità e l’immaginazione degli interlocutori, sia per mostrare il potenziale di ciascun supporto selezionato, con il fine di rafforzarne la percezione di affidabilità e versatilità grazie a performance di alto profilo. 

Tutte le scelte legate al progetto del nuovo catalogo, sia la parte dedicata all’assortimento che il visual book, dovevano essere in linea con la filosofia aziendale, i suoi valori e la metodologia produttiva ed è proprio dall’osservazione della straordinaria e inesauribile bellezza della Natura che sono scaturite le nostre risposte.

UPM Raflatac nuovo catalogo

Il nuovo catalogo UPM Raflatac è pensato per essere molto pratico e di facile consultazione; quando si cerca un supporto, occorre avere tutta la gamma disponibile nello stesso momento e ‘al primo sguardo’. Anche questo semplice aspetto può far prevalere il catalogo di una cartiera rispetto ad un altro.

I campioni sono ‘rubricati’ nelle due direzioni: orizzontale (per l’immediata identificazione) e verticale (per agevolare la selezione sia attraverso il tatto che la vista).

I supporti sono stati selezionati con cura per rispondere alle attuali e future tendenze del settore beverage, nelle sue diverse declinazioni che vanno dalle bevande artigianali, agli spirits (cognac, vodka, whisky); passando per soft drink, birre, vini (bianchi e rossi) e naturalmente sparkling. A corredo dell’assortimento, sono state inserite solo le informazioni essenziali per consentire l’immediata riconoscibilità delle caratteristiche di ciascun supporto.

La struttura del catalogo è stata pensata per ottimizzare l’uso dei materiali e per esprimere la particolare attenzione dell’azienda verso l’ambiente; a differenza della maggior parte dei cataloghi del settore - e non solo - non è stata usata la plastificazione, ma un materiale che offrisse già al primo contatto, un senso di naturalità e calore e, allo stesso tempo, fosse resistente in vista del frequente utilizzo da parte degli operatori.

UPM Raflatac nuovo catalogo packaging

I supporti autoadesivi proposti nelle quattro sezioni del catalogo, sono gli autentici protagonisti di questo nuovo strumento di lavoro, per questa ragione abbiamo evitato effetti di nobilitazione ridondanti.
Il vero e proprio ‘incontro’ fra un gruppo di 18 supporti diversi fra loro - selezionati in rapporto alla tipologia di beverage corrispondente - e la creatività progettuale, avviene nel visual book, quinta sezione del catalogo.

Il progetto di questa sezione è iniziato con l’approfondimento della performance di ciascun supporto, grazie al dialogo stretto con tecnici ed esperti UPM; in seconda fase è avvenuta la scelta dei 18 campioni, per i quali si richiedeva un intervento capace di mettere in valore le caratteristiche intrinseche di ciascun materiale.

Occorreva farlo in modo coerente con i codici e i linguaggi di ciascun segmento di mercato e in modo particolarmente distintivo: per ogni progetto sono stati individuati concept specifici - tutti ispirati alla Natura - che risultassero pertinenti e innovativi, creativi e incisivi, sorprendenti e memorizzabili allo stesso tempo.

Capaci di tracciare un contenuto e un percorso di lettura armonico e lineare, che potremmo definire olistico: dalla tipologia di bevanda al supporto individuato come più adatto, dal nome attribuito al prodotto al visual creativo; che per ciascun supporto non è mai generico, ma significante.

UPM Raflatac nuovo catalogo SGA MCC

In tutte le fasi, da quella progettuale fino alla produzione vera e propria, il dialogo con i responsabili UPM (italiani ed internazionali) è stato costante, così come con l’azienda (MCC Lucca e Prato) che ha stampato e prodotto il catalogo; solo uno stretto e continuo scambio e confronto su ogni dettaglio, ne ha permesso la migliore realizzazione.

Tag Catalogo, Label, Packaging

13 / 03 / 2018

Il nuovo posizionamento di Mirabella attraverso un progetto di global design strategy.

Strategy /Brand value building
In un contesto sempre più competitivo quale quello del mondo vinicolo, la gestione strategica della brand viene avvertita da parte di alcuni produttori come esigenza primaria. L’individuazione del posizionamento, quindi il sistema dei valori portanti, della mission, del target di riferimento, e dei contenuti dello storytelling, sono passaggi fondamentali e determinanti per definire una strategia coerente ed efficace e per ottenere risultati positivi e duraturi. Per il progetto Mirabella la fase di analisi è stata determinante: con Claudio Castellaro (Creative Business) si è potuto approfondire, in base ad un approccio metodologico messo a punto attraverso numerosi progetti condivisi, i diversi aspetti che concorrono a determinare la personalità di questa specifica realtà aziendale; in particolare le sue potenzialità in termini di brand value building attraverso linee guida di marketing utili allo sviluppo coerente di tutti gli strumenti di comunicazione necessari al suo rilancio.
Ad oggi sono stati realizzati gli interventi prioritari, ma le linee guida strategiche prefigurano un percorso più esteso e complesso, che verrà realizzato nel medio periodo.

Mirabella global design

Branding
La fase di progetto ha comportato, in primo luogo, l’intervento di restyling del simbolo aziendale Mirabella.
Il volto della dea Demetra è stato ridisegnato attribuendo alla sua reinterpretazione un carattere più contemporaneo. Un nuovo simbolo più personale la cui tridimensionalità è determinata dalla contrapposizione, positivo-negativo, dei due lati del volto e la cui sintesi grafica ha permesso di eliminare anche i problemi di riproducibilità che si presentavano nel marchio precedente. L’intervento sulla brand ha comportato anche il ridisegno del nome aziendale, armonizzato stilisticamente al simbolo figurativo e con leggibilità migliorata.
Il nuovo marchio assicura riconducibilità e continuità con il precedente ed è funzionale all’introduzione di un radicale cambiamento nella vestizione dei prodotti.
Lo sviluppo della brand è stato ulteriormente ampliato con la realizzazione del manuale d’immagine nel quale la codifica delle regole d’applicazione e dei codici cromatici garantiscono il suo corretto utilizzo nel tempo. La realizzazione dei coordinati aziendali completano la fase di definizione degli strumenti primari della corporate identity.

Naming
Un elemento importante che determina l’identità di un prodotto, in particolare modo di un vino, è il suo nome. Ma creare un nuovo nome, coerente all’immagine di una cantina e che non sia già utilizzato è oggi davvero uno dei compiti più ardui. “Edea” nasce con l’intenzione di affermare in modo semplice e facilmente memorizzabile il carattere di questo Franciacorta, vino che costituisce il core business della cantina e che si distingue in quanto l’affinamento sui lieviti è di oltre 30 mesi, quando per disciplinare per fare un Franciacorta ne basterebbero 18.

Packaging
In rapporto al nuovo posizionamento di Mirabella, orientato verso l’innovazione, e al principale target di riferimento individuato, i Millennials, la vestizione dei prodotti è stata studiata con il preciso obiettivo di veicolare i valori associati alla brand, quali naturalità e capacità innovativa.
Le tre forme che compongono l’etichetta sono un preciso riferimento alle pietre presenti nel territorio di Franciacorta, forme naturali come sassi levigati dall’acqua, elemento particolarmente importante per quest’azienda, in quanto la cantina interrata è circondata da una falda freatica che ne mantiene temperatura e umidità sempre costanti.
I tre ‘sassi’, che variando nella composizione e nel colore caratterizzano i diversi vini, si possono riferire anche a Teresio, fondatore di Mirabella, e ai suoi due figli, Alessandro e Alberto, rispettivamente maestro di cantina e direttore commerciale dell’azienda. Tre enologi le cui diverse competenze e attitudini concorrono alla nascita di questi Franciacorta dalla personalità unica. Il linguaggio grafico essenziale e il rigoroso minimalismo, trasmettono la particolare attenzione che l’azienda ha per aspetti che riguardano la naturalità dei propri vini, un particolare impegno che ha portato questa cantina ha produrre il primo Franciacorta privo di solfiti.

Mirabella packaging

Secondary packaging
La valorizzazione di un prodotto sparkling non può prescindere dallo sviluppo di un secondary packaging distintivo, coerente con l’indirizzo strategico e all’immagine dei vini, nonchè al loro rispettivo posizionamento e considerando attentamente anche aspetti quali funzionalità e costi.

Catalogo
Il rinnovamento dell’immagine di una cantina non può prescindere da una particolare attenzione rivolta alle immagini che ne documentano la vita, il luogo e le persone nei momenti che scandiscono le diverse attività e fasi di produzione. Abbiamo quindi pianificato il coinvolgimento di fotografi e video-operatori che hanno raccolto - sotto la nostra direzione artistica - una documentazione accurata, che arricchendosi nel tempo andrà a costituire un archivio completo della vita della cantina. Le immagini e le riprese comunicano autenticità e naturalezza, evitando forzature o artifici. Il materiale raccolto è stato selezionato con questo stesso obiettivo, evitando interventi di ritocco o alterazioni del risultato ottenuto. Da questo materiale abbiamo potuto far nascere il progetto del catalogo che, in rapporto al nuovo orientamento, restituisce in modo fresco e dinamico il carattere della cantina Mirabella.

Web Site
Una particolare attenzione è stata data al progetto del nuovo sito Mirabella, realizzato in collaborazione con NokNok, concepito come veicolo primario dei contenuti di valore che caratterizzano questa cantina. Attraverso l’utilizzo di video tutorial e di un apparato informativo dettagliato si vuole esprimere la particolare attenzione che la cantina ha verso il consumatore appassionato ed esperto ma anche per tutti coloro che con curiosità vogliono ampliare il loro livello di conoscenza. Grazie alla comunicazione esperienziale e al dialogo con il proprio interlocutore, aspetti che caratterizzano l’azienda quali la salvaguardia dell’ambiente e la salubrità alimentare, vengono in questo modo resi trasparenti e accessibili. Sono infatti Teresio e i suoi due figli, Alessandro e Alberto, a raccontarci in modo personale e diretto la cantina, le loro esperienze, le loro aspettative e i loro vini. Completa queste informazioni la Carta Etica, rappresentata attraverso un’infografica dinamica - ispirata al processo di crescita delle piante - e restituisce in un’unica immagine l’impegno costante profuso in tutte le azioni compiute dall’azienda nei diversi ambiti. Una particolare attenzione è stata dedicata anche alla scelta dei contenuti, delle terminologie e delle scelte tecniche in funzione alla miglior ottimizzazione per i motori di ricerca.

Mirabella web design

Tag Brand, Global design, Packaging, Sito Web

18 / 01 / 2018

Leader del caffé in gdo Polonia, Woseba sceglie SGA e NokNok per innovare brand identity e packaging

Woseba, il primo produttore di caffè in Polonia, ha scelto di investire in un progetto di rilancio e internazionalizzazione che passa per una profonda revisione dell’immagine globale della brand. L’obiettivo: rafforzare l’identità di marca e la percezione valoriale dell’azienda, elevando l’immagine dei packaging all’effettiva qualità dei prodotti.
Per poter competere anche sul mercato internazionale, Woseba si è rivolta ad un team italiano, selezionando le nostre agenzie, che operano da anni in partnership, le cui differenti competenze permettono di offrire un servizio globale.

Il marchio aziendale, la rappresentazione di un chicco di caffe, simbolo piuttosto generico, è stato sostituito dallo studio di un pattern istituzionale, che unito al logotipo, concorre a rafforzare l’identità di marca. La nuova texture, derivata dalla ripetizione della lettera “W” di Woseba, diventa elemento essenziale, versatile ed estremamente funzionale alla personalizzazione di packaging, oggettistica ed ambienti quali il web, creando forte riconoscibilità, family feeling e coerenza stilistica in ogni forma di comunicazione. Al cliente è stato fornito anche un manuale d’immagine coordinata in cui sono state codificate le regole d’applicazione che permettono una gestione autonoma e coerente dell’identità visiva della brand.

Packaging Design

Mocca Fix Gold
Un restyling conservativo che restituisce il giusto valore al prodotto.

Il delicato intervento sul packaging di Mocca Fix Gold, che costituisce il core business dell’azienda in quanto prodotto più venduto, ha comportato in primo luogo il restyling del logotipo prodotto migliorato sia da un punto di vista stilistico che di leggibilità.
L’introduzione di simboli identificativi delle diverse tipologie (caffè solubile, in polvere e in grani) oltre a aiutare il consumatore nel distinguere i prodotti della gamma diventa un pattern decorativo il cui effetto, oro lucido su superficie satinata, restituisce eleganza elevando il percepito valoriale del prodotto. L’intervento si è esteso alla ridefinizione del marchio “Garanzia di Qualità”, utilizzato in modo trasversale alle diverse linee di prodotti, con introduzione della “W” quale elemento di identificazione della Brand e richiamo diretto alla texture azionedale. Inoltre l’utilizzo delle aree laterali del pack, in cui è stato inserito il logo Woseba di grandi dimensioni, permette una più decisa affermazione della brand awareness a scafale.

Mocca fix gold

Premium Line
Un nuovo Packaging di Linea riconoscibile ma rinnovato, con un tocco di eleganza e tanta personalità.

Quattro miscele di pregiati caffè raccolti in piantagioni selezionate. Quattro gusti unici, fortemente riconoscibili e apprezzati da un consumatore fortemente fidelizzato. Queste le ragioni di un restyling che aveva come obiettivo la richiesta di rinnovamento, nell’ottica di un rafforzamento dell’identità di marca ma che garantisse la riconoscibilità del prodotto a scaffale. L’intervento ha comportato la ridefinizione di tutti gli elementi presenti nel packaging precedente: dal ridisegno della tazzina a cui è stato attribuito un carattere più attuale e riconducibile al mondo del design, all’utilizzo della brand in verticale, che oltre ad essere più visibile a distanza conferisce maggior carattere e determina la priorità nell’ordine di lettura degli elementi.
La scelta di un lettering più appropriato e dell’uso del bianco per i nomi delle diverse miscele, e l’introduzione di colori volutamente simili ma più decisi e brillanti ha permesso di migliorare anche la distinzione tra le referenze referenze che compongono la linea.
L’introduzione dei simboli che distinguono le tipologie (caffè solubile, in polvere e in grani) del nuovo marchio di qualità e della texture aziendale in oro lucido su satinato oltre a conferire più valore al prodotto determina un maggior family feeling con il packaging di Mocca Fix Gold.

Crema gold

Comunicazione
Il programma di rilancio della brand prevedeva anche la ridefinizione dello stile con cui Woseba comunica, a questo scopo l’incarico si è esteso allo sviluppo di linee guida per lo sviluppo del nuovo sito e allo studio di Key Visual che hanno guidato un’agenzia polacca alla realizzazione del nuovo spot di lancio della linea Premium Line e all’imminente realizzazione del nuovo sito web.

Premium line

Tag Restyling

01 / 12 / 2017

Galassi celebra il “Trionfo di Dioniso”.

Il progetto di packaging per i vini dell’azienda di Forlì, attinge al patrimonio culturale del territorio per promuoverne la reciproca valorizzazione.

L’obiettivo del progetto per i vini Galassi, era qualificare l’intera gamma con un’identità precisa e distintiva.
Un obiettivo importante, raggiunto senza trascurare alcun passaggio, a partire dalla necessità di identificare, attraverso la delicata fase dell’analisi di marketing strategico da noi realizzata, come prima fase del progetto, i principi aziendali portanti: legame con la propria terra, senso della tradizione e qualità.
Valore, quest’ultimo, sostenuto da un plus molto concreto legato al particolare metodo produttivo dei rossi importanti dell’azienda e basato su un processo naturale che consente la separazione degli acini più maturi da quelli che non lo sono completamente.
Tra i valori emersi dall’analisi che hanno orientato l’esplorazione all’interno della Romagna e delle sue tradizioni vi sono musica, ceramica, artigianato, archeologia ed arti visive.


L’artista Silvia Bennardo ricostruisce un dettaglio del “Trionfo di Dioniso” su un jeroboam da collezione di Sangiovese Superiore Galassi.

Fra le numerose risorse e soluzioni individuate, la scelta si è concentrata su un mosaico di epoca romana dedicato al mito di Dioniso, ricomposto a parete all’interno della Sala V del Museo Archeologico Nazionale di Sarsina.
Opera particolarmente ricca di dettagli e temi decorativi che, estrapolati ad uno ad uno, ora caratterizzano le nuove etichette per rispondere alla volontà di elevare la percezione del valore della brand e dei suoi prodotti e rendere le nuove vestizioni riconoscibili e memorizzabili.

La scelta di prendere come riferimento il celebre mosaico “Trionfo di Dioniso”, ha portato alla nascita di una collaborazione virtuosa tra Galassi e il Museo Archeologico.
A riprova di ciò, l’1 dicembre all’interno della prestigiosa location di Sarsina, è stato tenuto l’evento di presentazione delle nuove vestizioni, ora dotate di una spiccata personalità e pronte a portare in tutto il mondo il celebre mosaico simbolo della cultura romagnola.


Paolo Galassi (ad) e Maurizio Magni (ufficio stampa Cevico).


Da sinistra Fabio Pari (mktg), Marco Denicolò, Guido Ruggerini, Paolo Galassi (ad), Stefano Leardini, Patrick Gentilini, Marco Nannetti (vp), Pierluigi Zama (resp. enologico).

Tag Evento, Packaging, Restyling, Wine strategy

03 / 11 / 2017

Luigi Veronelli, il pioniere.

Gino Veronelli

Tengo molto a questa intervista. Sono convinto che tutti i protagonisti dell’enogastronomia attuale, dall’ultimo food blogger fino al primo chef stellato, dovrebbero dedicare tutti i giorni un pensiero a Luigi Veronelli. Un gigante. Un uomo, un mito, una leggenda, per dirla alla Gianni Minà.

Iniziò la sua carriera negli anni ’50, giovanissimo editore, e sarà ricordato come l’ultimo a subire un rogo per aver pubblicato un libro osceno, nel 1961. Orgogliosamente anarchico per tutta la vita, ha scritto un centinaio di libri, è stato una star televisiva gastronomica 50 anni prima di Cracco & co, un polemista fenomenale, un leader di battaglie a favore dei contadini e della qualità e riconoscibilità di vino e cibo. Milanese di nascita, nella seconda parte della sua vita si è stabilito a Bergamo alta, nella grande casa di via Sudorno al Nr. 44. Tra quelle mura, per decenni, si sono discusse e prese decisioni fondamentali per la sorte del vino e di chi il vino lo produce, attraverso battaglie ancora attualissime. Ma si sono anche svolte innumerevoli degustazioni, pescando dalla mitologica cantina, che alla fine contava circa 70mila bottiglie.

Gian Arturo Rota, protagonista dell’intervista che segue, è stato al fianco di Veronelli per 20 anni, oggi ne custodisce l’importante archivio e si impegna nel mantenimento della memoria. Ha scritto, insieme a Nichi Stefi, il primo libro su di lui: “Luigi Veronelli – La vita è troppo corta per bere vini cattivi” (Giunti/Slow Food 2012), libro fondamentale per chi vuole approfondire la storia di questo straordinario personaggio. Con Alberto Capatti e Aldo Colonnetti, ha curato la mostra, allestita alla triennale di Milano e all’ex Monastero di Astino, “Luigi Veronelli, camminare la terra.”
E’ anche counselor professionista, ad orientamento psico-pedagogico.

Gino Veronelli

Luigi Veronelli è mancato nel 2004. Cosa le manca più di lui?
I suoi contrasti. La grande esperienza e i tratti d’ingenuità, durezza e dolcezza, egoismo e generosità, istinto e riflessione, solo per citarne alcuni, ma forse, mi manca di più la disinvoltura con cui li viveva.

Gianni Mura, nel necrologio che ha dedicato all’amico Gino, dice che è stato l’inventore dell’Enogastronomia. E’ d’accordo?
Non solo sono d’accordo, rinforzo: della cultura enogastronomica. Nessuno prima di lui ha compreso appieno che cibo e vino sono cultura, cioè somme di saperi e di esperienze, di comportamenti e di etica. Lui ha riabilitato e riaffermato il valore della cultura materiale: “Penso che cibi e vini buoni rendano l’uomo più contento e la vita più sorridente”.

Veronelli è stato uno studente di filosofia, un editore anarchico, una star televisiva, un innovatore nel campo della critica, uno scrittore, un fautore e leader di importanti battaglie sociali.
Come poteva convivere tutto questo in una sola persona? Qual’era il suo segreto?

Aveva doti elevate d’intelligenza e di eclettismo, oltre a una curiosità inesauribile. Il segreto: l’enorme speranza nell’Uomo. Affermava: “Coltura + cultura = progresso.

Come si manifestava la sua “anarchia”?
Con l’esasperata difesa della sua libertà d’individuo. Posso riassumerla così: “È iniquo obbedire a leggi inique”.
Alla base del suo pensare e agire, il proposito di una società più giusta. Contemplava la sovversione, ossia l’impegno di ciascuno al cambiamento, ma rifiutava la violenza.

Gino Veronelli e Gian Arturo Rota

A proposito di battaglie. Qual’era quella che considerava più importante?
Mi sento di dire che non ce n’è stata una più importante dell’altra; tutte per lui, avevano una giusta causa. Direi piuttosto che di ciascuna ha saputo cogliere l’importanza del momento storico.

E quale invece si rammaricava di aver perso?
Non poter rinunciare, nei suoi libri (di editori altri o di edizioni in proprio), alla presenza della pubblicità.

Com’era l’approccio di Luigi Veronelli nei confronti del bicchiere di vino? Intendo a livello di gestualità, riti, abitudini.
Ricordo due rituali: 1, verificava sempre, prima che il vino venisse versato, che i bicchieri fossero inodori e limpidi; 2, un boccone di pane prima di iniziare a bere vino.

Cosa si sta facendo per ricordare alle nuove generazioni l’importanza di un personaggio come Veronelli?
Un esempio di cosa si potrebbe fare: introdurre la sua figura e la sua opera nei programmi formativi ministeriali, almeno degli istituti specialistici come agraria, enologia, alberghiero etc.

La mitologica cantina di Veronelli. E’ ancora lì dove l’ha lasciata? Ci sono progetti in proposito?
Si, ancora lì, in via Sudorno. Progetti? Berle, le bottiglie…

Mi propongo subito. A proposito, c’erano bottiglie a cui Veronelli era particolarmente legato, magari per motivi sentimentali?
Era legato alle bottiglie di vino buono, vero, sincero.

Sono andato l’anno scorso in pellegrinaggio alla casa di Veronelli in Via Sudorno e ho visto che la stanno ristrutturando. Ne sa qualcosa?
Casa sua ora è proprietà di altri. Alla famiglia appartiene ancora l’edificio accanto, sotto cui appunto è la cantina.

Le due foto di apertura sono di Gianni Camocardi
www.veronelli.com

Tag Intervista, Press

19 / 10 / 2017

Storicità, artigianalità e personalità, intrecciati nella bottiglia per i 120 anni della Nino Negri.

“La storia della casa vinicola Nino Negri inizia nel 1897 quando il suo fondatore Nino sposa Amelia Galli, proprietaria della fortezza di Chiuro, a una decina di chilometri da Sondrio.
Il figlio Carlo affianca il padre a partire dal 1927; acquista nuovi vigneti, migliora le tecniche di coltivazione, affina i processi produttivi. Il vino prodotto non viene più venduto sfuso, ma imbottigliato ed esportato all’estero, in Europa e negli Stati Uniti.
Nel 1977, dopo 50 anni esatti al timone delle proprie cantine, Carlo Negri passa il testimone a un giovane enologo entrato in azienda qualche anno prima, Casimiro Maule. Con passione e lungimiranza, Maule punta tutto sulla qualità, valorizzando e coinvolgendo ogni attore della filiera produttiva e lo fa con il pieno supporto del Gruppo Italiano Vini, che nel frattempo ha acquistato l’azienda”.

Con l’edizione limitata della Riserva Castel Chiuro 2009, ottenuto dai migliori cru di Valtellina, Grumello e Valgella, Casimiro Maule ripropone il vino più celebre della cantina Nino Negri per festeggiare i 120 anni dalla fondazione.

Storicità, unicità e prestigio i valori attualizzati dalla nuova etichetta che, mantenendo l’impostazione degli anni ‘50, è stata ripulita e impreziosita con l’utilizzo di una carta marmorizzata, decorata a mano da artigiani fiorentini, in cui il gioco di colori rende ogni esemplare unico e inimitabile. Ai toni caldi e profondi della carta, evocativi del vino stesso, l’argento aggiunge luminosità ed eleganza.

La confezione di ogni bottiglia si completa con un cofanetto al cui interno, subito dopo l’apertura, si trova un piccolo libro che, attraverso le parole di Mario Soldati e l’intervista a Casimiro Maule, racconta la storia della cantina e della valle.

Tag Etichetta, Global design, Packaging

12 / 10 / 2017

Amarone Fieramonte Allegrini: un progetto firmato SGA Wine Design&NokNok.

Per Allegrini, azienda vinicola di riferimento nel territorio della Valpolicella, Fieramonte rappresenta da sempre la punta di diamante della propria produzione ripresa quest’anno, dopo più di trent’anni di attesa.
Un cru prodotto solo nelle annate speciali, che deve la propria unicità alla particolare esposizione dell’omonimo vigneto, la cui altitudine di 420 m slm garantisce ventilazione e sbalzi termici efficaci. Aspetti ancor più importanti oggi per contrastare in modo naturale gli effetti negativi del riscaldamento del clima.

close up Fieramonte Allegrini

Il progetto di rilancio di Fieramonte ha preso avvio dal restyling dell’etichetta, un intervento di estrema pulizia e accurata calibratura, mirato ad esprimere la straordinaria eleganza di questo vino.
Il ridisegno del logo prodotto, la scelta cromatica e l’impaginazione hanno inoltre migliorato la leggibilità di tutti gli elementi presenti in etichetta.
L’estremo valore di questo vino è suggerito anche dal progetto di una particolare confezione, ispirata alla morfologia del territorio d’origine, il cui coperchio è caratterizzato dalla riproduzione in rilievo delle curve di livello che definiscono la collocazione del vigneto, evidenziata dal logo prodotto.
La tridimensionalità della confezione viene esaltata dalle scelte cromatiche, bianco satinato per il coperchio e nero lucido per la scatola, che oltre a restituire eleganza si coordinano ai colori dell’etichetta. La cassa è realizzata in mdf, ecologico in quanto ottenuto da materiale riciclato.
Il valore di unicità di questo vino è inoltre raccontato nel prezioso libretto che completa la confezione.

cassa legno Fieramonte Allegrini

Il progetto ha comportato anche l’organizzazione dell’evento di presentazione di Fieramonte, realizzato dai nostri partner dell’agenzia creativa NokNok
Una giornata dove nulla è stato lasciato al caso, se non il luogo di atterraggio delle mongolfiere a bordo delle quali, tra i colori dell’alba, gli ospiti dell’evento hanno potuto ammirare la Valpolicella da un nuovo e insolito punto di vista.
Un tour che ha emozionato gli invitati, proseguito prima nei locali di appassimento delle uve Allegrini e poi tra i filari di Fieramonte dove le persone, in versione “contadina”, hanno provato l’esperienza della vendemmia; a rinnovo del forte legame che esiste tra l’uomo e la terra.
La sera, tra un suggestivo allestimento con più di 600 metri di strip led che ha ricreato il tema delle curve di livello, un quartetto di archi e fiati con repertorio musicale selezionato e uno spettacolo di danza artistica, gli ospiti hanno partecipato alla cena di Gala negli storici spazi di Villa della Torre.

Allestimento luminoso Villa della Torre Allegrini

Un momento reso ancora più speciale dalla presentazione del nuovo packaging Fieramonte, per l’occasione esposto all’interno di teche luminose, come autentici pezzi da collezione.
Un duetto jazz, formato da tastiera e sax, ha fatto poi da chiusura ad una giornata davvero magica.

Tag Etichetta, Evento, Packaging, Restyling

25 / 09 / 2017

Perlugo - Progetto BIO.

La fase di dinamizzazione dell’acqua, secondo il processo messo a punto da Rudolf Steiner, è alla base del progetto realizzato per Perlugo, vino spumante da uve biodinamiche della cantina marchigiana Pievalta.

Close up Perlugo

In particolare, i movimenti rotatori in senso orario e antiorario, vengono riprodotti in etichetta attraverso un vortice che richiama anche i due preparati principali della coltivazione biodinamica: il corno letame e il corno silice.
Elementi che si armonizzano anche con la caratteristica dualità del nome Perlugo, fin dall’inizio costituito da due parti.
Nella nuova vestizione il numero di colori si riduce al minimo, mentre l’etichetta in sottile foglio di legno trasmette in modo ancora più forte la naturalità e l’artigianalità di questo prodotto.

Tag Biodinamica, Progetto BIO, Restyling

13 / 09 / 2017

Tenuta del Melo - Progetto BIO.

Per i vini biodinamici di Tenuta del Melo - Gavi DOCG e Piemonte DOC Barbera - abbiamo realizzato un progetto che fosse in grado di trasmettere la sensibilità che l’azienda ha verso i temi della sostenibilità e della ricerca artistica.

Un’attenzione che l’azienda mette in luce anche attraverso le scelte compiute per la ristrutturazione della cantina, realizzata attraverso la tecnica del pisè - una pratica antica ed ecosostenibile basata su materiali esclusivamente naturali. Un intervento, questo, che rende l’attuale struttura un’opera di altissima organicità, in perfetta sintonia con l’ambiente circostante.
Ed è proprio attraverso un forte ingrandimento stilizzato dei principali elementi impiegati in questa tecnica - argilla, sabbia e acqua - che nasce il nuovo simbolo Tenuta del Melo, con l’obiettivo di comunicare l’estrema attenzione che l’azienda dedica sia alla scelta dei materiali che ai metodi usati per la produzione dei propri vini; attenzione cui si unisce una particolare sensibilità artistica.

Oggi – infatti – presso la sede sono installate opere d’arte contemporanea di artisti di rilievo internazionale, integrate nel paesaggio; tema interpretato in etichetta attraverso le opere di Jaimy Fiumana, un giovane artista dal potenziale espressivo fresco e immediato, dotato di una grande e sorprendente capacità di gestione del colore; impegnato in una ricerca rivolta alla natura, di cui sa cogliere e restituire emozioni forti e autentiche.

Le forme in etichetta hanno un’identità autonoma i cui equilibri compositivi suggeriscono le leggi più nascoste riscontrabili in natura; equilibri sui quali si fondano anche i principi dell’agricoltura biodinamica.

Tag Biodinamica, Packaging, Progetto BIO

01 / 09 / 2017

I Millennials: Analisi di Marilena Colussi, esperta di ricerche di mercato e comunicazione - parte 2

Il rapporto dei Millennials con il mondo del vino come sta evolvendo? Quali sono le opportunità?

Il rapporto con il vino è eterogeno e tendenzialmente discontinuo in quanto molto legato alla socialità e frenato – soprattutto nei consumi nella ristorazione - dalla percezione del rapporto prezzo/qualità. Ma va detto che sono sempre più i Millennials che si appassionano e frequentano corsi e degustazioni guidate. Stanno andando molto bene i bianchi e in particolare i prosecchi, seguiti dagli spumanti così come i vini autoctoni. C’è molto interesse per le produzioni più sostenibili e in particolare il biologico. Ci vorrebbe tuttavia più informazione sugli allergeni, solfiti in primis, che rischiano di penalizzare i vini a differenza di molti prodotti alimentari che ne contengono altrettanti, se non ancor di più. A differenza di altre bevande alcoliche e superalcoliche, il rapporto con il vino tende ad essere più associato al bere responsabile e in abbinamento all’alimentazione, aperitivi e apericena compresi. Si sentono infine più portati a scegliere in base ai gusti e passioni personali e sono decisamente aperti ai vini stranieri. Del resto sono effettivamente più cittadini del mondo rispetto alle precedenti generazioni giovanili anche se sono fortemente legati al territorio locale e alla regione, ancor più che alla nostra nazione italiana.  Un target spesso etichettato come “surfing”, perché caratterizzato da soggetti che restano in superficie andando poco alle radici che, a mio avviso, rappresenta una sorta di rivoluzione sociologica, antropologica e culturale; un naturale target di riferimento per il mondo del vino. Perché in una popolazione che invecchia e vivrà sempre più a lungo, è naturale che il consumo di vino si allungherà anche nelle fasce anagrafiche superiori, ma fino a un certo punto; ed ecco che diventa fondamentale guardare al futuro, sempre guardando i giovani, cercando di intercettare le loro aspettative e i loro bisogni. E’ una generazione anche in altri Paesi del mondo su cui stanno puntando i riflettori i produttori di vino italiano e che sostituirà – in particolare in Italia – i consumatori di vino di tipo tradizionale. Secondo una recente ricerca di Nomisma, negli Stati Uniti, i Millennials rappresentano già oggi a generazione che in quantità consuma più vino di qualsiasi altra: 42% di tutti i consumi. Le differenze di atteggiamento sono notevoli. I giovani adulti USA, ad esempio, scelgono il vino per la notorietà del brand (32%) e molto meno per il tipo di vino (21%). All’opposto, il primo criterio di scelta dei Millennials italiani è la tipologia del vino (51%), mentre la notorietà del brand è del tutto marginale (10%).

Ci troviamo di fronte a un target considerato più dal punto di vista del consumo che da quello della produzione. Qui vogliamo approfondire insieme a te un approccio diverso, scegliendo come posizione di analisi quella che pone al centro la capacità produttiva di questi soggetti.

Se una volta esistevano élite e caste basate su un sistema chiuso, da dove non traboccava nulla e dove si parlava di vino anche in modo molto specifico, fra “iniziati” oggi è fondamentale ripensare al vino come un sistema aperto dove lasciar fuoriuscire messaggi veritieri e consistenti; come un iperspazio dove i tantissimi contenuti che il vino ha in sé possano muoversi. In un momento come questo, dove sempre più realtà si trovano di fronte al delicato momento del passaggio generazionale, è importante formare ed informare i Millennials al fine di renderli preparati sui contenuti del mondo vinicolo e inoltre autonomi, quindi in grado di presidiare e di far evolvere il mercato del vino in modo sensato e consistente. Questi soggetti sono infatti diversi nel modo di consumare, di informarsi, di comunicare, di influenzare e in quello di lavorare. Un motivo, questo, per cui devono sapersi mettere in gioco completamente, sia riavvicinandosi alla terra - anche attraverso piccoli appezzamenti di terreno e piccole vigne, che decidendo di dare vita a una comunicazione che comporti investimenti meno massicci ma di valore, sfruttando il potere del mondo digitale che ben conoscono.

valdo n.1
Punzone per la stampa a caldo della lamina e macro dell’etichetta realizzata per lo spumante Valdo Numero 1. Il lavoro rientra tra i vari progetti che l’agenzia SGA Wine Design, sensibile e attenta alle esigenze dei Millennials, da tempo sviluppa per questo tipo di target.

Un’evoluzione che coinvolge moltissimi aspetti all’interno del mondo del vino, tra cui quello del branding e del packaging. Quali sono gli aspetti che, a tuo parere, devono essere maggiormente considerati?
Diversamente da quello che succedeva negli anni passati, in cui il fenomeno del “brandismo” era molto forte e i prodotti, rispondendo ad una forza di brand e d’immagine, venivano scelti sulla base della loro notorietà, oggi la tendenza è molto diversa.
Sempre più spesso l’attenzione si concentra sull’etica, sui principi ed i valori che si associano al vino, piuttosto che al brand stesso; ma anche alle sue caratteristiche di salubrità e di sostenibilità, che diventano ancora più significative quando la realtà coinvolta ha, già in partenza, valori da comunicare. Temi molto cari ai Millennials che, informandosi molto, sono in grado di compiere scelte più accurate e consapevoli. È dunque importante riuscire a creare prima di tutto una determinata reputazione di prodotto che, veicolata nel contesto digitale, permetta al vino di essere riconosciuto come prodotto di valore; come una somma di valori in cui i consumatori si rispecchiano. Sostenibilità ed etica, oggi come oggi, diventano temi di primaria importanza per chi produce e chi comunica vino, soprattutto se vuole parlare con i Millennials.

Possiamo dunque affermare che la realtà digitale rappresenta una leva importante per la veicolazione dei valori e della reputazione di un determinato prodotto; un ambito che oggi, sempre più realtà presidiano. Dal tuo punto di vista, come può influire sull’evoluzione del mondo del vino?

Che la realtà digitale permetta una comunicazione tanto importante quanto abbordabile, questo è chiaro; ma è solo un aspetto. Le iniziative che si possono sviluppare sfruttando le possibilità che il contesto digitale offre sono davvero molte. Pensando all’aspetto organizzativo del sistema vino oggi esistono sistemi di cantine digitali che permettono di gestire il magazzino in modo diverso grazie alla possibilità di effettuare scambi di prodotto tra gestori di locali e cantine quasi in tempo reale. Iniziative fresche, trendy e vicine al target dei Millennials; proprio come le molteplici consociazioni a cui si può dar vita quando il soggetto è il vino, come quella tra vino e gelato. Un discorso che prescinde dalle linee di vini classici di determinati segmenti di mercato, che certamente vanno bene, orientato piuttosto a sottolineare l’importanza del saper riconoscere, e quindi considerare, anche ciò che viene richiesto da questo determinato target; che fa sicuramente fatica ad entrare in questo mondo per via delle moltissime barriere all’entrata che presenta, superabili attraverso vie alternative in grado di apportare molti contributi al mondo del vino.

Tag Intervista, Millennials

27 / 07 / 2017

I Millennials: Analisi di Marilena Colussi, esperta di ricerche di mercato e comunicazione.

Marilena Colussi, partner di Sga Wine Design, esperta di ricerche di mercato, comunicazione e consulenza sulla marca.
Dal 1989 al 2009 lavora nella società fondata da Giampaolo Fabris, pioniere della sociologia dei consumi, come direttore di ricerca e responsabile degli Osservatori sul cambiamento socioalimentare, sull’ambiente, sulla raccolta differenziata (Osservatorio CONAI) e sul biologico (Osservatorio Sana); svolge numerosissime ricerche ad hoc qualitative e quantitative.
Con il medesimo ruolo, matura una notevole esperienza presso altri importanti istituti di ricerca, quali Doxa e Explorer-Ipsos.
Nel 1999 inizia le collaborazioni giornalistiche con GDOWEEK e, a seguire, con le testate Business del Gruppo 24 Ore e Il Sole 24 Ore.
Nel 2011 fonda il proprio istituto di ricerca e consulenza, con un network di collaborazioni professionali di altissima qualità e, nel 2012, tiene una rubrica sui consumi e mercati sul Panificatore Italiano. Cura inoltre il Rapporto “Il Vino italiano nel Mercato globale” promosso da Confagricoltura e patrocinato dal Ministero delle Politiche Agricole e Forestali e il Rapporto “Vino Futuri Possibili” del Gruppo 24 Ore.

In questa prima parte di intervista approfondiamo insieme a lei il tanto discusso tema dei Millennials, attraverso un’analisi dal taglio sociologico.

intervista Marilena Colussi

Ciao Marilena, oggi abbiamo il piacere di approfondire insieme a te un tema molto attuale quale quello dei Millennials. Come esperta di consumo, come definisci questo tipo di target?

I cosiddetti Millennials sono i giovani adulti che oggi hanno tra i 18 e i 35 anni, nati tra l’inizio del 1980 e del 2000, dunque le prime giovani generazioni cresciute nell’epoca digitale e su cui spesso i Media applicano etichette troppo generaliste e cliché. Peraltro parliamo di una fascia anagrafica ampia, con ovvie differenze e disomogeneità sia psicologiche che nei comportamenti di consumo. Per comprenderli è utile ripercorrere alcune tappe del contesto socio-culturale in cui si è sviluppata la loro crescita e formazione: si tratta di un periodo segnato da profondi e sempre più veloci cambiamenti. Degli anni ’80 ricordiamo la fase più edonistica, ottimistica e consumistica della nostra recente storia, segnata dal crescere dell’individualismo di massa e da un’economia e welfare in crescita nel nostro Paese. Gli anni ’90 sono stati caratterizzati da crisi di vario tipo: economiche e sgretolamenti di molte certezze, regole, ruoli ed obiettivi precedentemente condivisi. Ad esempio, il crollo del muro di Berlino nel 1989 con la fine dell’ideologia comunista, la laicizzazione della società e dal 1993 il fenomeno immigratorio, che in pochi anni ci ha aperto alle popolazioni provenienti da tutto il mondo. Sul fronte dei consumi, profonde sono state le innovazioni e le trasformazioni del sistema produttivo, del marketing & branding e del retail. Dunque una fase discontinua e frammentata anche sul piano dei valori: aperta al nuovo e all’innovazione - grazie anche al diffondersi di internet - ma anche a fenomeni di ripiegamento su sé stessi e chiusure. Il terzo millennio si caratterizza sia con nuove crisi e ansie, che sfide e opportunità: spinte global e local, digitalizzazione diffusa, ruolo pervasivo dei social, condivisione e sharing economy, ricerca di benessere ma con la consapevolezza di uno sviluppo sostenibile per la salute umana e l’ambiente. E’ un quadro di eventi molto sintetico e sicuramente non completo ma utile a comprendere il veloce e sempre meno lineare cambiamento, in poco più di vent’anni, anche degli approcci genitoriali ed educativi-formativi eterogenei, che sono altrettanto importanti per comprendere questa nuova generazione adulta. La complessità odierna in cui vivono i Millennials li vede protagonisti del prossimo futuro, di cui a breve ne prenderanno la leadership, ma anche vittime di miopi e disastrose scelte precedenti (politiche, ambientali, sociali…). Il lavoro e l’occupazione rappresentano per loro un serio problema - come emerge da una mia recente ricerca su un campione rappresentativo di 600 Millennials – e anche per questo motivo si stanno orientando alla creazione di nuovi lavori e forme di imprenditorialità. Nei consumi prediligono messaggi chiari e semplici da decodificare, più autenticità e sostenibilità. Il ruolo del branding di tipo effimero e fine solo a un plus valore di prezzo è molto ridimensionato ad esempio. E ciò vale anche nelle scelte alimentari e del bere. Dunque il ruolo dell’informazione è fondamentale insieme a quello dell’emozione. La narrativa più efficace per i Millennials è quella legata all’esperienza e su questo aspetto anche le cantine dovrebbero, a mio avviso, indirizzare sempre più le proprie azioni.

I Millennials dunque sono cresciuti nel cambiamento: di idee, di ruoli, di attitudini, di conoscenze, di comportamenti e consumi e sono la generazione adulta più formata e performante sul piano digitale. Quale deve essere l’approccio nei loro confronti?

Non possiamo banalizzarli in quanto giovani e non solo in ragione della fascia di età molto ampia. Mai come ora occorre fare serie ricerche e test, di caso in caso: osservare, ascoltare e stimolare con i corretti strumenti ed approcci di ricerca questo importante segmento di popolazione perché contiene molteplici target. Certamente li accomuna l’essere formati nell’era internet, sia come fruitori che come attori e autori. Se guardiamo ai numeri, in Italia i Millennials sono oltre 12 milioni e la maggioranza vive a casa con i genitori. Il 40% lavora, il 19% studia, il 17% studia e lavora contemporaneamente mentre il resto è alla ricerca di un’occupazione. Parliamo di una generazione di giovani molto diversa dalle precedenti, anche rispetto a quella che ora ha tra i 36 e i 50 anni e che ha vissuto la giovinezza negli anni analogici, pre-crisi e recessione. I Millennials italiani hanno meno rimpianti ed illusioni ma non per questo sono senza ideali. Al consumismo degli oggetti spesso preferiscono la fruizione di emozioni, concetti ed esperienze, soprattutto se condivise e sharing. Sono molto più disincantati da un branding inteso come sovrastruttura senza verità: sono invece in grado di premiare prodotti meno massificati, che si distinguono per il loro contenuto di valore e distintività. Sono informati, attenti, social, influencer anche se spesso sono preoccupati per il futuro. Da una mia recente indagine emerge che, per 6 giovani su 10, è proprio il lavoro la principale sfida da vincere. Al secondo posto troviamo la sostenibilità ambientale e l’innovazione tecnologica.

Tag Intervista, Millennials

27 / 07 / 2017

“Comete” Alois Lageder - Progetto BIO.

Con la nuova linea ‘Comete’, l’azienda Alois Lageder introduce un gruppo di vini ottenuti da una serie di ricerche e sperimentazioni innovative, volte sia ad accrescere la consapevolezza del potenziale ancora inespresso del proprio patrimonio viticolo, sia la versatilità del territorio di appartenenza. Ma anche ad affrontare il mutamento climatico in corso, testando vitigni non convenzionali (adatti a climi più caldi) ed esplorando tecniche di vinificazione inedite.
Tutto ciò nel pieno rispetto della visione olistica che l’azienda applica sin dall’introduzione - fra le prime in Italia - della coltivazione biologica-dinamica.
La vestizione doveva trasmettere una serie di concetti: il forte contenuto innovativo, il carattere sperimentale e non ripetibile di ciascuno dei vini della linea, il costante impegno verso l’elevazione qualitativa, il rispetto dell’ambiente e verso il vigneto inteso come entità vivente e non semplice strumento produttivo, l’attenzione rivolta alle persone siano esse i partner che da generazioni conferiscono le uve o gli appassionati ai quali questi vini sono rivolti.
Il nome ‘Comete’ oltre a costituire un riferimento esplicito al simbolo aziendale, indica in modo chiaro il senso e la finalità di questi vini, prodotti in quantità limitatissima: la cometa indica una direzione, può avere durata brevissima o estremamente lunga, ma lascia una traccia, l’indicazione di un percorso sul quale proseguire.

Comete Alois Lageder

L’identità grafica della linea non poteva essere semplicemente coerente con l’identità aziendale, doveva esprimere con immediatezza la fase evolutiva in corso e doveva farlo in modo non convenzionale. La soluzione con una singola etichetta avvolgente semplifica l’applicazione manuale; il fondo blu - colore istituzionale Lageder - evoca lo spazio cosmico e accoglie il gesto (richiamo al valore di artigianalità) che distribuisce il pigmento e che traccia la cometa. Sono stati esaminati con cura tutti gli aspetti realizzativi e la loro sequenza: una carta unica per vini bianchi e rossi, adatta ad assicurare stabilità anche a contatto diretto con l’acqua e il ghiaccio; che fosse naturale ed esprimesse preziosità; e con una superficie sulla quale il colore aderisse in modo permanente. I pigmenti usati (bianco e rosso) sono costituiti da componenti naturali, sono predisposti per un’essicazione molto rapida e una stabilità elevata per agevolare le operazioni manuali relative alla vestizione.
Ogni bottiglia è quindi caratterizzata da una cometa diversa dalle altre e, al termine del confezionamento, viene numerata per sottolinearne l’unicità.

Tag Biodinamica, Packaging, Progetto BIO

21 / 07 / 2017

Gruppo Italiano Vini - Progetto Biologico Italiano.

Il nuovo progetto Biologico Italiano del GIV, Gruppo Italiano Vini, mira a valorizzare l’offerta BIO di alcune selezionate aziende.
Per Bigi, Castello Monaci, Melini e Rapitalà, abbiamo studiato un nuovo packaging in grado di garantire a ciascuna etichetta una precisa identità, personalità e riconducibilità all’azienda di appartenenza.
Si è anche voluta affermare una forte riconoscibilità di questa linea, grazie alla creazione di un simbolo dedicato, che firma i prodotti BIO del Gruppo, e a comuni criteri estetici.
In tutte le etichette si è scelto di utilizzare illustrazioni spontanee, pulite, caratterizzate da colori freschi, in grado di esprimere vitalità e genuinità.

etichette Progetto Biologico Italiano

Nel dettaglio: per Rapitalà abbiamo scelto una farfalla dai colori molto vivaci, simbolo di buona salute dell’habitat; per Castello Monaci abbiamo pensato di illustrare alcuni fili d’erba, per richiamare la tecnica del sovescio, utilizzate per arricchire la terra di nutrienti assolutamente naturali.
Per Melini, abbiamo riprodotto la coccinella, simbolo delle coltivazioni in cui non si usano antiparassitari chimici; e infine Bigi, per cui abbiamo scelto un tralcio di vite sezionato e illuminato da un fascio di luce, ad evocare l’influenza che gli astri esercitano nel tempo sulla pianta e i suoi cicli vitali.

Tag Packaging, Progetto BIO

11 / 07 / 2017

L’Arena: l’Amarone sulla rotta di Ulisse, alla prova si cimentano in 700.

Tratto dall’articolo di Camilla Madinelli: “L’Amarone sulla rotta di Ulisse, alla prova si cimentano in 500”, pubblicato su L’Arena, Luglio 2017

Il mito di Ulisse, dal suo avventuroso viaggio per mare e in terre lontane al suo intelletto multiforme, affascina ancora a distanza di millenni e insegna a designer, grafici, enologi e velisti degli anni Duemila a cogliere sfide sempre nuove. Sfide del futuro, ma strizzando l’occhio al passato. L’eroe omerico è stato il filo conduttore, a Cantina Valpolicella Negrar, dell’articolata cerimonia di premiazione dell’etichetta Limited Edition «Wine Mythology Label» per l’Amarone Vigneti di Jago 2012 Domìni Veneti. L’etichetta vincitrice, dello Slum Design Studio di Firenze, è nata dal concorso internazionale di idee «Wine Mythology Label» promosso da Code (COmpetitions for DEsigners) in collaborazione con Cantina Valpolicella Negrar e con la partnership tecnica di Upm Raflatac e Grafical. Al concorso, coordinato dalla responsabile relazioni esterne della cantina, Marina Valenti, hanno partecipato 700 concorrenti tra designer, artisti e progettisti, provenienti da 40 Paesi del mondo. Dunque, il binomio vino e design risulta essere tra i più convincenti. Soprattutto se al binomio si aggiunge pure una componente mitologica. Soprattutto se, di mezzo, c’è lo zampino di Ulisse. «Progettare un’etichetta e creare un vino hanno molto in comune con la figura di Ulisse», spiega il wine designer Giacomo Bersanetti. «Ci vogliono sottigliezza d’ingegno, il coraggio di saper spostare il proprio punto di vista, curiosità e abilità nel veicolare contenuti autentici di valore. L’etichetta vincitrice, realizzata con capacità di estrema sintesi e utilizzando il colore come luce, è molto evocativa e invita l’appassionato di Amarone a stabilire un contatto più intimo con il vino».

Giacomo Bersanetti

Mettersi alla prova, del resto, per molti è un piacere e un’avventura irrinunciabile. A costo di rischiare il naufragio, proprio come Ulisse. E’ capitato a Matteo Miceli, imprenditore, costruttore di barche e velista per passione, durante il ritorno dalla sua terza regata in solitaria nel 2015. Il naufragio gli è costato la chiglia di Eco4O, la sua imbarcazione dotata di pannelli solari, idro-turbine e pale eoliche per navigare in modo ecosostenibile. A mettere in sesto l’imbarcazione per la rimessa in acqua ci ha pensato un’azienda veronese, la carpenteria d’eccellenza Dmz di Villa Bartolomea. Così Miceli, come svela alla cantina cooperativa, è pronto per la sua ultima avventura: Ocean World 2019, giro del mondo che farà a bordo in autosufficienza energetica e alimentare (porterà con sé in mezzo al mare orto e pollame), in regata con altri solitari come lui. Affascina ancora così tanto, il mitico navigare di Ulisse, che l’accademico Giorgio Conti, a Venezia co-coordinatore degli Archivi della Sostenibilità dell’Università di Ca’ Foscari, ha confessato di averlo ripercorso quando era giovanissimo. Rimane coni piedi per terra e nel terroir, infine, l’enologo e direttore generale di Cantina Valpolicella Negrar, Daniele Accordini, giurato del concorso: «L’ intelligenza di Ulisse», conclude, «è quell’intuito capace di leggere la realtà in modo duttile e di trovare nuove soluzioni a eventuali problemi, un’intelligenza propria del viticoltore, il quale trova i punti deboli del sistema produttivo e li cambia, adattando la tradizione».

Tag Press

07 / 07 / 2017

“Golf 1927” Barone Pizzini - Progetto BIO.

Il nuovo Brut “Golf 1927” di Barone Pizzini nasce per rimarcare il carattere innovativo e pioneristico del Barone Edoardo Pizzini Piomarta che, nel 1927, fonda uno dei primi campi da golf in Italia.

Punto di partenza del progetto, lo studio di un’etichetta essenziale e moderna, caratterizzata da due elementi grafici prioritari: la figura femminile di una giocatrice di golf, tratta da un’immagine dell’epoca, e una particolare texture che ha come riferimento la struttura a cellette del favo, ideale associazione fra le api, simbolo di autenticità e naturalità, e le bollicine della prima azienda biologica in Franciacorta.

Ed è proprio il tema del favo che ci ha ispirato nel disegno di un oggetto che vuole amplificare e rendere riconoscibili i valori aziendali: un espositore con una struttura dalla valenza protettiva e allo stesso tempo estetica, realizzato con materiali naturali e del tutto riciclabili.

Etichetta ed espositore Golf 1927 di Barone Pizzini

Valori trasversali che coinvolgono anche altri strumenti di comunicazione quali:

-      il motion graphic, molto utile nelle visite in cantina poiché in grado di raccontare in pochi minuti la vicenda aziendale, i suoi valori e la sua missione in modo chiaro e coinvolgente;

-      la brochure aziendale, uno strumento evidentemente molto diverso dal precedente, ma allo stesso modo in grado di rimarcare la storicità e i valori della cantina.

BaronePizzini_Golf1927

Tag Progetto BIO

30 / 06 / 2017

SGA Wine Design - Museo del Marchio Italiano.

Nel 2003, Raffaele Fontanella, Maurizio Di Somma, Marcello Cesar e Francesco Ruta, pubblicano il libro “Come cambiano i marchi”, editato da Ikon Editrice di Milano e patrocinato dall’AIAP, Associazione italiana design della comunicazione visiva.
Un libro da cui prende vita il progetto del Museo del Marchio Italiano, con l’obiettivo di ricostruire l’evoluzione grafica dal ‘900 a oggi, di locandine, pubblicità e marchi delle maggiori aziende italiane.
950 le immagini raccolte che costituiscono il corpus di questo museo completamente virtuale che solo per brevi periodi, quando si trasforma in un “Temporary Museum”, offre al pubblico la possibilità di “toccare con mano” le opere raccolte.
Un’iniziativa che vede protagonista il marchio italiano, inteso come volano di qualità e di precisi stili grafici, quindi di determinati periodi storici; un polarizzatore della tracciatura iconografica della storia industriale e grafica italiana oltre che un approfondito resoconto della storia visiva del “made in Italy”.

Quattro i percorsi in cui si articola il Museo:
- Percorso 1, composto da una raccolta di tutte le trasformazioni compiute da 68 marchi dalla loro origine ai giorni nostri; una galleria di marchi con una storia grafica documentata attraverso il restyling nel tempo.
- Percorso 2, costituito da una raccolta di marchi, progettati ex novo o di cui non è ancora stata ricostruita tutta la storia grafica; una sezione pronta ad accogliere tutti i marchi dei migliori designer italiani.
- Percorso 3, costituito da marchi di accreditate e note agenzie di comunicazione.
- Percorso 4, rappresentato da marchi di progettisti che hanno fatto la storia della grafica italiana.

Proprio all’interno del percorso 3 è presente la nostra agenzia con alcuni importanti progetti di restyling effettuati per cantine storiche come Enrico Serafino, Berlucchi, Zenato e Riccadonna, selezionate personalmente dai curatori del Museo del Marchio Italiano.

Progetti SGA - Percorso 3 Museo del Marchio Italiano

Tag Press

03 / 04 / 2017

Wine club e marketing dell’accoglienza: il valore in più per le cantine.

All’interno del mondo vinicolo, dove gli strumenti di accoglienza spesso non esistono e non vengono concepiti come necessari, sono principalmente due gli scenari che si delineano; da una parte le cantine che dispongono di una struttura ricettiva organizzata e idonea al ricevimento di persone, non interpretata però dal punto di vista dell’accoglienza; dall’altra quelle che non dispongono di questa struttura, totalmente da creare.

E’ in questo scenario che si colloca il marketing esperienziale, vera e propria leva di marketing attraverso cui le cantine possono accrescere i loro benefici, sotto due punti di vista:

- commerciale: attraverso questo strumento le cantine hanno la possibilità di far conoscere i loro servizi e prodotti, talvolta esclusivi, ad una clientela selezionata;
- conoscitivo: il consumatore riverbera la sua esperienza e in questo modo lo strumento considerato, che mira a creare ambasciatori della brand, diventa un vero e proprio approccio di comunicazione.

Un percorso che si compone di diversi passaggi in cui, partendo dall’analisi del prodotto, viene studiata l’immagine aziendale, i vini da proporre con i relativi prezzi, i servizi esclusivi a servizio del consumatore - come il Wine Club, e analizzata la comunicazione al fine di attrarre e fidelizzare il wine lover; vengono inoltre applicate azioni di co-marketing, originali e creative, in grado di differenziare la cantina all’interno del mercato.
Diverse azioni che caratterizzano un unico strumento in grado di apportare notevoli vantaggi alla cantina, quando utilizzato, così come diversi svantaggi quando non viene invece considerato.

Claudio Castellaro_Wine Design

Ce lo spiega meglio Claudio Castellaro, consulente aziendale ed esperto di Marketing del Vino, partner di Sga Wine Design e da oltre 15 anni socio di Creative Business.

Il Marketing dell’accoglienza include tutte le tecniche o gli strumenti di marketing idonei ad attrarre il Consumatore, wine lovers, presso il sito aziendale, sia esso reale o virtuale con il fine di indurlo a ritornare o a relazionarsi a distanza, quindi ad acquistare i beni e i servizi offerti dall’azienda. Un percorso che mira a trasformare il consumatore in ambasciatore della reputazione aziendale, ovvero in colui che una volta avvicinato all’azienda-brand ne divulga una reputazione positiva all’interno del proprio ambiente sociale.

I vantaggi di questa tecnica sono notevoli e in buona parte “misurabili” attraverso le modalità del CRM - customer relationship management. Tra questi possiamo evidenziare:

- un incremento del fatturato rispetto a quello derivante dal Business tradizionale sino anche oltre il 10% del totale del fatturato aziendale, senza disturbare il canale tradizionale;
- raggiungimento di margini elevati rispetto al Business tradizionale (vendita diretta al consumatore);
- rafforzamento dell’immagine e della reputazione aziendale.

Gli svantaggi, per chi non considera questa tecnica, sono diversi e tra questi emergono principalmente:

- la possibilità di non cogliere il trend sempre in crescita del turismo enogastronomico;
- il rischio di non comunicare ai wine lovers e ai turisti, ovvero i soggetti dotati di maggiore potere di spesa.

Marketing dell'accoglienza & Wine Club_Claudio Castellaro

Un panorama articolato all’interno del quale è fondamentale la messa a punto di un’adeguata offerta di Servizi di Accoglienza, quali la definizione di un sito web aggiornato e coinvolgente, un blog tematico, Wine Tours dedicati ed un booking online dove poterli prenotare, oltre alla creazione del Wine Club. Uno strumento, quest’ultimo, che vede tra le sue principali prerogative quella di far percepire ai suoi membri il senso di appartenenza come privilegio, la cui base di partenza è rappresentata sicuramente dagli enoturisti, da chi acquista il vino direttamente in cantina ma anche da clienti di fiere ed eventi di settore. Diversi soggetti che necessariamente bisogna saper reclutare, con l’obiettivo di legarli fin da subito alla cantina stessa attraverso l’invito a compiere un ulteriore passo: l’iscrizione all’esclusivo club della cantina.

E’ qui che entra in gioco lo strumento del Wine Club; non una semplice associazione di enoappassionati, bensì tutta una serie di servizi offerti da una cantina direttamente ai membri del proprio club.

Il primo passo che compie il Wine lover è infatti l’iscrizione al club della cantina, secondo la modalità gratuita o a pagamento, dove con una password dedicata entra a tutti gli effetti a fare parte del mondo dell’azienda. Semplici passaggi che permettono di accedere a servizi esclusivi della cantina, differenziati sulla base del tipo di iscrizione effettuata.

Tra questi si possono ritrovare ad esempio:
- la possibilità di fare visite guidate a prezzi scontati o gratuiti
- la possibilità di acquistare delle selezioni o edizioni non in commercio, disponibili solo per i membri del club
- prenotazioni di bottiglie en primeur
- sconti sugli acquisti proporzionali al prodotto in questione
- inviti a eventi speciali in cantina
- sconti o cene incluse nel ristorante della cantina

Uno fenomeno che, se approcciato con flessibilità e trasparenza nell’offerta dei prodotti e dei servizi, permette all’azienda di fidelizzare i wine lovers più appassionati creando veri e propri ambasciatori del brand nel mondo.

“Si collocano i propri migliori vini nella cantina privata dei propri migliori consumatori; un gioco di parole che vale molto ma molto denaro.

Tag Intervista, Sito Web, Wine club

15 / 03 / 2017

Come e quali social network è meglio scegliere per la propria attività?

Nel primo articolo della nostra rubrica Digital Wine Works, abbiamo detto che i social network rappresentano uno strumento sempre più efficace per coinvolgere il visitatore nella vita dell’azienda e ampliare così la propria rete di contatti.
Canali in grado di amplificare immagine e reputazione aziendale, a patto che la strategia sia definita coerentemente con il proprio piano di comunicazione.
Ma come procedere alla scelta dei canali social? Quali elementi è utile considerare? E una volta individuati i social più coerenti al proprio fine, come gestirli?

La scelta delle piattaforme social su cui comunicare non può che avere inizio dalla focalizzazione sugli obiettivi e sul pubblico che la nostra azienda intende raggiungere, tenendo sempre presente che l’apertura al dialogo e la predisposizione all’ascolto sono requisiti imprescindibili.
Partendo dalla verifica dei canali che la nostra azienda ha aperto, si procede guardando come si muovono i competitors principali; si annotano queste informazioni in un documento.
Vengono studiate case history eccellenti, anche se extrasettoriali, restando predisposti ad osservare da un punto di vista diverso esperienze di successo: le idee creative possono arrivare anche così.
Si mettono insieme le informazioni raccolte e si analizza in modo lucido se il posizionamento sui canali social attivi è coerente con il posizionamento offline: stiamo costruendo il nostro Piano di Social Media Marketing.
Definiamo ora la nostra strategia editoriale: una presenza improvvisata, può infatti rivelarsi una estremamente negativa.

Tabella di analisi dei competitors sui social network

Oggi si parla tanto di storytelling, ma in un mondo come quello del vino, che per sua natura è racconto, questa attività esiste da sempre perchè autenticità, qualità e unicità sono le chiavi che guidano questo racconto in grado di coinvolgere il destinatario, qualunque sia la piattaforma in cui esso si trova. Che si decida di comunicare il day by day dell’azienda, curiosità e consigli di consumo sul prodotto, referenze e riconoscimenti ottenuti, backstage, l’importante è essere coerenti, credibili, veri.
Sui canali social questo è ancora più importante perché la comunicazione è più diretta, veloce, senza filtri né intermediari.

Ma quale social network è meglio scegliere per la propria attività?
Ovviamente non esiste una risposta univoca, valida per tutte le realtà.
Facebook è il canale che meglio si adatta alla condivisione di contenuti con il proprio pubblico basandosi sulla relazione che esiste tra due o più attori in gioco. Se l’obiettivo è fare storytelling, condividere notizie, momenti live e curiosità, allora questo è lo strumento che fa per la vostra azienda.  Se al centro volete mettere il contenuto, opinioni su fatti di cronaca, eventi, o news di ogni genere, Twitter ed i suoi hashtag rappresentano la soluzione ideale. Messaggi brevi, ad ogni ora e in ogni luogo. Ma ricordate, aprire questo canale pensando di pubblicare in modo sporadico e poco continuativo sarebbe un grave errore. Meglio non attivarlo.
Se l’obiettivo è quello di mettersi in “vetrina” allora Linkedin, il social network del lavoro, dove professionisti di ogni genere si tengono in contatto, fanno recruiting o personal branding, rappresenta la corretta soluzione. Instagram invece, canale nato per permettere agli utenti di condividere foto scattate direttamente dal proprio cellulare e diventato nel tempo il social di maggiore impatto visivo, oggi sempre più orientato alla condivisione di momenti live e di story, risulta utile quando l’obiettivo è quello di raccontarsi e di ispirare le persone che vedono le proprie foto pubblicate.
Canali diversi, ma poche e semplici regole valide per tutti: contenuti coerenti con gli interessi del nostro target, tono di voce adeguato e visual accattivanti e d’impatto. Un testo emozionale accompagnato da un’immagine poco curata non funziona e viceversa.
Principali caratteristiche di Facebook, Twitter, Linkedin e Instagram

Ma quali sono le tendenze verso cui i social network si stanno orientando?
L’abbiamo chiesto a Cristina Simone, esperta di Social Media e Digital PR e Social Media Strategist per NokNok.

“Non possiamo avere certezza dell’utilizzo futuro di un social rispetto a un altro, ma possiamo analizzare i trend attuali e capire gli interessi maggiori delle persone. Ricordiamoci che i brand o le aziende decidono su quali social investire tempo e risorse in base all’utilizzo delle persone. Dove ci sono le persone, lì andranno le aziende e mai viceversa. Attualmente, i trend ci dicono chiaramente che siamo nell’epoca del live, dell’istantaneo, del messaggio in tempo reale.
Non sarà un caso se Mark Zuckerberg abbia il pacchetto completo: Facebook, Instagram e WhatsApp. Su Facebook sono state lanciate le storie proprio in questi giorni, ma già da qualche mese spopolano le dirette live su Profili e Pagine; su Instagram sono state introdotte prima le Story, “prendendo spunto” da Snapchat, e poi le dirette; infine, su WhatsApp sono state introdotte solo da qualche mese le videochiamate, da poco la possibilità di condividere i propri stati.
Non possiamo dire quale social sarà più rilevante, ma sappiamo che l’esigenza delle persone è sempre più quella di comunicare in tempo reale e senza filtri, al massimo con quelli di Snapchat o Instagram!”.

Tag Comunicazione Digital, Digital Wine Works, Social Media

06 / 02 / 2017

Label Art: le leggi di organizzazione dell’informazione visiva - Parte 2.

Nella seconda parte di Label Art, evento voluto dall’associazione “Gli Ergonauti” e da Maria Teresa Tonutti che vede protagonisti Paolo Bernardis, ricercatore che si occupa di percezione visiva e neuroscienze cognitive presso l’Università degli Studi di Trieste, e Giacomo Bersanetti, designer e fondatore di SGA Wine Design, vengono approfonditi i principi su cui si basa il sistema percettivo di fronte ad un’informazione visiva complessa.

Quando in una scena visiva vediamo un oggetto e lo riconosciamo dandogli un nome, il nostro cervello ha prodotto, tra gli altri, una serie di processi che gli consentono di stabilire che certe parti della scena sono parti dell’oggetto, mentre altre sono parti dello sfondo o di altri oggetti.
Per esempio nella famosa immagine del cane dalmata del fotografo R. C. James, non è facile distinguere quali chiazze nere facciano parte dello sfondo e quali del cane; ma una volta individuata la silhouette è impossibile non vederla più.
Cane dalmata del fotografo R. C. James

Oppure nell’immagine del panda, il famoso logo del WWF, dove finisce la parte bianca della testa dell’animale e dove comincia lo sfondo bianco?
Panda logo WWF
E nel paradigmatico vaso di Rubin, qual è l’oggetto? Il vaso/candelabro o le due facce di profilo che si guardano?

Vaso di Rubin

Il nostro sistema percettivo utilizza dei principi o regole (dette anche leggi di segregazione/unificazione) per decidere quali parti di un’immagine fanno parte dell’oggetto e quali invece dello sfondo. Questi principi, descritti per la prima volta dallo psicologo della scuola della Gestalt Max Wertheimer (1880-1943), considerati per se stessi e a parità di altre condizioni, possono essere così riassunti: (a) principio di prossimità, gli elementi più prossimi tendono a raggrupparsi in unità; (b) principio di somiglianza, gli elementi più simili tendono a raggrupparsi in unità; (c) principio del destino comune, gli elementi che si muovono coerentemente tendono a raggrupparsi in unità; (d) principio dell’impostazione oggettiva, gli elementi uniti tendono a mantenere l’unità; (e) principio della buona continuazione, viene scelta l’organizzazione degli elementi che richiede una minor variazione nei bordi percepiti; (f) principio della chiusura, viene scelta l’organizzazione degli elementi che genera dei bordi percepiti chiusi; (g) principio dell’impostazione soggettiva, viene favorita un’organizzazione influenzata dalle conoscenze pregresse dell’osservatore.
La validità delle osservazioni di Wertheimer è stata confermata da un gran numero di osservazioni successive, utilizzando modelli probabilistici (Kubovy, 1994). La maggior parte degli studiosi di percezione oggi concorda nel ritenere che le leggi di Wertheimer funzionano perché corrispondono a regolarità statistiche dell’ambiente e degli oggetti che lo popolano.

I legami tra arte e scienza sono ben noti e affondano le origini molto lontano, basti pensare a Leonardo da Vinci, alle sue opere pittoriche ma anche ai suoi trattati di anatomia e fisiologia. Per citare un esempio dei giorni nostri, uno scienziato a me particolarmente caro, che si è anche dedicato alla pittura è Gaetano Kanizsa. Kanizsa è stato uno studioso di percezione visiva di fama internazionale, fondatore della scuola triestina, che ha dato contributi fondamentali e di ampia notorietà internazionale agli studi sulla percezione e più in generale alla psicologia dei processi cognitivi. Il “triangolo di Kanizsa” (inventato nel 1954 e divenuto un esempio ormai classico di illusione percettiva) è ritenuto una sorta di icona universale delle ricerche sulla percezione visiva.
Ma Gaetano Kanizsa fu anche sorprendente pittore, e nella pittura riversò, non senza ironia, il suo interesse per il “farsi” delle immagini, come ebbe a scrivere in occasione della sua partecipazione alla X Biennale di San Martino di Lupari, 1990*. Una app* a lui dedicata può essere scaricata da questo link: https://itunes.apple.com/it/app/kanizsapp/id1038839202?l=en&mt=8
PAOLO BERNARDIS

Seguono esempi di progetti ispirati alle leggi di organizzazione percettiva di Wertheimer.

Principio della somiglianza - progetto Cesari
Cesari - 2004

Principio della buona continuazione - progetto Michele Chiarlo
Michele Chiarlo - 2014

Principio di chiusura - progetto Cascina Castlet
Cascina Castlet - 2008

Principio dell'impostazione soggettiva - progetto Cesari
Cesari - 2010

*Dal catalogo “Moltitudine di impronte” 2002, pubblicato dalla figlia Silvia Kanizsa.
*App realizzata da Paolo Bernardis, Walter Gerbino, Carlo Fantoni, Studio trart e Provincia di Trieste.

Tag Etichetta, Intervista, Packaging

20 / 01 / 2017

L’importanza della coerenza nella comunicazione offline e online.

Nello scorso appuntamento (potete ritrovarlo a questo LINK) abbiamo approfondito l’attività SEO (Search Engine Optimization), ovvero il principale strumento con cui un’azienda può agire sul proprio posizionamento online e il modo in cui scegliere le parole chiave per far si che i contenuti e i concetti legati ai propri prodotti possano incontrare le preferenze dei potenziali clienti. Parole che, al fine di poter essere identificati in modo univoco e continuativo all’interno del mercato, devono essere coerenti con i propri valori aziendali. Un’attività questa, che solo quando integrata in una strategia basata su obiettivi comuni con quelli della comunicazione offline, può dare vita a sinergie utili ad amplificare il proprio messaggio, quindi i propri investimenti.

Vediamo cosa s’intende quando si parla di attività e strumenti di marketing offline e online:

• I primi, spesso definiti “tradizionali”, sono tutti quelli che permettono all’azienda di essere conosciuta al di fuori del web, come trade folder, brochure, catalogo, leaflet, campagne stampa tradizionali, stand, packaging e secondary packaging;
• I secondi invece sono da un lato riconducibili a tutte quelle attività web, come il sito ed i canali social, e a strumenti come SEM (Search Engine Marketing), SEO (Search Engine Optimization) ed email marketing.

Quali attività o strumenti è meglio scegliere nella definizione della vostra strategia affinché il pubblico possa riconoscervi in modo chiaro e memorizzabile? Quali sono quelle che possono dare il risultato migliore?

Coerenza strumenti di comunicazione off e online_Trussardi Alla Scala

La risposta è “integrazione”. Il mondo offline e quello online non possono più essere visti come due realtà distinte e antagoniste, bensì come alleati, come due facce della stessa medaglia tra loro interconnesse e indivisibili. Un insieme di strumenti e di attività, che solo quando ben gestiti, studiati e pianificati in modo coerente ai valori dell’azienda, permettono alla cantina di essere riconosciuta in un mercato dove la concorrenza è molto forte; dunque una comunicazione integrata, caratterizzata da azioni sinergiche e complementari, in grado di creare occasioni utili ad avvicinare nuovi potenziali clienti.

Ma vediamo più nel dettaglio le singole azioni che ogni azienda dovrebbe metter in atto per rendere la sua presenza coerente su tutti i canali di comunicazione utilizzati:

definizione di uno o più obiettivi all’interno di un piano di azione integrato: qualsiasi sia il media in questione, l’obiettivo deve sempre essere chiaro e coerente alla visione aziendale;

definizione del tone of voice: che scegliate di comunicare in modo friendly o istituzionale l’importante è che il tono utilizzato risulti sempre in linea con il carattere della vostra azienda e sia coerente con l’immagine da veicolare, l’obiettivo da raggiungere, il pubblico da intercettare. L’affinità tra gli strumenti e i diversi linguaggi è dunque prioritaria. Contenuti del sito e della brochure ma anche i prodotti dell’ufficio stampa - press realease e press kit– devono essere “armonici” nella forma come nella sostanza;

realizzazione di immagini evocative, coinvolgenti ed emozionanti: ogni immagine, poiché elemento di rilievo all’interno della comunicazione, è bene che venga scelta in modo intelligente e mirato;

verifica della coerenza dell’immagine coordinata su tutti i canali utilizzati.

Un approccio efficace, di recente applicato dai nostri colleghi di NokNok al progetto da loro realizzato per il ristorante Trussardi alla Scala; un progetto che nasce dalla volontà di dare una nuova impostazione alla comunicazione dell’area food&beverage del Gruppo Trussardi.

Tutti gli strumenti concepiti sono stati realizzati in un’ottica di coerenza off e online partendo da alcuni punti saldi della comunicazione visiva della Maison e del linguaggio all’insegna della “effortless elegance” che contraddistingue lo stile Trussardi. I colori utilizzati, oro e marrone, sono stati scelti perché in grado di richiamare in modo diretto l’immagine della brand, così come la rilegatura a punto singer realizzata a mano per ogni singola brochure. Dettagli di valore in grado di legare la realtà offline e quella online: il dorso cucito a mano della brochure diventa il menù del sito web. Un insieme di elementi in grado di trasmettere il senso di artigianalità e taylormade che, nel mondo dell’alta moda come in quello dell’alta ristorazione, sono centrali. Last but not least, il mood fotografico, concepito e applicato per dare risalto alla forza e alla spontaneità della luce naturale.

coerenza mood fotografico

Differente nei tre diversi spazi, per il ristorante Trussardi Alla Scala il mood è luminoso, in grado di dare risalto alla luce naturale del locale, così come per il Café Trussardi, uno spazio dal sapore urbano e green al contempo sostenibile grazie al giardino verticale del dehor; infine la Lounge Trussardi, lo spazio più intimo del locale, per cui è stato individuato un mood in grado di creare un’atmosfera serale, calda ed accogliente. Le atmosfere degli ambienti ed il tone of voice utilizzato risultando coerenti su tutti i canali di comunicazione, il sito, la brochure e l’ufficio stampa, diventano il modo per far vivere, sia a chi entra in contatto con il materiale cartaceo che digitale, l’atmosfera reale, nonché l’approccio del locale: un’uniformità di linguaggio che si sposa con quella visiva.

Due differenti realtà, l’offline e l’online, che si fondono nel complesso puzzle della comunicazione, dove bisogna essere in grado di incastrare tutti i tasselli nel modo corretto. Per fare questo ecco in quali errori è bene non incorrere:

• una conoscenza superficiale del proprio target: spesso lo si definisce a grandi linee, quando invece, per far si che le persone interagiscano in modo attivo con l’azienda e che la scelgano al posto di un competitor, è fondamentale definirlo in modo preciso;

trascurare la scelta di colori, font e grafica: un insieme di elementi che, se definiti in modo non coerente ai valori e ai contenuti da veicolare al pubblico, possono talvolta risultare fuorvianti e penalizzanti per la brand stessa;

innovazione di un solo canale: spesso si pensa a rinnovare l’immagine dei soli canali online, dimenticandosi quelli offline o viceversa, ed è così che la propria identificazione all’interno del mercato diventa contraddittoria e non uniforme;

Online oggi vuol dire sempre più canali social che non esulano dalle regole di coerenza di cui abbiano finora parlato. Ma come scegliere i canali su cui posizionarsi? Quali strategie preferire? Nel prossimo appuntamento approfondiremo la rilevanza dei social network e il modo in cui utilizzarli.

Tag Comunicazione Digital, Digital Wine Works

11 / 01 / 2017

Label Art: l’incontro tra ricerca, progetto e produzione - Parte 1.

Label Art, evento voluto dall’associazione “Gli Ergonauti” e da Maria Teresa Tonutti, vede protagonisti Paolo Bernardis, ricercatore che si occupa di percezione visiva e neuroscienze cognitive presso l’Università degli Studi di Trieste, e Giacomo Bersanetti, designer e fondatore di SGA Wine Design, in un approfondimento sulle relazioni che intercorrono tra ricerca, progetto e produzione.

Lo spirito con il quale è nata l’idea di questo incontro va nel senso di accorciare la distanza che ancora c’è tra mondo dell’impresa, dell’università e la società. Lo scopo è stato quello di far dialogare chi fa ricerca per produrre conoscenza, nello specifico sulla nostra mente e sul cervello, e chi usa questa conoscenza per realizzare un prodotto, l’etichetta di una bottiglia, per comunicare nella maniera più efficace con l’utente finale.
Le informazioni visive che giungono ai nostri occhi vengono elaborate e trasformate per creare all’interno della nostra mente delle rappresentazioni del mondo esterno in cui viviamo. Queste rappresentazioni interne (o percetti) si formano seguendo dei principi o modelli di funzionamento dei processi cognitivi che non si limitano a spiegare il funzionamento della mente ma cercano di spiegare come possono essere implementati nel nostro cervello in meccanismi neurali, ossia modelli di funzionamento di insiemi di cellule nervose, di cui è formato il nostro cervello.

La percezione del mondo esterno

Lo studio della percezione ci pone davanti ad alcuni problemi preliminari che ci aiutano a comprendere la natura stessa dello studio della percezione. Kurt Koffka (1886-1941), uno dei fondatori della scuola della Psicologia della Gestalt, nel libro The Principles of Gestalt Psychology (1935), si pone la seguente domanda: “Why do things look as they do?” che in italiano significa “Perché le cose appaiono come appaiono?”
Domanda apparentemente strana. La riposta più semplice è che il mondo e gli oggetti sono qui presenti e ci appaiono in questa maniera (rossi, morbidi, grandi, caldi, ...) perché in realtà sono fatti così. Questo tipo di approccio si chiama realismo ingenuo, e se adottato non ci porta lontano nella scoperta dei meccanismi di funzionamento della percezione. Secondo un approccio diverso definito realismo critico le cose appaiono come appaiono perché l’organizzazione imposta dal sistema mente/cervello è quella che è. In altre parole è l’organizzazione intesa come insieme di leggi e principi di funzionamento del sistema mente/cervello che fa si che noi esperiamo le cose come rosse, calde e morbide. Molti sono gli esempi che dimostrano come l’approccio del realismo ingenuo sia sbagliato.
Ad esempio nel “triangolo di Kanizsa” si vede un triangolo bianco centrale con una punta rivolta verso l’alto il cui colore bianco è più chiaro del bianco dello sfondo.
Triangolo di Kanizsa
Il Triangolo di Kanizsa - COMPLETAMENTO MODALE

In realtà, fisicamente non esiste alcun triangolo bianco, ma tre cerchi neri a cui manca uno spicchio. Da questo esempio si può capire che “vediamo” il triangolo bianco non perché “sia qui sotto presente”, ma perché il nostro sistema mente/cervello è fatto in maniera tale da farci “vedere” il triangolo bianco. Parecchi anni dopo che questa illusione è stata documentata da Gaetano Kanizsa (1913-1993), due ricercatori (Grossberg & Raizada, 2000) hanno proposto un modello di funzionamento delle cellule nervose nel nostro cervello, che spiega perché, grazie ad un sofisticato sistema di connessioni eccitatorie ed inibitorie, nell’illusione del Triangolo di Kanizsa riusciamo a vedere il triangolo bianco centrale, nonostante quest’ultimo non esista.
PAOLO BERNARDIS

Seguono esempi di progetti ispirati al fenomeno percettivo del “completamento modale”.

Applicazione del principio modale - progetto Briccotondo
Fontanafredda - 2006

Applicazione del principio modale - linea Terroir
Gialdi - 2012

Applicazione del principio modale - progetto Winzenberg
Winzenberg - 2016

Tag Etichetta, Intervista, Packaging

16 / 12 / 2016

L’etichetta come primo veicolo di Storytelling.

Letteralmente, Storytelling equivale a ‘raccontare una storia’; rileggendo il significato di ‘storia’, troviamo che corrisponde ad attività e concetti ben definiti, quali: ‘ricerca, indagine e cognizione’, da cui si fanno derivare in modo diretto: ‘sapere’ e ‘vedere’. Mentre alla voce ‘racconto’ è interessante trovare che si tratta di un ‘componimento…dedicato in genere a una sola vicenda e destinato a una lettura ininterrotta, distinto dalla fiaba perché tende a rappresentare i fatti come realmente avvenuti’. In poche righe sono raccolte alcune delle principali attività e caratteristiche costitutive dello storytelling, termine che, oggi, ha molto successo e risulta imprescindibile per tutte le aziende, non solo del settore vinicolo. L’importanza di comunicare contenuti al fine di avviare, alimentare e consolidare un dialogo con i propri clienti (attuali e potenziali), nasce dalla consapevolezza che i contenuti e il modo di comunicare unidirezionale che le aziende utilizzavano in passato, risultavano schematici, superficiali e omologati, in una parola inefficaci e, soprattutto, non si teneva conto del fatto che le persone, nella relazione azienda-cliente, desiderano essere (o avere) parte attiva.

Naming & packaging_progetto Natincò
Naming e packaging

Non c’è prodotto o comparto che non abbia predisposizione al racconto, ma quello del vino è sicuramente fra gli ambiti produttivi privilegiati per la sua antica e profonda affinità con le facoltà creative e intuitive della mente e, di conseguenza, con la cultura; come una bellissima frase di Luigi Veronelli afferma: “il vino va bevuto per questo miracolo. Spinge l’intelligenza alle cose migliori”. E per il racconto del vino, della sua personalità e dei suoi valori, ben sapendo che non si può prescindere da una serie di attività e linguaggi fra loro coerenti e accuratamente integrati, l’etichetta posta sulla bottiglia è, a tutt’oggi, la vera protagonista. Per ricondurre i concetti accennati a un percorso progettuale concreto, abbiamo pensato di avvalerci della case history realizzata di recente per la Produttori Associati Moscato d’Asti, evitando volutamente le esperienze per aziende produttrici private alle quali, per altro, in circa 35 anni, abbiamo applicato lo stesso approccio metodologico. Il progetto è iniziato con una ricerca e un’indagine accurate che ci ha permesso di individuare i contenuti e i valori sui quali costruire la nuova identità; l’analisi strategica ha consentito di definire l’indirizzo progettuale ed il posizionamento, ma anche altri aspetti come prezzo, distribuzione e comunicazione.

Mario Berchio_enologo Natincò
Mario Berchio, enologo Natincò

Il nome del nuovo vino doveva esprimere il carattere collettivo dell’iniziativa ed il suo ambizioso proposito: una grande associazione di viticoltori e vignaioli decide di creare un vino che diventi punto di riferimento della propria tipologia, attraverso la messa a punto di un metodo produttivo ben definito. In relazione logica col nome Natincó, il visual mostra un coro di persone che cantano e dà quindi vita ad un’armonia; non è forse - il vino - ‘il canto della terra verso il cielo?’ Esprimendo allo stesso tempo il particolare metodo produttivo applicato per questo Moscato che consiste nella composizione di selezioni scelte in rapporto al potenziale qualitativo.

L’etichetta mostra un coro elegante, raffinato, in accordo con le caratteristiche del vino stesso e al tempo stesso evoca la tradizione musicale italiana che, nel melodramma, raggiunge la sua espressione più alta e universalmente riconosciuta. Un ulteriore aspetto fortemente caratterizzante è costituito dal colore, scelto perché decisamente distintivo, memorizzabile e capace di produrre nell’osservatore immediate associazioni con i profumi freschi e floreali del vino stesso. Tutti questi elementi di contenuto contribuiscono a creare ed esprimere un valore di unicità e di originalità secondo una struttura di senso che viene colta e interpretata dall’osservatore, anche da angolazioni diverse e, in rapporto alle proprie caratteristiche culturali e sensibilità emozionale, ne riconosce il grado di autenticità, aspetto decisivo affinché lo storytelling risulti efficace. Tutta la comunicazione conseguente, declinata su diversi media che vanno dal sito internet a una serie di video virali, dall’adv al classico trade folder, dallo stand alla presentazione digitale, rispondono a un principio di coerenza che guida e accompagna il progetto di ogni strumento in modo che agisca - come Carl Gustav Jung sintetizza in modo mirabile: ‘l’istante osservato è il totale di tutti gli ingredienti’.

Strumenti di comunicazione globale_progetto Natincò
Comunicazione integrata e immagine coordinata

Tag Global design, Packaging

28 / 11 / 2016

Enoturismo e Accoglienza: Analisi di Carlo Pietrasanta - Parte 2.

L’obiettivo del Movimento Turismo del Vino Italia è promuovere la cultura del vino attraverso l’enoturismo e la creazione d’infrastrutture e network propedeutici. A che punto è l’enoturismo in Italia? Cosa funziona e cosa no? Perché conviene?  Tutte le risposte a queste domande sull’enoturismo e molto altro in questa seconda parte di intervista (la prima la potete trovare QUI) con Carlo Pietrasanta, Presidente del Movimento turismo del Vino Italia.

Intervista a Carlo Pietrasanta, Presidente Movimento turismo Vino: Un’analisi su Enoturismo e Marketing dell’Accoglienza - Seconda Parte from SGA Wine design on Vimeo.

Come definirebbe, o descriverebbe, l’enoturismo?
L’enoturismo è la più grossa opportunità offerta al mondo del vino da 25 anni a questa parte. Si è autogenerata con un cambio epocale di mentalità: un quarto di secolo fa parlare di enoturismo, di visita delle cantine, era quasi un’eresia; oggi non c’è cantina in Italia che non faccia enoturismo.

Qual è la sua storia in Italia?
L’enoturismo nel nostro paese si è sviluppato a partire da uno studio dell’Università Bocconi del 1992, che sottolineava come, nonostante l’elevata richiesta di visitarle, le cantine italiane fossero prevalentemente chiuse. Da allora alcuni produttori, capitanati da Donatella Cinelli Colombini, produttrice di Montalcino, hanno manifestato la volontà di associarsi, cominciando a progettare delle attività legate all’enoturismo. La prima attività che abbiamo inventato è stata “Cantine Aperte”, con la prima edizione del 1993.

Quanto l’enoturismo può fungere da canale di vendita diretta? Ha qualche dato riguardo alle vendite dirette che avvengono grazie all’enoturismo?
Abbiamo cantine che stanno arrivando anche a un fatturato del 50% con la vendita diretta tramite l’enoturismo. La vendita diretta in cantina c’è sempre stata, negli anni ‘70 si vendeva molto vino sfuso. Ai giorni nostri avviene un altro tipo di vendita diretta, in bottiglia, con un margine maggiore.

In particolare, riguardo all’acquisto diretto in cantina: Qual è il valore medio e la media del numero bottiglie acquistate?
La media oscilla tra 3 e 6 bottiglie, secondo le zone e il valore del vino. Parlando di bottiglie importanti la media si attesta su 3 bottiglie; per le bottiglie di fascia media (intorno agli 8 Euro), si può abbozzare una media di 6-12.

Quanto incide questa componente sul fatturato aziendale totale?
Da un minimo del 20% a un massimo del 60%, secondo la tipologia di cantine. Per le cantine piccole le percentuali salgono, per quelle più grosse, che superano le 100.000 bottiglie e hanno un minimo di organizzazione commerciale, le quote si abbassano, ma stanno diventando sempre più importanti.

Vigneti innevati - Franco Bello
Foto di Franco Bello

Quanto influisce essere un brand noto?
Influisce specialmente sulla clientela straniera: essere un brand noto o rappresentare una zona famosa, fa arrivare molta più gente con minor fatica e fa aumentare le vendite.

Quali ritiene siano i problemi eventuali in cui i turisti provenienti da paesi lontani possono incorrere per farsi inviare i vini a casa propria? Quali crede che possano essere le soluzioni?
I problemi sono enormi: dopo l’11 settembre 2001, per questioni di sicurezza, non si possono più portare in cabina le bottiglie di vino. Dunque presso le cantine è crollata la vendita di vino ai turisti stranieri che arrivano in aereo. Per via delle accise e delle regolamentazioni UE, per una cantina è complicato spedire del vino a un cliente privato all’interno dell’Unione: si dovrebbe seguire un’iter analogo a quello dell’importazione. Perciò, come Movimento, stiamo realizzando una piattaforma che permetterà di spedire il vino al privato straniero utilizzando il metodo dell’autospedizione: il cliente straniero prenoterà e pagherà direttamente nella nostra cantina la spedizione (quindi non siamo più noi che spediamo come cantina, ma è il visitatore, l’enonauta che si autospedisce il vino). Questo espediente, consentito in tutti i 28 paesi della UE, permetterà all’utente di inviare fino a 90 litri al giorno, pagando delle cifre molto più basse perché ci sarà una convenzione a livello nazionale.

Quanto ritiene siano necessari i canali digitali (app, Internet e social network in primis) per questo tipo di offerta?
Sono fondamentali, ma bisogna saperli usare e gestire per evitare che diventino un boomerang: piuttosto è meglio non averli. Una delle nostre missioni consiste proprio nel cercare di creare consapevolezza tra le cantine e gli altri attori di un territorio (chi fa ospitalità, ristorazione, prodotto tipico) in modo tale che autogestiscano questi nuovi strumenti insieme, abbattendo i costi. Se è plausibile che una piccola azienda non possa permettersi di occupare una persona solo per questa attività, è vero che 5, 6, 7 soggetti (di cui magari solo 2 o 3 appartenenti allo stesso settore: enologia, ristorazione, alberghiero, produzione tipica), mettendosi insieme, possono fare sinergia. Insieme possono imbastire la giusta comunicazione ed evitare che app, piattaforme e quant’altro si trasformino in un’arma a doppio taglio: non dare una risposta in tempi brevi a un enonauta o a chi ha rivolto una critica certe volte diventa un problema.

Quanto è importante sapere gestire in modo integrato questi canali con la comunicazione tradizionale?
È fondamentale: con la comunicazione classica è possibile catturare l’attenzione del target dai 40-45 anni in su, che è già clientela consolidata, con i nuovi metodi di comunicazione si possono invece contattare, coltivare, fidelizzare i Millennials, la generazione dei ventenni, e non solo: anche la persona di 80 anni se è appassionata. La comunicazione digitale oggi ha uno spettro più largo perché ci sono sempre più persone, anche di una certa età, che sono in grado di consultarla.

In quali nazioni ritiene che si stia lavorando bene per la promozione e diffusione dell’enoturismo? Può fare qualche esempio?
L’esempio più eclatante sono i nostri cugini francesi. Da loro c’è solo da imparare, anche se noi italiani siamo più bravi e più brillanti. Solo un paio di esempi recenti: il giorno prima che aprisse la BIT (Borsa Internazionale del Turismo n.d.r.) a Milano, i francesi hanno presentato il nuovo portale Visitfrenchwine.com, fatto dallo stato e dalle aziende, grandi e piccole. Sul sito tutti hanno la stessa visibilità, compaiono nello stesso modo e con la stessa importanza la grande zona di produzione, come può essere la Champagne, e la piccola come può essere il Jura. All’interno della zona sono promosse la grande maison e il piccolo produttore, con la stessa visibilità e con la stessa potenzialità. Poi è logico, la grande maison che può ricevere anche 10 pullman al giorno avrà più visitatori, la piccola azienda meno, ma alla fine i risultati sono utili per tutt’e due.
L’altro esempio è l’inaugurazione in pompa magna a Bordeaux, venti giorni fa, della Cité du Vin, il museo internazionale del vino; tra pubblico e privato sono stati investiti 80 milioni di Euro per realizzare la palazzina a forma di decanter che ospita il museo, un’operazione che ha messo d’accordo i colori politici diversi dello stato centrale, uniti per far sì che dall’anno prossimo questo posto possa ospitare tra i 4 e i 5 milioni di visitatori. Noi avevamo una situazione bellissima in Italia: il Museo del Vino e dell’Olio a Torgiano della famiglia Lungarotti, ma è privato, e l’Enoteca Italiana a Siena, una situazione fantastica che, per motivi politici, è stata chiusa.

Backstage intervista Carlo Pietrasanta - Presidente Movimento Turismo Vino
Carlo Pietrasanta con Claudio Castellaro

Esiste una normativa per questo settore? Ritiene sia adeguata? Agevola od ostacola lo sviluppo dell’enoturismo?
Esiste la legge sulle Strade del Vino del 1999, ma sarebbe meglio se non esistesse. È composta di 4 articoli, dal ‘99 a oggi non sono stati fatti i regolamenti attuativi. Negli anni, con il passaggio di alcune competenze alle Regioni si è creata confusione, queste istituzioni hanno dato vita alle Strade del Vino e dei Sapori, mischiando il vino con altri prodotti. Nel momento in cui sono finiti i soldi pubblici alcune Strade sono state abbandonate e oggi esistono solo perché indicate da vetusti cartelli stradali.
Hanno fatto eccezione alcune situazioni virtuose, che sono state capaci di non tradire il progetto iniziale di Strada del Vino: questo non vuol dire che ristorazione, alberghiero, prodotto tipico non vengano a loro volta trascinati, anzi. Ma dev’esserci uno solo al comando, dev’essere il vino a dettare le linee guida. Poi, dato che chi viene in cantina deve mangiare, deve dormire, ama comprare i prodotti tipici, ama comprare l’artigianato, ce n’è per tutti.

Ritiene necessario quindi il networking tra tutti gli operatori (turistici, enologici e altri)? Ha qualche esempio?
È fondamentale il networking: un esempio in questo senso è la Strada del Vino della Franciacorta. La Strada è nata autonomamente dal Consorzio; i produttori di vino Franciacorta, soci del Consorzio, pagano una sola quota, onnicomprensiva. Il Consorzio versa il necessario alla Strada per le sue attività. Ecco un sistema che funziona e che porta risultati. Non è che nella Strada Franciacorta non ci siano alberghi e ristoranti ma, torno a ripetere, chi comanda dev’essere uno. In una zona dove non c’è vino, ma c’è una grande produzione di mele, ad esempio nella Val di Non, si potrà creare la Strada delle Mele: ma sarebbe un’operazione priva di significato in giro per il mondo, dove sono diffuse le Strade del Vino, le Wine Route, così note da essere “inventate” anche dove non ci sono perché il vino, con la sua etichetta, è l’immagine di un territorio.

Questo è un esempio italiano. E all’estero?
Le Strade del Vino californiane fanno dei numeri che noi in Italia non possiamo neanche sognare. È un concetto diverso, le cantine che ci sono in California non hanno la fortuna di essere collocate all’interno di strutture come le nostre, ma il loro è un prodotto turistico ed è organizzato come prodotto turistico. In quelle cantine entra anche l’astemio: come dice un mio amico produttore franciacortino, l’importante è che abbia la carta di credito ancora non consumata, così da potergli vendere di tutto, dal vino, che magari regalerà a un amico, al cavatappi, al grembiule. Tutte queste cose in Italia non si possono vendere: noi produttori di vino possiamo vendere solo ed esclusivamente vino.

Qual è la tipologia di turisti in visita? Secondo lei quali sono le classi socio-culturali prevalenti e la loro provenienza?
In questi ultimi due anni c’è stato un aumento di turisti stranieri, anche nelle zone minori. Devo dire che l’Expo sta facendo vedere il suo effetto oggi, a un anno dalla chiusura, perché ha portato turisti un po’ da tutto il mondo e di tutte le tipologie a rivedere e riapprezzare l’Italia. In Italia l’enoturista è mediamente una persona con una buona capacità di spesa e con un’età che va dai 30 ai 60 anni.

Ritiene esistano nuovi trend in questo senso?

Possono essere creati. Oggi la cantina è vista non solo come un luogo dove comprare il vino ma anche come una meta dove rilassarsi. Un trend in crescita è rappresentato dalle visite in cantina durante la vendemmia: si può fare attività ludico-didattica, raccogliere l’uva (magari non troppo a lungo perché è faticoso), addirittura tornare a pigiarla con i piedi. Certo, il produttore deve essere pronto a sacrificare quel quintale d’uva, ma la gente è disposta a pagare, con varie formule, dai 27 ai 30 Euro e poi compra il vino, perché è stata accontentata.

 

Tag Enoturismo, Intervista

20 / 10 / 2016

Il SEO per le cantine e per il mondo del vino.

Nell’ultimo appuntamento (se ve lo siete perso è consultabile a questo LINK) abbiamo visto come si legge la SERP (la pagina dei risultati di ricerca di Google) e abbiamo specificato che l’obiettivo di qualsiasi produttore di vino è quello di comparire il più in alto possibile nei risultati di ricerca, per ottenere la massima resa e cogliere appieno le potenzialità della propria pagina web e del proprio vino, raggiungendo più potenziali clienti di qualità: gli utenti esprimono con le loro ricerche bisogni, desideri o interessi che li rendono appunto potenziali clienti per la vostra azienda.

Tutto questo a patto che i vostri contenuti rispondano alle loro richieste, ma andiamo per gradi.

Il principale strumento con cui possiamo agire sul posizionamento della pagina della nostra cantina è il SEO che:

•è un’ attività costante, che deve essere fatta tenendo presente l’andamento del web, degli interessi degli utenti, del mercato enologico e degli obiettivi della nostra cantina;
può essere svolta su di un sito web già esistente, quindi senza rifarlo completamente;
•per questa attività esistono diversi strumenti, più o meno complicati, ma poiché richiedono molto tempo, di cui spesso chi è impegnato in altri ambiti del mondo enologico scarseggia, e competenze, sempre più specifiche, vengono utilizzati solo da agenzie specializzate.

Approfondiamo questa importante attività partendo da dove avevamo lasciato, in particolare dal singolo risultato nella pagine di ricerca.

Per ogni risultato, Google ci mostra alcuni degli elementi che è necessario curare ai fini del SEO: di questi, alcuni sono visibili agli utenti quando consultano la pagina della vostra cantina, per esempio Title e URL (rispettivamente in viola e verde nella figura sottostante), e altri invece non lo sono, come la Description (in grigio).

Title URL Descrption Tenuta Scerscè

Ma cosa rappresentano questi elementi?

Nel Title è necessario descrivere nel modo più conciso ed efficace possibile il concetto espresso dal contenuto della pagina in questione. Spesso la decisione se consultare o meno un contenuto dipende proprio dalla capacità del titolo di catturare l’attenzione degli utenti. L’URL consiste in una serie di caratteri che identifica univocamente l’indirizzo sul web di un contenuto. E, infine, la Description consiste nell’anteprima della pagina in cui se ne descrivono molto brevemente i contenuti.

Come può agire un produttore su questi elementi per fare in modo che il proprio vino intercetti sul web quegli utenti che lo stanno cercando ma “non lo sanno ancora”?

Tutti e tre gli elementi dovranno contenere le parole chiave, pertinenti ai propri contenuti, su cui ci si vorrà posizionare e competere: questa coerenza produrrà un migliore posizionamento sui motori di ricerca. Per far si che l’utente interessato ad un determinato tipo di vino incontri il sito della vostra cantina, e che quindi soddisfi attraverso di voi il suo desiderio, diventando un vostro cliente, è necessario che le parole su cui voi decidete di distinguervi e posizionarvi sui motori di ricerca coincidano il più possibile con quelle che lui utilizza come chiavi di ricerca. Questo permetterà di intercettare i vostri potenziali clienti che si selezioneranno, compiendo una particolare ricerca, e di loro iniziativa vi contatteranno, riducendo per voi i costi di segmentazione, selezione, pubblicità, comunicazione e contatto.

Vi starete chiedendo come si devono scegliere le parole chiave? Quali sono preferibili?

Innanzitutto è utile chiarire che pur non essendo sufficiente, la scelta delle parole chiave da valorizzare all’interno dei contenuti è sicuramente l’attività di base per un buon posizionamento sui motori di ricerca: basti pensare che l’obiettivo di questa attività consiste appunto nel far incontrare i contenuti e i concetti legati al vostro vino con le richieste e le preferenze degli utenti, potenziali clienti.

È’ determinante decidere a quali segmenti di pubblico vogliamo indirizzare i propri contenuti e, quindi, decidere su quali parole chiave posizionarsi: non sarà sufficiente decidere quali sono più rilevanti per il vostro vino, ma sarà necessario capire quali parole gli utenti associano, o possono associare, ai vostri prodotti e valorizzarle nella progettazione e nella stesura dei vostri contenuti; è necessario cioè puntare anche su quelle parole che maggiormente vengono utilizzate come chiavi di ricerca, quando gli utenti sono interessati al vostro vino e alla vostra cantina.

L’efficacia di una parola chiave si misura in termini:

di traffico che riesce a convogliare verso il sito della vostra azienda;
del livello della concorrenza per posizionarsi più alto possibile nelle ricerche effettuate con quella parola chiave.

Chiaramente questi due parametri sono direttamente proporzionali e, al salire del traffico, aumenterà anche la concorrenza per le prime posizione nella SERP rispetto ad essa.

Riguardo ai parametri delle chiavi di ricerca e alla strategia SEO da seguire, è stata anche applicata la cosiddetta “Teoria della coda lunga”.

Schema teoria coda lunga per il SEO

Secondo questa teoria, in ottica SEO, esistono termini di ricerca:

a coda corta: cioè singole parole, molto generiche e solitamente molto utilizzate;

a coda lunga: sono composti da 2,3 o 4 parole (man mano che si procede verso destra lungo la curva del grafico), parole specifiche, parole poco utilizzate.

Sul primo tipo di termini di ricerca, esiste una forte concorrenza ed è difficile aggiudicarsi una buona posizione rispetto a questi termini; tuttavia generano un alto traffico. Le chiavi di ricerca del secondo tipo generano un traffico inferiore, ma la competizione per esse è minore; si potranno ottenere buone posizioni nei risultati della ricerca e, soprattutto, il tasso di conversione, con cui chi cerca questi termini clicca poi effettivamente sul sito della vostra cantina, perché molto interessato, è significativamente maggiore.

Quindi il traffico sul sito di una cantina che ha voluto posizionarsi su parole a coda lunga sarà traffico di qualità poiché gli utenti avranno compiuto ricerche più specifiche; in altre parole si andranno a contattare solo quei potenziali clienti effettivamente interessati al vostro prodotto.
Puntare su questo tipo di termini inoltre risulta economicamente vantaggioso quando si utilizza una strategia di posizionamento a pagamento (come il SEA ) poiché i termini a coda corta godono di prezzi inferiori.

Non esiste una strategia migliore di tutte le altre e sempre valida, ma il percorso da seguire varierà sempre in funzione degli obiettivi strategici che si vogliono perseguire con questo potente strumento di visibilità e, di conseguenza, di contatto. Spesso questi obiettivi devono essere comuni o integrati con quelli della comunicazione offline: solo così si riusciranno a creare le sinergie necessarie per amplificare il proprio messaggio e rendere i propri investimenti il più efficienti possibile. Per questo motivo sono necessarie competenze, capacità ed esperienze di cui o si dispone internamente o si devono ricercare in agenzie specializzate e integrate.

Proprio riguardo al “sistema comunicazione” integrato e sinergico, on-line e off-line, sarà dedicato il prossimo appuntamento della rubrica Digital Wine Works.

Tag Comunicazione Digital, Digital Wine Works

13 / 10 / 2016

Enoturismo e Accoglienza: Analisi di Carlo Pietrasanta, Presidente Movimento Turismo Vino.

Classe 1962, Carlo Giovanni Pietrasanta è tra i soci fondatori del Movimento Turismo del Vino Italia, associazione per lo sviluppo dell’enoturismo e dell’accoglienza nel mondo del vino, e dal 2015 è il presidente del Movimento.
Obiettivo dell’associazione, come riporta il Presidente Pietrasanta, è promuovere la cultura del vino attraverso le visite in cantina. Sta nascendo in questo senso la disciplina del marketing dell’accoglienza, il modo moderno di riprendere e valorizzare una pratica che un tempo avveniva in modo spontaneo in cantina.

Intervista a Carlo Pietrasanta, Presidente Movimento turismo Vino: Un’analisi su Enoturismo e Marketing dell’Accoglienza - Prima Parte from SGA Wine design on Vimeo.

Come ritiene sia la preparazione sul marketing dell’accoglienza da parte delle cantine, delle aziende e delle persone che offrono questo servizio?
A macchia di leopardo: abbiamo delle grandissime eccellenze, e c’è una base di operatori che si sono autoformati, che hanno iniziato a fare enoturismo 25 anni fa e hanno imparato ad accogliere le persone, a promuovere le loro cantine. Oggi c’è bisogno di formare le nuove leve, anche perché è cambiato il mondo in questi 25 anni. Oggi, con la comunicazione web, bisogna essere pronti a ricevere i nuovi enoturisti che arrivano da tutte le parti del mondo, accogliendo in un determinato modo il turista giapponese e in un altro modo il turista americano. Il Movimento si occupa di fare formazione proprio per preparare le sue cantine a questi flussi turistici.

L’importanza della cultura di marketing applicata all’accoglienza è evidente, ma quante cantine ne sono consapevoli?
Poche: molto spesso noi produttori, come è giusto che sia, ci dedichiamo molto alla vigna e alla cantina e ci dimentichiamo, per la nostra scarsa preparazione, degli aspetti di marketing e comunicazione. Questo è specialmente vero nelle piccole cantine, con poco personale, dove il produttore deve fare un po’ di tutto.

E quanto ne sanno invece i consumatori?
In Italia, c’è una grossa differenza tra gli appassionati, quelli che vengono chiamati Wine Lovers, a volte addirittura fin troppo “precisini”, e la grande massa di pubblico, che visita le cantine per imparare. Si tratta di un pubblico più generalista ma capace di dare grande soddisfazione e di far diventare un vino, una volta apprezzato, “uno dei vini di tutti i giorni”. In arrivo dall’estero abbiamo invece un pubblico evoluto, alla ricerca di cose particolari. Mi riferisco soprattutto alle nazioni che, in tema di approccio al vino, sono ormai già di seconda, terza generazione: gli Stati Uniti, il Giappone, i paesi anglosassoni. Qui i consumatori hanno compiuto un’evoluzione e oggi vanno alla ricerca dei vitigni e dei vini più sconosciuti. E poi ci sono i mercati emergenti, come il mercato russo, il mercato cinese, il mercato dell’Estremo Oriente, con un pubblico non preparatissimo ma curioso e interessato.

Che ruolo ricopre questa componente nel marketing mix delle aziende?
Secondo me (il marketing dell’accoglienza n.d.r.) dovrebbe arrivare a ricoprire un ruolo importante perché oggi senza marketing e senza comunicazione non si arriva molto avanti, specialmente se ci si trova in una zona non troppo conosciuta. Applicando le giuste regole di marketing e di comunicazione, anche una zona che non è tra le top in Italia può ottenere dei grossi risultati.

È possibile segmentare la clientela in modo da differenziare l’offerta?
Deve essere fatto: specialmente quando ci sono grandi manifestazioni come “Cantine Aperte”, la cantina deve creare degli ambienti diversi per accogliere in maniera differente l’appassionato, che deve essere coccolato, o il cliente generalista, che vuole assaggiare due vini e comprare un paio di bottiglie come ricordo della gita fuori porta.

Cosa può fare MTV per divulgare questo tipo di sensibilità? Oggi MTV si occupa della promozione di questo servizio, ma può anche diffondere la cultura di marketing sulle singole cantine?
Lo deve arrivare a fare perché è fondamentale per il continuo successo dell’enoturismo; deve riuscire ad aiutare le sue cantine associate a essere sempre più pronte anche su questo fronte. Il messaggio è: non solo fare degli ottimi vini, ma anche saperli comunicare e presentare.

Francesco Radino
Ph: Francesco Radino

Quali sono, infatti, le sue (del MTV n.d.r.) funzioni principali?
La funzione principale del Movimento Turismo del Vino è quella di aggregare le cantine che credono nell’accoglienza enoturistica sfruttando le cinque manifestazioni nazionali che si sono create e ormai consolidate, come “Cantine Aperte” e “Calici di Stelle”, che hanno più di vent’anni di vita e sono i pilastri portanti dell’attività comune (nel caso di “Cantine Aperte” tutte le cantine nello stesso giorno aprono in un certo modo la propria cantina). Il Movimento s’impegna anche ad aiutare sempre di più le cantine a essere pronte su altri aspetti: una cantina nasce per coltivare i vigneti e produrre vino, ma oggi serve anche tutto il resto.

Come si struttura quindi il Movimento Turismo del Vino?
Il Movimento Turismo del Vino, a livello nazionale, è un’associazione di secondo grado, composta da 20 associazioni regionali; le cantine sono socie a livello regionale. Ci sono Regioni che si sono dotate di segreterie organizzative impegnate in un’attività costante che coinvolge le cantine associate durante l’anno. A livello nazionale stiamo portando avanti accordi strategici con vari soggetti di campi che possono andare dalla finanza al noleggio auto, per dare servizi al visitatore.

Quali sono i principali obiettivi del suo mandato?
Far vendere alle cantine associate al Movimento Turismo del Vino una visita in più, una bottiglia di vino in più.
L’obiettivo del mio mandato è trasformare il Movimento da un’associazione volontaristica a un’associazione capace di stare in piedi con un’organizzazione costante anche se cambiano i presidenti. Inoltre sto cercando di attivare sinergie con tour operator e altri soggetti per portare piccole royalty all’associazione nazionale, in modo tale da pesare sempre di meno sulle cantine. Questo non vuol dire svalutarsi, vuol dire che le cantine avranno molto di più per la stessa cifra che pagano oggi.

Quali sono i plus che le cantine possono ottenere, e pertanto essere motivate a iscriversi al Movimento?
Il plus è entrare in un network che muove tanta gente: quando ci sono le manifestazioni nazionali, come le giornate di “Cantine Aperte”, almeno il 60-70% di coloro che partecipano non va a visitare solo una cantina, ma ne va a visitare altre. Far parte di questo circuito significa trovare nuova clientela e conoscere nuove persone. Una volta ci si innamorava di una cantina e si acquistava il vino esclusivamente presso quella cantina, oggi il consumatore compra un vino da me, uno da un altro, uno dall’altro e si fa la sua cantina.

Come Movimento avete maturato dei rapporti particolari con qualche tour operator? Quanto è diffusa come prassi tra le cantine? È a conoscenza di qualche tour operator che si sta specializzando o è molto attivo nell’enoturismo?
Ci sono dei tour operator (specialmente americani e inglesi), che sono molto attivi sull’enoturismo e ci sono cantine, sia associate al Movimento che non, che hanno stretto rapporti con questi tour operator. Noi come Movimento in questo siamo indietro, stiamo cercando di risalire la china e a breve concluderemo accordi, che sono già avviati, per delle piattaforme legate a un tour operator virtuale che venderà la destinazione Italia (di qualità) in esclusiva.

Perché e quando per una cantina è più conveniente affidarsi a Faberest (piattaforma per la prenotazione delle visite enogastronomiche n.d.r.)?
Faberest è una nuova piattaforma creata da ragazzi che io ho conosciuto quattro anni fa, appena laureati. Sviluppa un’idea che noi abbiamo messo in campo anni fa, vendere le attività ludico-didattiche nelle cantine, e non solo (permette di andare a vedere come si fa il formaggio, e così via). È una delle tante piattaforme che può aiutarci a intercettare appassionati o curiosi che vogliono venire nelle nostre cantine. Grazie a un trattamento di favore, le cantine associate a MTV possono accedere a questa piattaforma senza costi iniziali e con delle percentuali sul fatturato più basse rispetto a cantine non associate.

Può confrontare Faberest con una sezione dedicata di un sito proprietario? E con altri siti per la vendita di tour e pacchetti turistici?
Ci sono aziende che hanno dei siti dove c’è la possibilità di prenotare la visita e pagarla, ci sono altri siti che offrono diverse possibilità… è stato presentato qualche giorno fa “il Tripadvisor del vino”. Penso che ogni portale di questo genere abbia le sue caratteristiche; poi secondo me, anche se parliamo di strumenti informatici, la differenza la fanno le persone che ci stanno dietro.

Quanto le cantine che offrono questo tipo di servizio interagiscono con i propri clienti sulle piattaforme da loro preferite?
In questo momento ancora poco. Uno degli obbiettivi del Movimento Turismo del Vino è quello di aumentare questo lavoro, stiamo creando una sinergia con alcune piattaforme per far sì che l’appassionato di vino possa scoprire nuove opportunità di visita e nuove cantine; inoltre, come si fa in tutti i campi, puntiamo a profilare il consumatore in modo da coinvolgerlo con offerte mirate.

Quanto le cantine rispondono alle recensioni dei clienti scritte per esempio su Tripadvisor o altre piattaforme (come Booking, Trivago, Expedia…)?
Dobbiamo rispondere perché ne va della nostra reputazione. Non tutte le cantine riescono a farlo e quindi è importante unire le forze e, come noi stiamo proponendo, incaricare qualcuno che se ne occupi per un numero più ampio di soggetti.

Tag Enoturismo, Intervista

03 / 10 / 2016

Label Art da Tonutti: percezione visiva e design vinicolo.

Dall’articolo comparso sul “Messaggero Veneto” il 28/09/2016 intitolato:“Label Art da Tonutti percezione visiva e design vinicolo”

UDINE. Uno studioso di percezione visiva e un designer specializzato nel settore vinicolo dialogano alla scoperta delle relazioni tra processi cognitivi di rappresentazione della realtà e i criteri che orientano la progettazione nell’ambito del packaging.

Labela Art

È quanto promette Label Art, l’evento realizzato dall’associazione culturale di imprese gli Ergonauti che si terrà domani, giovedì, da Tonutti Tecniche Grafiche Spa di Fagagna, una delle principali aziende italiane specializzate nella stampa di etichette per il settore vinicolo, beverage e food.

L’incontro culturale ha ottenuto il patrocinio dell’Università degli Studi di Trieste, in quanto mira ad accorciare le distanze tra mondo dell’impresa, dell’università e della società facendo dialogare chi fa ricerca per produrre conoscenza, nello specifico sulla mente e sul cervello, e chi usa questa conoscenza per realizzare un prodotto, l’etichetta di una bottiglia, per comunicare nella maniera più efficace con l’utente finale.

«Mi fa piacere essere stato invitato a questo incontro - dichiara Paolo Bernardis, che parlerà dell’organizzazione percettiva dell’informazione visiva - non solo perché faccio ricerca nel campo delle neuroscienze cognitive, ma anche perché mi sta particolarmente a cuore la terza missione culturale e sociale dell’Università, il trasferimento della conoscenza che viene generata all’interno dell’università e la produzione di beni pubblici che aumentano il generale livello di benessere della società, aventi contenuto culturale, sociale, educativo e di sviluppo di consapevolezza civile».

A parlare dell’aspetto creativo della mente, il designer Giacomo Bersanetti di Sga Corporate & Packaging Design, agenzia con sede a Bergamo specializzata nel corporate e brand design, il cui team è accomunato dal percorso formativo in ambito artistico, terminato all’Accademia di Brera.

Questo peculiare background è il fattore differenziante che ha caratterizzato l’evoluzione del metodo progettuale proposto da Sga e che ha portato l’agenzia a vincere numerosi premi in Italia e all’estero, a partecipare a mostre collettive e individuali sul design, nonché a tenere lezioni presso Facoltà universitarie, all’interno di master e convegni sul tema del wine design.

Label Art è il settimo evento che porta la firma de gli Ergonauti, l’associazione culturale di imprese nata in seno a Confindustria Udine da un’idea del Presidente Matteo Tonon e dell’imprenditore Damiano Ghini.

L’idea della serata è stata subito accolta da Maria Teresa Tonutti, alla guida oggi, assieme al fratello Marco e al padre Manlio, dell’azienda fondata dal nonno Pietro Mario nel 1945.

Azienda che, dopo aver raggiunto livelli di specializzazione altamente competitivi in Italia e all’estero - oltre 200 milioni di etichette stampate al mese su 3 linee di produzione che coprono l’intera gamma di articoli per il settore, con più di 400 clienti serviti
- ha recentemente rinnovato il suo approccio al mercato adottando, un nuovo modello di business che prende spunto dalla metodologia sviluppata dalla Toyota in Giappone negli anni ’50 e ispirata al principio del miglioramento continuo.

Tag Packaging, Press

20 / 09 / 2016

Come le cantine possono muoversi in Google?

Come le cantine possono orientarsi e muoversi nei risultati di ricerca di Google? L’analisi della pagina dei risultati di ricerca e le attività di SEM.

Avete mai provato a cercare “spumanti italiani” in Google?

Inserendo queste parole nel motore di ricerca, definite appunto chiavi di ricerca, si ottengono 344.000 risultati: è evidente quanto sia difficile per una cantina apparire tra i primi risultati dei motori di ricerca! Una cantina che produce spumanti, tuttavia ne avrà tutto l’interesse poiché in questo modo potrà connettersi con più facilità a un maggior numero di potenziali clienti e raggiungere più facilmente i suoi obiettivi commerciali.

Ma perché alcuni siti di produttori di vino risultano prima di altri? Perché i risultati di ricerca assumono una certa disposizione? Il posizionamento della vostra cantina dipende da una serie di attività dedicate all’ottimizzazione del vostro sito proprio per tale scopo.

Non intercettare il bisogno degli utenti, potenziali clienti, equivale a perdere una grande occasione commerciale: comparire tra i primi risultati significa raggiungere quel segmento di pubblico che, utilizzando determinate chiavi di ricerca, ha già mostrato interesse per il vostro vino ed è quindi già selezionato, senza nessuno sforzo di marketing da parte della cantina.
Un sito web completo e accattivante ma non ottimizzato per i motori di ricerca sarà come una brochure, o un catalogo, ben progettati e molto belli ma che resteranno chiusi in un cassetto.

Le attività che permettono un miglior posizionamento sui motori di ricerca vengono raggruppate sotto l’acronimo SEM (Search Engine Marketing, ovvero il marketing per i motori di ricerca).

Le attività con cui le cantine possono posizionare il loro vino in Google

Al suo interno poi ci sono diverse singole attività che svolgono specifiche funzioni.
Vediamole insieme qui di seguito:

SEA (Search Engine Advertising) è l’insieme delle azioni che si finalizzano nell’acquisto degli annunci sponsorizzati, i quali compaiono nelle prime posizioni nei risultati delle ricerche e si contraddistinguono per un marchietto verde con la sigla “Ann.”.

SMO (Social Media Optimization) è l’insieme delle azioni mirate a ottimizzare i profili sui Social Network (Facebook, Twitter, YouTube, Instagram, ecc.) al fine di migliorarne la visibilità.

SEO (Search Engine Optimization) è l’insieme di tutte le azioni per migliorare il posizionamento del sito internet sui motori di ricerca tra i risultati organici, ovvero non ottenuti a pagamento. Queste tecniche riguardano diversi aspetti di un sito web che si possono raggruppare in due tipologie:
-on-page: l’insieme delle attività di ottimizzazione all’interno delle pagine di un sito (es struttura del sito, codice HTML, contenuti testuali)
-off-page: riguarda essenzialmente la conquista (link building) e la gestione (link popularity) dei link di altri siti che puntano al nostro.


Queste attività possono essere, almeno in parte, gestite in un secondo momento rispetto alla creazione del sito, ma è importante che tutte vengano condotte in modo efficace; se portate avanti in modo approssimativo,  un sito internet non raggiungerà il suo potenziale o, peggio, ne verrà danneggiato.

D’altra parte, l’ottimizzazione per i motori di ricerca contempla più variabili, anche velocemente mutevoli, e richiede tempo per una gestione continuativa e frequente. Per questo esistono agenzie e figure professionali, come il “digital strategist” o i “SEO specialist”, che si occupano di questi strumenti e hanno sensibilità e competenze specifiche: considerare di coinvolgerle per formare il personale interno, o delegare loro queste attività, significa investire sapendo che le risorse saranno spese in maniera efficace in linea con gli obiettivi definiti.

A questo punto, è bene soffermarsi un attimo sull’analisi delle pagine dei risultati di Google (la pagina SERP, Search Engine Results Page) per orientarsi in questo nuovo ambiente e, soprattutto, sapere dove si vuole comparire per poi agire di conseguenza con il giusto strumento.

Vi ricordate la ricerca fatta con le parole chiave “spumanti italiani”?

Proviamo a osservarne insieme il risultato.

Un esempio di SERP con evidenziati i diversi tipi di risultati di Google

Come si può notare i primi XX risultati (A), con il bollino verde “Ann.” o “Ad.”, sono inserzioni a pagamento, molto simili ai risultati non a pagamento, che permettono di comparire sia in cima sia in fondo alla SERP (aree dove l’attenzione dell’utente è più alta) e dipendono dall’attività di SEA.

Immediatamente sotto, Google inserisce, alcune volte, le prime immagini che rispondono alla nostra chiave di ricerca (B). Questo elemento è molto importante per due aspetti:

•Ogni immagine in questa sezione è collegata alla pagina web di riferimento che, spesso, può non comparire nei primi risultati, o addirittura nelle prime pagine. Ottimizzando le nostre immagini praticamente acquisiamo un posto in prima pagina che altrimenti non avremmo!

•Migliorando in ottica SEO le nostre immagini, migliorerà anche l’intero posizionamento del sito della cantina.

Inoltre, per un produttore di vino ottenere una propria immagine in questi risultati facilita l’associazione del proprio vino, del proprio packaging e della propria cantina a questa ricerca e alle parole utilizzate.

Entriamo ora nel vivo della SERP e analizziamo i risultati organici (C): la loro disposizione è frutto delle azioni di ottimizzazione SEO che ciascun sito web esegue per migliorare appunto il suo posizionamento.

Quando effettuiamo una ricerca la pagina dei risultati ce ne mostrerà 10 per volta: questo vale sia per le ricerche fatte da computer sia da dispositivi mobili (tablet e smarthphone).

La competizione per essere nelle prime posizioni della prima pagina è molto elevata poiché:
•Le persone tendono a non andare oltre la seconda o la terza pagina e, a volte, nemmeno dopo la prima.
•Dei 10 risultati per pagina, in base alle diverse dimensioni degli schermi, i risultati immediatamente visibili sono meno, fino ad arrivare, su alcuni smartphone, anche solo a 3!
•Una quota sempre più grande del totale delle ricerche effettuate avviene da dispositivi mobili.

Riguardo alla nostra ricerca inziale con le parole “spumanti italiani”, è importante osservare a questo proposito un dato molto significativo: il primo risultato che fa riferimento ad una cantina compare solo in terza pagina.

Infine tra i risultati organici, sempre più frequentemente troviamo contenuti che fanno riferimento ai social network (D); sempre più canale principe per raggiungere e dialogare direttamente con wine lovers e le persone interessate alla nostra cantina.


Ora dovreste avere le idee più chiare su come orientarvi nella SERP e quale strumento faccia di più al caso vostro.

Come scalare la pagina dei risultati di ricerca di Google? Su quali elementi si deve lavorare perché un sito web sia performante in ottica SEO? Nel prossimo appuntamento vedremo come migliorare il posizionamento della vostra cantina sui motori di ricerca.

Tag Comunicazione Digital, Digital Wine Works

12 / 09 / 2016

Marketing, comunicazione, packaging e digital per il mondo del vino.

Tratto dall’articolo di Stefano Tenedini: “Ispirazione olistica”, pubblicato su Print Buyer, Luglio 2016

Giacomo Bersanetti è il fondatore di SGA Corporate & Packaging Design, tra i più importanti laboratori creativi nel mondo del vino oggi in Italia, in grado di fornire a produttori e cantine branding, packaging, bottle design, restyling e global design.
Per spiegare il senso del lavoro suo e del suo staff ricorre a una citazione di Carl Gustav Jung tratta da un saggio sulla sincronicità, per far capire che tutto è legato.

gruppo sga-nok
Il team di SGA

“Abbiamo sempre concepito l’immagine e la comunicazione del vino come un processo olistico, un insieme di attività, forme, parole, azioni, strumenti e supporti coordinati fra loro, integrati in un pensiero unico - spiega -. Tutto ciò che facciamo deve esprimere interamente l’unicità del prodotto e del produttore, in modo coerente con il sistema di valori che quella realtà rappresenta. A volte iniziamo da un singolo vino o da un piccolo progetto, poi si finisce naturalmente con l’essere coinvolti nella definizione di tutti gli altri elementi”.
Parlare di packaging del vino con Bersanetti e con i suoi più stretti collaboratori equivale a entrare in una collezione del design industriale degli ultimi trent’anni, e al tempo stesso aprire una finestra sulle idee destinate a fare tendenza. In questa galleria del possibile c’è posto per il recupero delle tradizioni come per le invenzioni e le innovazioni tecnologiche.

Berlucchi CI
Guido Berlucchi: Restyling Cuveé Imperiale e studio dei nuovi astucci.
Altro: Intervista a Franco Ziliani, il fondatore

Immagine coordinata ma con uno stile unico

Settore solido e tradizionale, il vino è straordinariamente aperto agli esperimenti: non solo dal punto di vista dei materiali, delle nobilitazioni o degli effetti tattili, ma anche sul web dove fioriscono le app destinate a migliorare “l’esperienza” dei wine lover, appassionati che sono tutt’altro che semplici compratori e bevitori. Il vino italiano si sta muovendo ed è quasi ovunque in espansione supportato da un export molto vivace e da un processo di differenziazione e riqualificazione che punta a distinguere il brand con ogni strumento. Che cosa sta cambiando sul piano del design? “Le nuove generazioni sono più consapevoli della complessità del mercato ma sono anche consapevoli di quanto conti avere un’immagine coordinata. Una volta un’azienda poteva avere decine di etichette diverse, oggi si punta a definire uno stile che sintetizzi la personalità della cantina, ma questo indirizzo scaturisce sempre di più dall’analisi strategica che precede il progetto”, precisano Bersanetti e Francesco Voltolina, che ne condivide e completa il pensiero. “Lavoriamo a stretto contatto con i produttori, ci prendiamo il tempo necessario per approfondire, per conoscere a fondo la cantina e il territorio, fare foto e interviste video… L’idea non si “incolla” all’azienda, deve nascere per lei. Il mercato cambia, eppure noi abbiamo realizzato progetti che vivono da trent’anni, che reggono perché capaci di esprime ancora in modo efficace tutti i punti di forza”.

Cesari
Gerardo Cesari: Packaging, comunicazione e stand

Carta e web si alleano in bottiglia

Digitale e stampa possono essere validi alleati per comunicare il vino. Secondo Claudio Castellaro “basta distinguere tra le esigenze del trade e quelle dei consumatori: gli agenti di commercio usano ancora i cataloghi, i wine lover trovano sul web soprattutto le emozioni”. “Gli stessi strumenti cartacei si sono evoluti, e insieme alle schede dei vini presentano anche lo stile e i valori della cantina – spiega Castellaro –. Il passo successivo è il catalogo su app, che riporta i dettagli sui vini, aggiornati dall’azienda, e permette di inserire gli ordini online, risparmiando tempo e spese. Non è un mercato ancora così diffuso, ma si sta aprendo”. Il consumatore invece vuole entusiasmo e coinvolgimento: più passione e meno business, soprattutto nelle pubblicazioni stampate o su web che lo accompagnano nelle visite in cantina. “Si presentano i vini insieme al territorio, l’enoturismo, la cultura locale, come ha fatto il consorzio del Chianti Classico che supporta il marketing di prossimità con itinerari mirati”. L’alleanza carta-web si consolida poi nella sfida alla contraffazione: già da tempo le cartiere possono applicare filigrane, inchiostri invisibili, micro lavorazioni individuabili solo da strumenti idonei. E il digitale risponde con i chip nel tappo o i supporti magnetici, fino al QR che assicura la tracciabilità.

Corteaura
Corteaura: Packaging e stand

Stile italiano ed export: adattamento reciproco

Nella sfida tra stabilità del colore, facilità di applicazione e tenuta si inseriscono anche altri parametri, come la sostenibilità ambientale sia per l’uso dei materiali che per i processi produttivi, o la riduzione dei pesi in fatto di imballaggi. Ma rimangono le esigenze estetiche, perché lamina e inchiostro non avranno mai la stessa resa, nonostante le nuove sensibilità ecologiche. Le esportazioni trainano le vendite del vino italiano e ne influenzano anche l’estetica, con idee e proposte che arricchiscono il nostro modello storico-culturale. “L’export consente alle aziende di crescere anche mentre in Italia c’è stagnazione, ma in verità sempre meno cantine creano vini ed etichette solo per l’estero: i produttori difendono la propria identità sia pure accettando spunti e suggerimenti”, chiariscono Bersanetti e Voltolina. “A volte si adattano al mercato naming e colori, come nel caso di “Alanera” di Zenato, ideato per il mercato americano e “vestito” in collaborazione con gli importatori. È accaduto anche con il Moscato d’Asti “Natincò”, che significa “nato in coro” perché prodotto da varie cantine associate: la sua personalità si adatta al mercato Usa anche grazie a un colore morbido sui toni del glicine, associabile anche al profumo. Forma, colore, tatto e nome sono stimoli che si integrano: l’etichetta annuncia il racconto che il vino ha in serbo”.

Gaja
Gaja: Restyling e studio della cassa legno.
Altro: Intervista ad Angelo Gaja

Così cultura e territorio danno più gusto al vino

Cambia anche il rapporto tra il designer e i suoi interlocutori: produttore e consumatori. “Il pubblico, come il vino, si è evoluto: è diventato curioso, ama bere e mangiare in modo consapevole, vuole conoscere ciò che sta dietro, l’arte, la storia. E chiede una narrazione credibile, un’immagine vera. Quando si visita una cantina oggi si fa cultura del vino e del territorio: il cliente ‘entra’ nel vino, si identifica con il suo universo simbolico. Questo rapporto oggi spesso cresce sui social, e grazie alla competenza degli appassionati, permette di aggiungere contenuti alla loro esperienza”. In SGA il processo creativo nasce da un confronto aziende-designer, che vede Bersanetti affiancato da un team a “geometria variabile”, che integra diverse competenze e partner sia interni che liberi professionisti. Non esistono più gli studi di comunicazione che operano per tutti i settori e in tutti i canali: soprattutto nel vino. Con SGA lavorano esperti di marketing e di mercato come Claudio Castellaro e Marilena Colussi, oltre al team di nativi digitali di Nok Nok. Si tratta dunque di un gruppo che offre alle aziende un ampio contenuto di esperienze e di conoscenze, in grado di affrontare tutti gli elementi che concorrono alla comunicazione, con una particolare competenza anche nell’ambito digital e nella creazione di eventi.

Rotari Usa
Rotari: Restyling Trento D.O.C.

Tag Comunicazione Digital, Intervista, Press, Wine strategy

07 / 07 / 2016

I risultati della ricerca Nielsen sul packaging design del vino.

Di recente ha colto la nostra attenzione un articolo di TheDieLine.com di qualche settimana fa, in cui si parla di packaging design nel mondo del vino e abbiamo il piacere di riportarvelo in italiano.
In particolare, nell’articolo, vengono riportate le interessanti conclusioni della ricerca che Nielsen ha ottenuto dall’analisi di 34 packaging fra i più venduti nel settore del vino, concentrandosi su quei brand che utilizzano efficacemente il design per conquistare i consumatori.
I risultati della ricerca riguardano le migliori linee guida per progettare packaging per il vino che catturano l’attenzione, formano le loro preferenze e creano brand equity.

Copertina Nielsen
Fonte: Nielsen

La rilevanza del packaging per il vino
Posto che addirittura il 64% dei consumatori compie le proprie scelte d’acquisto di un nuovo prodotto sulla base di quanto esso cattura la sua attenzione, è chiaro come il packaging sia uno dei più sottovalutati strumenti di marketing e comunicazione.

Questo strumento di comunicazione è particolarmente importante per il vino perché:

Il settore è saturo: si pensi che nel 2014 sono stati introdotti 4.200 nuovi vini (pari al 12,5% dell’intera offerta);

La spesa in comunicazione attraverso i media è bassa: il vino fa molto affidamento sulla comunicazione e pubblicità a scaffale. Basti pensare che nel 2014 la spesa per comunicare il vino attraverso i media è stata pari al 7% rispetto a quella effettuata per comunicare la birra;

Grafici Nielsen
Fonte: Nielsen

• Il design del packaging del vino può ampliare la distribuzione: i distributori e i retailer identificano quali sono i packaging di vino che catturano di più l’attenzione dei consumatori e di conseguenza effettuano gli ordini.

Conclusioni rilevanti

• Imperativo: distinguersi!
I prodotti che non vengono nemmeno notati dai consumatori non verranno nemmeno valutati nelle scelte di acquisto. Per questo motivo è necessario catturare l’attenzione dei consumatori al primo impatto. Inoltre su alcuni packaging i consumatori hanno addirittura indugiato 2 volte e mezza il tempo che hanno dedicato agli altri design.

• Per risaltare utilizzare colori e andare controcorrente.
Per vini al di sotto dei 20$ il packaging più efficace si è rivelato essere quello con etichette dai colori vivaci e capsule pensate per catturare l’attenzione dei consumatori.
Per i vini sopra i 20$ dove solitamente vige un’estetica più tradizionalista, le bottiglie dall’aspetto più massiccio e in controtendenza sono state quelle preferite.

• Personalità distintive ingaggiano di più.
I vini sotto i 20$ hanno solitamente personalità più facili da distinguere e più accessibili; in questo caso i packaging che trasferiscono una percezione più qualificante sono stati quelli più scuri, classici e con feeling premium. Nei vini invece che si trovano al di sopra dei 20$, dove di solito i packaging sono più tradizionali con colori naturali e caratteri classici, l’opportunità di distinguersi si può tradurre in packaging di rottura.

• Le nuove generazioni preferiscono i packaging di forte impatto visivo e freschi.
Per i vini sopra i 10$ i consumatori più giovani preferiscono bottiglie più “pesanti” e distintive. D’altro canto packaging più tradizionali sono stati preferiti dalle generazioni meno giovani.
Per i vini sotto i 10$, i consumatori più giovani hanno apprezzato i design innovativi e giocosi: la maggior parte, soprattutto di sesso femminile, apprezza la semplicità più che la sofisticatezza.

• C’è ancora spazio per i brand che vogliono imprimere più personalità ai loro packaging.
Molti aspetti della personalità del brand non sono ancora stati radicati in nessuno dei grandi vini utilizzati durante l’analisi; tutto questo si traduce in opportunità per gli altri brand.

• Le immagini catturano l’attenzione più efficacemente.
Quando su una bottiglia sono presenti delle immagini, queste tendono a conquistare, rispetto agli altri elementi, più attenzione e reazioni forti (positive ma anche negative).
Se le immagini più classiche, direttamente relative al vino come le vigne o le cantine, generano riscontri positivi, quelle meno tradizionali possono ottenere reazioni maggiormente positive ma anche molto controverse a causa, per esempio, del contenuto.

 


La ricerca Nielsen
Nielsen ha testato 34 packaging dei brands più venduti nel settore del vino. La ricerca ha coinvolto 2700 consumatori americani tra i 24 e i 61 anni. Packaging di progetti con un prezzo diverso sono stati testati separatamente per valutare il differente contesto competitivo.
La metodologia che Nielsen utilizza per valutare i design si avvale di una combinazione di diverse tecnologie all’avanguardia, come il tracciamento oculare e i test di scelta online, per determinare:
• quanto il design emerge e trattiene l’attenzione in un contesto competitivo;
• i tratti della personalità che i consumatori associano ad ogni design;
• quanto le percezioni dei consumatori riguardo al singolo packaging sono coerenti con i loro pareri rispetto ai brand.


Tratto da: TheDieLine.com, “NIELSEN DESIGN AUDIT SERIES: WINE CATEGORY” del 12 Gennaio 2016
Versione originale in inglese: http://www.thedieline.com/blog/2016/1/12/nielsen-design-audit-series-wine-category

Tag Packaging, Ricerca

22 / 06 / 2016

Digital Wine Works: le opportunità della comunicazione digital per il mondo del vino.

L’ultimo è stato la Social Media Week ma gli eventi che legano il digital al vino iniziano ad essere molti. Come possono il vino e le cantine approcciarsi a questo mondo?
Vogliamo rispondere a ciò con una guida pratica, utile per muovere i primi passi e che possa aiutare a migliorare l’efficacia della presenza delle cantine nel mondo digital.

Inauguriamo oggi la rubrica Digital Wine Works, nata dalla partnership tra Sga Wine Design e NokNok, in cui, unendo le esperienze rispettivamente nel mondo vino e in quello digital, vi forniremo alcuni consigli per guidarvi nel vostro processo di digitalizzazione.

Vi state chiedendo come e perché oggi è necessario per le cantine comunicare anche in maniera digital? Allora continuate a leggere, in poche righe cercheremo:

⇒ di farvi percepire quello che nel mondo sta già accadendo;
⇒ di spiegarvi perché è necessario per le cantine non perdere queste opportunità.

DigitalWineWorks

Il valore di un vino e le meticolose operazioni, spesso ancora artigianali, che si celano dietro al prodotto finito, sono elementi difficili da comunicare ad un consumatore finale sempre meno attento. Fermo restando che il primo strumento con cui il vino comunica è il suo packaging, altri elementi stanno diventando preponderanti. In uno scenario competitivo sempre più affollato, è necessario catturare l’attenzione del consumatore. Il mondo digital permette di incontrare i consumatori nel momento in cui ricercano informazioni che condizioneranno la loro scelta e, ancora prima, di interagire con loro quando i bisogni non sono ancora stati percepiti, raggiungendo quindi i non solo i consumatori attuali ma soprattutto i potenziali.

Domandiamoci, per esempio: che strumenti usano i consumatori per trovare informazioni? Che piattaforme scelgono per comunicare?
La risposta a queste domande precedenti è “il mondo digital”

Sì, perché sempre più persone hanno un account social, dispongono di smartphone, tablet o pc, utilizzano i siti web per cercare informazioni e sempre più spesso anche acquistare. 
Secondo le più recenti ricerche di Audiweb, nel mese di marzo 41,7 milioni di italiani dichiarano di accedere a internet da qualsiasi luogo e strumento, mentre nel mese di aprile, l’audience online giornaliera è stata mediamente di 21,7 milioni di utenti unici collegati in media per 2 ore a persona. Inoltre, dalle indagini realizzate da Social Meter Analysis in collaborazione con Wine Meridian, oltre 3688 persone hanno partecipato alle conversazioni sui social networks in occasione di Prowein 2016 e sono stati scambiati 39000 tweet in occasione di Vinitaly 2016.

I social network sono sempre più rilevanti per il mondo vino e presidiarli è fondamentale.

Tra questi, dalla ricerca #vinodigitale2015 di BeShareable, Facebook appare il più utilizzato (78%), seguito a distanza da Twitter (34%) e da Instagram (22%). Tutto ciò, a fronte di quanto rileva una ricerca di AQuest, sviluppata prendendo in esame 37 tra le principali aziende del settore,  il 40, 5% non sfrutta le potenzialità dei social media per comunicare.

Cantine come Frescobaldi, Cà’ del Bosco, Zonin, Mezzacorona, Antinori e Masi Agricola sono già molto e ben presenti nel mondo digital.

Il gusto digitale del vino italiano 2016 - Fleishman-Hillard - Le cantine più seguite sui social networks
“Il gusto digitale del vino italiano 2016” di Fleishman-Hillard - I più seguiti sui social network

L’approccio alla comunicazione digitale non deve essere necessariamente appannaggio delle grandi realtà che comunicano in modo strutturato e integrato, magari attraverso società specializzate. Anche le piccole cantine che comunicano direttamente e spesso con budget limitati, possono raggiungere ottimi risultati. Cantine Barbera è l’esempio di un’autogestione virtuosa, la cui responsabile è stata l’unica italiana inserita tra i Top 20 Influencers nella classifica Social Vignerons. Marilena Barbera, responsabile della comunicazione, ha riportato in un’intervista a Gambero Rosso che “i social network sono lo strumento logico e inevitabile per una piccola azienda”. Nel loro caso, infatti, sempre secondo quanto riportato nell’intervista, “l’attività social ha incrementato le vendite della cantina del 25%”.

Oggi, essere digital vuol dire affermare la propria esistenza, ma esserlo in modo indifferenziato, senza una strategia orientata alla valorizzazione delle peculiarità della propria cantina, vale come la presenza offline con un packaging inadeguato. Il consumatore cerca sul web ciò di cui ha bisogno e se non ci trova, o, peggio, se la nostra immagine digital delude le sue aspettative,  non veniamo nemmeno inclusi tra le alternative per la sua decisione d’acquisto.

Il mondo del vino è entrato in una fase più matura e consapevole dell’utilizzo degli strumenti per la comunicazione digital. Ma ancora vi è molto da fare. 
La comunicazione digital resta un puzzle molto complesso dove serve una strategia integrata con gli altri strumenti di comunicazione.
Ma quale strategia adottare? Che strumenti utilizzare? Come usarli? In che modo farli interagire?
Nel prossimo approfondimento parleremo di come fare per migliorare il posizionamento del vostro sito web all’interno dei risultati delle ricerche di Google.

Tag Comunicazione Digital, Digital Wine Works, Wine strategy

16 / 06 / 2016

In viaggio con Antonella Bocchino, la signora della grappa sulle tracce del Moscato.

Lasciata l’azienda di famiglia, pietra miliare nella storia della distillazione, Antonella Bocchino dal 2014 è impegnata nel progetto AB Selezione Italian Spirits. La sua mission è collezionare i migliori distillati italiani prodotti da uve e vinacce d’eccellenza lungo tutto lo stivale.
Le più pregiate grappe di Moscato prodotte con vinacce provenienti da diverse regioni italiane sono distillate in Piemonte e affinate in barriques di rovere di varia tostatura, così come altri grandi Spirits italiani: tre grappe millesimate, due grappe cru di monovitigno, Moscato d’Asti e Nebbiolo da Barolo, e due liquori recuperati dall’antica tradizione piemontese.

Intervista ad Antonella Bocchino: in viaggio con la signora della grappa sulle tracce del Moscato from SGA Wine design on Vimeo.

Visualizza la case history completa

Antonella, qual è l’intuizione che ha portato alla nascita di questo nuovo progetto?
AB Selezione nasce dalla volontà di selezionare il meglio che l’artigianalità distillatoria può offrire in questo paese, tesori conservati nelle cantine di piccole distillerie artigianali che molto spesso non vengono valorizzati. Si tratta di una ricerca di grappe, principalmente, ma rivolta in generale agli spiriti italiani che, lungo lo stivale, sono tantissimi e sono quasi sempre espressione di un territorio, di una regione, di un microclima. Una ricerca durante la quale ho potuto recuperare dei campioni di questi liquidi, scoprendo che contenevano aromi e profumi incontaminati e nascosti.
Quindi “Italian Spirits”: al plurale, perché, dalle Alpi alle isole del Mediterraneo, spiriti diversi, grappe, liquori, rappresentano la grande bellezza dell’Italia. Il mio desiderio era proprio quello di svelare al pubblico questa grande bellezza attraverso l’artigianalità della manifattura distillatoria .

Brand Design - AB Selezione
Brand Design

La valorizzazione dei vitigni di Moscato rappresenta un’opportunità di salvaguardia della biodiversità, oltre che di sviluppo per il territorio?
Il cuore del progetto di AB Selezione è incentrato sul viaggio intorno al vitigno Moscato. Io nasco a Canelli, patria del Moscato d’Asti, e quindi il punto di partenza non poteva che essere lì, dove ho le mie radici, dove la mia memoria colloca i profumi e gli aromi intensi di questa varietà. Però quasi ogni regione d’Italia coltiva un Moscato: ecco la scoperta più affascinante di questo viaggio, volto a verificare se effettivamente questo vitigno, con la sua biodiversità intrinseca cui si devono vini incredibilmente diversi, poteva dare anche delle grappe diverse.
Come mi fece scoprire Gino Veronelli, il Moscato di Chambave, che è un Moscato da cui si producono pochissime bottiglie in Val d’Aosta, ai piedi delle nevi, è sicuramente diverso da un Moscato di Pantelleria, coltivato al centro di un’isola del Mediterraneo dove respira il mare da ogni direzione, su un terreno lavico ricchissimo di minerali, che inevitabilmente impreziosiscono il prodotto finale. Ricercare le diversità di questo vitigno, declinato in maniera assolutamente unica in ogni regione d’Italia è stata la sfida che ho raccolto, bellissima e avvincente. La valorizzazione di queste diversità mi ha portata a riconoscere una caratterizzazione unica, un fil rouge che lega tutte queste grappe: si tratta della parte intrigante del Moscato, un’aromaticità, una morbidezza che si ritrova in tutte le cinque (prossimamente sei) grappe di Moscato AB Selezione. Un legame che unisce spiriti dalla personalità fortissima, molto individuale, dovuta appunto alla biodiversità di questo vitigno.
Un viaggio come questo, intorno a un vitigno meraviglioso e antichissimo, credo sia possibile farlo solo con il Moscato: non esistono altri vitigni in Italia con una differenziazione così marcata.
Parlando invece della ricchezza che questi vitigni apportano al territorio, abbiamo sotto gli occhi due episodi molto significativi: uno è la proclamazione dell’UNESCO a Patrimonio dell’Umanità di Langhe, Roero e Monferrato, in cui rientra il Moscato di Canelli; l’altro è, primo caso nella storia delle pratiche agricole, la proclamazione a Patrimonio dell’Umanità, sempre da parte dell’UNESCO, della coltivazione di Moscato di Pantelleria ad alberello.
L’ UNESCO premia per la prima volta nella storia una pratica agricola, dando un riconoscimento importantissimo di biodiversità e di unicità al territorio, una valorizzazione che darà sicuramente un grande contributo anche al turismo e all’enoturismo.

Packaging e secondary packaging - linea Moscato di AB Selezione
Packaging, confezioni ed espositore della linea Moscato

Hai percorso l’Italia sulle tracce delle migliori uve di Moscato, prodotte in diverse regioni italiane. Quali differenze e quali costanti hai riscontrato in questo viaggio del gusto?
Come dicevo, una costante del Moscato è la bellezza: l’unicità di questo vitigno profumato, fragrante, consiste nella capacità di sprigionare un ventaglio aromatico sempre diverso, ma intensissimo, in ognuna delle grappe regionali. È una dote che io raramente rilevo in altri vitigni.
La diversità, tra le differenti uve di Moscato, è straordinariamente affascinante. Nel momento in cui ho cominciato ad assaggiare le varie grappe di Moscato alla cieca, in purezza, appena uscite dall’alambicco, mi sono resa conto, chiudendo gli occhi, di viaggiare in Italia. Iniziavo il mio percorso dalle mie radici, dai sentori di glicine, di fiori d’acacia, di fiori bianchi del nostro Moscato d’Asti, a cui mio nonno mi ha avvicinata dai tempi dell’asilo, quando si dava ai bambini con i biscotti di meliga o, a Natale, per intingervi una fetta di panettone. Subito dopo mi trovavo a respirare il profumo del Moscato della Sardegna, con la sua storia affascinante: le vigne di Moscato erano state portate sull’isola dal regno sabaudo con lo scopo di aumentare la produzione, ma produssero poi un vino e una grappa assolutamente unici, molto diversi dal nostro Moscato piemontese. La grappa sarda, sul finale, ha sentori di mareggiata, di salinità, dovuti proprio al mare che circonda i vigneti; qualcuno l’ha paragonata a un whisky delle Highlands, con cui ha effettivamente molti punti in comune.
Il mio viaggio continuava con la ricchezza aromatica e la storia avvincente del Moscato di Pantelleria: zabib (Zibibbo), vitigno portato dagli arabi, significa frutta passita al sole, e io trovo che infatti la grappa di Moscato pantesco riempia il bicchiere di frutta, di uva di Cipro, di sentori di fichi appassiti. Anche questo Moscato è unico, dotato di una personalità molto spiccata e individuabile. Per passare poi attraverso gli altri Moscati, ognuno con un carattere e una personalità diversa: dal Moscato dell’Oltrepò Pavese al Moscato rosa del Trentino Alto Adige, che nasce alle pendici delle Dolomiti su un terreno roccioso e sorprende con sentori di pesca e di rosa, assolutamente straordinari anche a occhi chiusi. E in ultimo nascerà la grappa di Moscato di Trani, che arriva dalla splendida Puglia e che avrà delle note organolettiche assolutamente uniche. Ma è stato appena distillato, si sta evolvendo in barrique e sarà pronto nella prossima stagione.

Packaging e confezioni - linea Millesimi e Cru di AB Selezione
Packaging e confezioni della linea Millesimi e Cru

Il progetto AB Selezione Italian Spirits comprende anche tre pregiatissime grappe millesimate e due grappe cru di monovitigno. Puoi parlarcene?
Le millesimate sono le ultime grappe di Moscato di una piccola distilleria che ha chiuso i battenti un paio d’anni fa, ma che aveva tra le varie barriques, ormai trasferite in vasche, tre preziosi gioielli: sono grappe che hanno fino a vent’anni di invecchiamento, e sono al 100% dell’annata dichiarata in etichetta (quindi 2000, ‘97 e ‘94). Si tratta di grappe che, ne sono convinta, possono raccogliere qualsiasi tipo di sfida sui mercati internazionali a fianco dei più grandi Bas Armagnac, Cognac, Whisky o Calvados perché hanno, ognuna in maniera diversa, un racconto molto profondo, un’aromaticità e dei sentori di una lunghezza e di un’intensità che si possono accostare ai grandi spiriti del mondo e del tempo. Gli amanti di queste grandi annate sono usi abbinarle a dei grandi sigari cubani, Montecristo, Cohiba…
Le due grappe di monovitigno sono le nostre bandiere del Piemonte; non potevano mancare in una linea dai tratti di marcata piemontesità, il cui fil rouge è il Moscato di Canelli. Quella di Moscato d’Asti è una grappa fresca, giovane, che contiene tutti i profumi di una vendemmia appena terminata; è dedicata agli amanti della grappa tout court, quelli che non la vogliono contaminata dal legno delle barriques e preferiscono invece assaporarla nella sua purezza, appena scesa dall’alambicco. La grappa di Nebbiolo da Barolo è l’autre côté dell’aromaticità del Moscato: è molto secca ed austera, prodotta da vinacce provenienti da un piccolo comune degli undici che producono Barolo: Serralunga d’Alba, all’interno del territorio proclamato dall’UNESCO Patrimonio dell’Umanità.

Packaging e confezioni - linea Liquori di AB Selezione
Packaging e confezioni della linea Liquori

Come è nata l’idea di recuperare da un’antica tradizione Ananda e Calvilla, i due liquori di cacao e di mele?
Abbiamo operato su due fronti; abbiamo perché se non fossi stata accompagnata da due straordinari partner in questa operazione, probabilmente Ananda e Calvilla non sarebbero nati. Ananda è frutto di una collaborazione con Guido Gobino, un grandissimo maître chocolatier torinese, che mi ha fornito quanto esiste di meglio della sua selezione di cacao. Abbiamo messo in infusione in alcol grezzo, per sei mesi, fave di cacao crude provenienti da piantagioni dell’Ecuador, un “cru” di cacao chiamato Arriba Superior Selecto. Il risultato è stato un matrimonio d’amore tra l’alcol e il cacao: quest’ultimo ha ceduto i suoi aromi e il colore rosso mogano tipico del Criollo. Ananda significa beatitudine in sanscrito antico: il liquore è una sintesi di piacevolezza, purezza, la quintessenza del cacao in una goccia di alcol.
Calvilla nasce invece dalla collaborazione con Slow Food, che presidia un’antica varietà di mele piemontesi chiamate Calvilla recuperate dalla Francia, da un piccolo paesino ai confini tra le Fiandre e l’Alsazia: si tratta di Calville, il paese che produce la maggior parte delle mele utilizzate per il Calvados. Per la produzione di questo liquore vengono utilizzate le stesse mele, in questo caso però non vengono distillate ma tagliate e lasciate dialogare per un anno in un brandy, in un’acquavite di vino invecchiata. Ne nasce anche in questo caso un liquore a basso contenuto alcolico (entrambi hanno 28°), molto gradevole a fine pasto, facilmente abbinabile ai dolci e alla piccola pasticceria e ultimamente molto amato anche dalla nuova generazione di mixologist, giovani barman che si cimentano con prodotti ricercati, di nicchia, e propongono cocktail straordinari. Ho assaggiato uno spettacolare Martini a base di Calvilla, e uno strabiliante Poetry fatto con Ananda, gocce di Angostura e di Barolo Chinato.

Packaging Ananda - AB Selezione
Packaging Ananda, liquore al cacao

A poco più di un anno dal lancio, è possibile fare una riflessione sul recente passato e sul futuro?
Il recente passato è stato eccitante, affascinante, un anno bellissimo di nuove esperienze, di ricerche, di scoperte e di riscoperte: riscoperte di vecchi amici, di ristoratori, di enotecari, che hanno partecipato a questa avventura con molto slancio e con molta amicalità. Il presente è foriero di tantissime novità che arriveranno nei prossimi mesi e nei prossimi anni.
Durante quest’anno AB Selezione si è presentata al mondo, in occasione di vari eventi: al Salone del Gusto, a Golosaria, alla Banca del Vino, all’Università di Pollenzo, a Eataly. All’estero abbiamo partecipato a varie fiere, quella di Düsseldorf è stata particolarmente avvincente, perché AB Selezione era l’unico tavolo di grappe italiane in mezzo a tutti i più grandi spirits del mondo.
Si chiama Acquavite, ed erano rappresentati i whisky, i rum, i gin, le tequila: AB Selezione ha fatto la sua buona impressione, siamo molto contenti e soddisfatti. Le sfide ovviamente non finiscono mai; il 2016 sarà un anno di espansione, speriamo, soprattutto all’estero perché la grappa secondo me, ancorché sia stata molto valorizzata in questi anni, ancora deve farsi, noi siamo qui per raccoglierla.

Sito internet e comunicazione digitale - Ab Selezione
Sito internet e comunicazione digitale

Tag Global design, Intervista, Packaging

13 / 06 / 2016

SGA wine strategy: la comunicazione del vino oltre l’etichetta, una consulenza globale.

Tratto dall’articolo di Lorenzo Capitani: “Comunicare il vino”, pubblicato su Print Buyer, Aprile 2016

Partiamo dal fatto che il vino non ha bisogno di essere fatto conoscere in sé, tutti sanno cosa sia il vino e inoltre non c’è ricerca e innovazione come, per citare l’esempio più estremo, nel settore dell’high tech. Il vino, anzi, richiama valori come la tradizione, il fare le cose ‘per bene’, ‘come una volta’ (anche se, in realtà, anche nell’agroalimentare le novità tecnologiche ci sono, eccome…).

SGA wine strategy: oltre l’etichetta, una consulenza globale
SGA wine design lancia a Vinitaly 2016 il suo nuovo servizio di consulenza per aziende vinicole SGA Wine Strategy: si tratta di una formalizzazione di quei servizi di consulenza di marketing già offerti dall’azienda (analisi strategica per definire prezzo, canali distributivi, posizionamento nel mercato…), che da oggi si ampliano e si dirigono anche nella direzione della comunicazione temporary (web, social, eventi, temporary store…). L’obiettivo è sempre lo stesso: individuare il valore di unicità dell’azienda e dei suoi prodotti e definire una strategia comune che, attraverso l’utilizzo dei diversi media, veicoli e promuova la percezione di questo valore in un progetto globale.

Case history Natincò - qui tutti i dettagli

Natinco
Natincò: comunicazione integrata

Parola d’ordine: territorio
Chi si occupa di design e comunicazione legata al vino non ha dubbi: dal territorio. «Bisogna prima di tutto conoscere bene i territori, le cantine, le famiglie» sostengono Sara Mutti e Giacomo Bersanetti, dello studio SGA Wine Design di Bergamo. «Individuare i caratteri specifici di ognuna per distinguerla dai competitors. Vestire un vino vuol dire vestire una famiglia, entrare in empatia con delle persone, per trasformare il loro carattere in segno grafico. È necessario uno studio approfondito del vissuto della specifica cantina, bisogna indagare la sua storia, la produzione, il paesaggio. Tutto questo va poi “distillato” (metafora quanto mai adatta!) e trasformato in linee, colori, forme..». Il territorio: è questa la parola chiave, non solo per chi si occupa soprattutto di clienti di importanti dimensioni come SGA, ma anche per uno studio dedicato in massima parte alle piccole start-up come il bresciano DDue. Il titolare Daniele Bresciani, infatti, racconta: «Di questi tempi c’è stato un grande ritorno alla terra e al territorio, si sono investiti capitali nell’agricoltura, e il vino, insieme all’olio, costituisce da questo punto di vista un prodotto ad alto potenziale. Non solo: se prima le piccole cantine producevano conto terzi, ora commercializzano in proprio, valorizzano le peculiarità, cercano un’identità da comunicare e una nicchia di mercato da occupare. C’è una grande spinta verso la creazione di cose nuove, sia come ricerca di vini sempre più sofisticati (non nel senso di adulterati!), sia soprattutto come studio sull’immagine. Perché in fondo, il prodotto è quello, bene o male, da centinaia, migliaia di anni!». E allora nuovamente chi si fa carico della comunicazione deve partire dallo studio del territorio, della cantina, della famiglia. È una sfida difficile. Come vincerla? «L’unica via» risponde Bresciani «è rifarsi ai valori dell’azienda: da lì parte tutto il lavoro di ricerca per individuare gli specifici attributi del brand, che diventano segni grafici.» Si tratta senza dubbio di un grande investimento di energie e tempo, che però è imprescindibile per ottenere alla fine un risultato soddisfacente, capace di emergere in mezzo a una concorrenza sterminata e spietata.

Barone Pizzini
Barone Pizzini: studio del naming “Animante” e restyling

Al centro… l’etichetta
Già, l’etichetta. Rimane ancora lei la regina della comunicazione del vino. Anche il produttore più piccolo e magari disattento chiede al suo grafico di progettargli “una bella etichetta”, perché lo sa: se in un’enoteca ciò che può influenzare la scelta del cliente è ancora il consiglio del venditore, nella GDO - canale di distribuzione sempre più importante - la lotta tra bottiglie affini per tipologia di prodotto e posizionamento di prezzo è condotta tutta ‘a suon di etichette’. Non si lesina sulle lavorazioni e le nobilitazioni, rimanendo per lo più nel campo del già collaudato: stampa a caldo e rilievo a secco la fanno da padroni, così come sempre più diffuso è l’uso di inchiostri UV e della stampa serigrafica, che trasmettono un chiaro senso di qualità del prodotto.
L’etichetta veicola un messaggio fondamentale, forse il 90% degli acquisti avviene proprio in base all’etichetta: quindi è importante che si faccia notare. Come? Bisogna sempre rinnovarsi, sempre fare ricerca.» Concordano Sara Mutti e Giacomo Bersanetti: «Noi lavoriamo a strettissimo contatto con i nostri fornitori, con chi stampa e nobilita le etichette e tutto ciò che creiamo: le nostre necessità progettuali non di rado li stimolano verso sfide innovative, alla scoperta di potenzialità tecniche inedite. È una sinergia continua tra diverse professionalità che alla fine produce sviluppo e know how: un esempio? Nel 1985 abbiamo avuto per primi l’idea di serigrafare una bottiglia di vino. Era una tecnica già ben nota, usata però solo nel comparto farmaceutico, e ci siamo detti: perché non sfruttarne il grande potenziale estetico? Ormai è una cosa usuale, il che ha portato allo sviluppo di nuovi inchiostri, materiali, ritrovati tecnici. E, cosa non indifferente, a un abbassamento dei costi, che è sempre frutto della ricerca tecnologica».

cascina castlet
Cascina Castlet: packaging originale

Tendenze: il lettering
Qualche tendenza nella grafica? Non c’è solo l’onnipresente oro a caldo per caratterizzare una bella etichetta. Come in tanti altri settori, anche in questo il lettering sta esplorando nuove frontiere comunicative ed espressive. Così, se da un lato vini di pregio scelgono font calligrafici che subito suggeriscono un senso di estrema eleganza, dall’altro sono sempre più usati caratteri maiuscoli. Un caso emblematico ce lo raccontano ancora in SGA, ed è quello delle etichette studiate per le barbere La Monella e Bricco dell’Uccellone della cantina Braida, nell’astigiano: «Giacomo Bologna, il produttore, voleva un’etichetta che esprimesse il carattere dei suoi vini, vivaci, frizzanti, in particolar modo La Monella (lo dice il nome…). Così abbiamo pensato di giocare con il lettering, di farlo “saltellare” pur mantenendo rigore e pulizia di linee, alternando corsivi e tondi in corpi diversi e scegliendo un colore insolito. Si è creata così una sorta di “onomatopea visiva” che dà tutta l’importanza necessaria al nome senza perdere nulla in suggestione: basta guardare l’etichetta per iniziare ad assaporare tutto il brio di questo vino ribelle ed esuberante». Le etichette per La Monella e Bricco dell’Uccellone sono state le prime studiate da Bersanetti insieme a Chiara Veronelli, e tutt’ora mantengono intatto il loro spirito innovativo: è un altro carattere, quello della lunga durata, che bisogna tenere presente nello studiare la grafica che accompagna un vino: non è come nella moda, settore in cui ogni sei mesi si ridisegna una collezione, o come nell’high-tech e in tanti altri rami dove ci si rinnova di continuo. Il packaging di un vino diventa parte stessa della sua identità, non va quindi progettato sottostando a mode del momento, ma è sempre necessario saper guardare più a fondo. Ancora una volta, rifarsi a quei valori stabili e duraturi che ne sono alla base.

Braida
Braida: Packaging originale

Mercato estero
«In questi ultimissimi anni c’è stato un notevole allargamento di orizzonti» raccontano Sara Mutti e Giacomo Bersanetti, «soprattutto in direzione degli Stati Uniti, del Canada, dei Paesi nordeuropei e dell’Estremo Oriente. Anzi, è stata propria l’apertura all’estero che ha permesso alle aziende italiane, rivelatesi molto dinamiche, di sopravvivere, e bene, a questi anni di crisi». E per questo tipo di mercati non basta, come dicevamo, ‘tradurre’ un’etichetta e adattarsi a una normativa differente. Bisogna fare uno studio attento del mercato locale: «Fondamentale è la sinergia con il distributore locale» sostengono Mutti e Bersanetti. «In genere si tratta di mercati più semplici» afferma Bresciani «che non hanno il background di conoscenza quasi innata del vino che c’è in Italia o in Francia, amano i prodotti “facili” (come il pur ottimo prosecco, che infatti ha un grande successo all’estero); per questo serve soprattutto chiarezza nella comunicazione e un continuo aggiornamento sulle tendenze locali».

Comunicazione multicanale
Non c’è comunque solo l’etichetta, o anche il packaging. Oggi le aziende devono studiare un piano di comunicazione globale. «Internet è uno strumento imprescindibile» sostiene Tobanelli, «sia per le potenzialità dell’e-commerce, sia per la comunicazione.» «Il profilo dell’azienda, al giorno d’oggi, non può che essere digitale» gli fa eco Bresciani, «suddiviso tra un sito istituzionale e i social. Il primo è il contenitore per eccellenza, che va però concepito in un’ottica aggiornata: i siti di nuova generazione infatti sono versatili, consentono un livello multiplo di fruizione a seconda della predisposizione interattiva di chi lo visita: si possono semplicemente sfogliare delle immagini, oppure soffermarsi a leggere approfonditamente la scheda di un vino, si può utilizzarlo per entrare in contatto con il produttore… Va arricchito con immagini emozionanti, filmati, infografiche… tutto ciò che può creare l’esperienza. I social invece consentono di selezionare il target, di preparare piani promozionali personalizzati, però l’importante è seguirli costantemente, aggiornarli, interagire con gli utenti: una pagina facebook abbandonata a se stessa è la peggiore vetrina per un’azienda!» Il trend di questi anni è chiaro: l’attenzione si va spostando sempre più dal prodotto al “contorno”, è il contesto che diventa fondamentale. Il marchio del vino va legato a tutto ciò che lo accompagna, o lo potrebbe accompagnare, «dallo shopper alla maglietta» chiosa Bresciani. Ma soprattutto il vino dovrebbe diventare il cuore di un sistema di accoglienza globale: un marketing intelligente dovrebbe percorrere la strada del turismo enogastronomico, le cantine dovrebbero lavorare in sinergia con gli enti turistici, gli operatori alberghieri e i ristoratori, le istituzioni culturali. «Fare sistema: è questa la via. Lo scopo deve essere quello di offrire al cliente un’esperienza totale di piacere e di emozione» conclude Bresciani. Perché alla fine è questo ciò cui tutti noi tendiamo: una vita piacevole ed emozionante.

Tag Intervista, Press, Wine strategy

28 / 04 / 2016

Marca oro: nuovo packaging per l’etichetta storica di Valdo.

Tratto dall’articolo di Zoe Parisi: “Nuova veste per il Prosecco storico”, pubblicato su Imbottigliamento, Aprile 2016

Marca Oro, ammodernato e impreziosito
Ma il 2015 è stato anche l’anno in cui l’azienda trevigiana ha puntato sul restyling di un suo spumante storico, un vero e proprio simbolo protagonista del suo successo: il Marca Oro, un Valdobbiadene Prosecco Superiore DOCG Extra Dry che, per le sue caratteristiche, è ormai conosciuto in tutto il mondo. «Commercializzato attraverso i moderni canali di distribuzione ed esportato ovunque sia presente il nostro brand, il Marca Oro è il prosecco più venduto in Italia - chiarisce il direttore commerciale di Valdo, Massimo Poloni -. Uno dei segreti del suo successo è l’ottimo rapporto qualità/prezzo che il consumatore gli attribuisce; la sua inconfondibile etichetta gialla, inoltre, lo rende immediatamente riconoscibile sullo scaffale».

valdo1

A Giacomo Bersanetti, Art Director dell’agenzia SGA Corporate & Packaging Design di Bergamo, abbiamo chiesto di raccontarci com’è nata l’idea del restyling e di cosa si è tenuto conto per il nuovo design. «Il restyling è stato voluto per ammodernare e impreziosire ulteriormente il prodotto iconico di Valdo e per risaltarne la denominazione e il legame con il territorio. Collaboriamo con l’azienda ormai da anni, e, per questo nuovo progetto, tramite la nuova confezione abbiamo cercato di comunicare notorietà, profilo d’immagine, storia, tradizione, specializzazione, territorialità e qualità di Marca Oro. Abbiamo innanzitutto ribilanciato e riposizionato i testi in etichetta, mettendo in evidenza il brand ‘Marca Oro’ e dando maggiore spazio alla denominazione del prodotto. Anche i materiali utilizzati sono cambiati rispetto alla vecchia versione: sulla nuova capsula, infatti, scompare la collaretta, che viene integrata graficamente nella capsula stessa, e l’etichetta è stata modificata da carta-colla ad autoadesiva, con gioco di vernici lucide/opache e rilievi su alcuni dettagli».

valdo2

Servono qualità e innovazione
Valdo è rimasta decisamente soddisfatta del prodotto. «I nostri vini sono costantemente oggetto di studio e innovazione dell’immagine - specifica Poloni -, ma di questo restyling ci hanno colpito in particolare la pulizia grafica e l’esaltazione del legame con il territorio, che rendono l’etichetta più contemporanea senza, però, intaccare l’identità storica di Marca Oro. Il prosecco è riconosciuto dai consumatori di tutto il mondo per le sue caratteristiche distintive, quali l’amabilità del gusto e la grande versatilità di consumo; ora, però, dobbiamo preservare questo patrimonio non rincorrendo i volumi, ma continuando a investire sulla qualità per offrire al consumatore un prodotto sempre migliore. Vogliamo crescere ancora, sviluppando progetti attraverso partnership con realtà regionali e cercando all’estero percorsi innovativi, sempre nell’ambito delle bollicine, creando quindi nuovi prodotti, individuando nuovi mercati e intercettando altri consumatori. Un obiettivo che è anche un numero: raggiungere, entro il 2020, venti milioni di bottiglie vendute nel mondo.

Valdo 3

Ritengo - conclude il direttore commerciale - che per affermarsi con successo nel mercato del beverage oggi sia fondamentale il supporto dell’innovazione, senza la quale non vi è crescita. Bisogna tuttavia evitare l’ingolfamento del sistema, sia in cantina che sui mercati: è ormai troppo elevata la nati-mortalità di codici, soprattutto nel mondo retail. È bene innovare, sì, ma è necessario saperlo fare seriamente, proponendo prodotti realmente nuovi. I nostri clienti potranno continuare ad aspettarsi questo da noi: una costante ricerca e innovazione di prodotto, nel mantenimento più assoluto, però, degli elevati standard qualitativi che ci sono stati riconosciuti in tutto il mondo».

Visualizza la case history completa

Tag Press, Restyling

24 / 02 / 2016

Restyling sartoriali per la linea Valdo Prestigio.

Si è concluso il restyling, iniziato due anni fa, della linea Prestigio, destinata da Valdo al canale Ho.re.ca. Ha coinvolto:
- Cuvée di Boj
- Cuvée Viviana
- Cuvée del Fondatore
- Cuvée 1926

Un percorso progettuale attentamente configurato e ispirato a una strategia aziendale ben definita, fondata sulla piena consapevolezza dei propri valori caratteristici, della propria identità e del proprio potenziale e dotata di obiettivi chiari e condivisi.
Lo ripercorriamo insieme al global marketing manager di Valdo Spumanti, Mauro Bonetti. Con una carriera nel marketing del settore Wine and Spirits iniziata nel 2008 presso Pernod Ricard Italia, Bonetti è laureato alla Bocconi di Milano e ha maturato la propria esperienza all’interno di realtà come La Rinascente SpA, per approdare a Valdo Spumanti nel marzo del 2014.

«La genesi del progetto di restyling della linea Prestigio, iniziato con la Cuvée di Boj, si deve agli input che dal 2013 hanno cominciato a giungerci dal mercato: dai consumatori e da un portfolio di circa 4500 clienti ho.re.ca. che, in Italia, interagiscono con noi attraverso una forte rete vendita, composta da oltre cento agenti”, spiega Bonetti. “Ci veniva chiesto di “togliere un po’ di polvere”, di ringiovanirci per avere maggiore appeal sul consumatore contemporaneo.
Oggi il Prosecco incarna lo spirito del tempo: bevibilità e leggerezza si sposano a un gusto sofisticato. Le vecchie vestizioni non comunicavano al meglio questi concetti ai nuovi target. Così abbiamo puntato a evolverci, senza rivoluzionarci».

restyling

Con l’obiettivo di elevare la percezione del suo valore, la vecchia vestizione della Cuvée di Boj è stata attualizzata attraverso minimalismo e rigore geometrico. L’accentuazione del tratto di modernità si accompagna alla conservazione di family feeling e identità. Abbandonato il vecchio bordeaux, il suo nuovo stile si colora di una tonalità dorata profonda e densa, espressione di un prodotto suadente, dotato di personalità complessa. Il colore è molto caratterizzante e distintivo: la tonalità metallica, calda, quasi ramata, esprime ricchezza e prestigio.
Per l’etichetta è stato utilizzato un supporto in alluminio, i cui riflessi luminosi conferiscono vitalità e brillantezza. Il materiale dell’etichetta consente la stampa di tutte le informazioni più importanti in un rilievo molto pronunciato. Grande importanza viene data al territorio, la cui indicazione spicca subito dopo il marchio. Sono stati mantenuti la forma dell’etichetta rettangolare con gli angoli smussati e i caratteri condensati, soluzione che contribuisce alla migliore leggibilità. «La nuova vestizione della Cuvée di Boj è un perfetto esempio di eleganza d’altri tempi reinterpretata in chiave di modernità: “un classico pensato oggi”», sintetizza Bonetti.

boj

Entrate in distribuzione l’anno scorso sono le rivisitazioni di Cuvée del Fondatore e Cuvée Viviana; quest’ultima è prodotta con le uve della collina di Cartizze, la più famosa della zona del Prosecco. La ricercatezza di questo prodotto viene enfatizzata dalla scelta del nero totale - sia per l’etichetta sia per la capsula - oltre che dall’uso di una carta resa preziosa dalla goffratura superficiale, che richiama al tatto la morbidezza del tessuto. «La rivisitazione della bottiglia offre un approccio polisensoriale, che trasmette la modernità di questo prodotto senza stravolgerne l’identità e il gusto classico», commenta Bonetti.

L’intervento di modifica rispetto alla precedente versione è stato di portata più limitata sulla Cuvée del Fondatore: come nei casi precedenti si è dato maggior risalto alla denominazione, alla Cuvée e alla leggibilità di tutte le informazioni cruciali - risultato ottenuto anche grazie a una luminosità superiore dei supporti -, ma è stata conservata l’alternanza di linee lucide e opache sulla superficie dorata, tratto distintivo e fortemente riconoscibile di questo particolare packaging.
«Per noi è fondamentale che l’indicazione della zona di origine emerga immediatamente con grande chiarezza. Con essa vengono messi in risalto tutti i nostri valori portanti: il legame con il territorio, la passione e l’attenzione maniacale alla qualità, la storia e il senso della tradizione», aggiunge Mauro Bonetti. Gli fa eco Giuseppe Sala, responsabile del canale tradizionale: «in modo coerente, in tutta la gamma, il nome “Prosecco” è stato portato nella retro etichetta, dando maggior importanza alla denominazione, Valdobbiadene: è questo che ci distingue, ed è questo il nostro valore aggiunto. Il Prosecco non è tutto uguale».

viviana

In tutte le referenze della linea Valdo Prestigio, con l’obiettivo di slanciare la bottiglia, la capsula si è allungata e si è liberata dalla collaretta, rendendo l’insieme più contemporaneo. «Una scelta sostenibile, sia dal punto di vista ambientale sia dal punto di vista finanziario: nonostante i maggiori investimenti in termini di qualità della carta, di fatto abbiamo ottimizzato il conto economico dei prodotti», specifica Bonetti.
Una scelta confermata anche nel restyling della Cuvée 1926, il prodotto Valdo che si ispira e afferma con forza l’anno di fondazione della Casa. Qui l’intervento si è concentrato sull’obiettivo di rafforzare il family feeling; per questa ragione la brand Valdo si completa con il simbolo dei grifoni, che evocano tradizione e autorevolezza, e il formato recupera il caratteristico profilo poligonale con angoli smussati. Migliorata di molto la leggibilità della denominazione e soprattutto della brand, particolarmente evocativa e molto riconosciuta.

Sin dalla sua fondazione, Valdo ha sempre perseguito l’obiettivo di una forte identità, sostenuta dall’eleganza e dall’elevata qualità dei propri prodotti.
Per realizzare un obiettivo così importante, nessun passaggio può essere trascurato: da qui la necessità di valorizzare e comunicare il valore reale dei propri spumanti attraverso una serie di elementi che, oltre al packaging, si estendono al secondary packaging e a strumenti di utilità e servizio, quali il nuovo secchiello e la nuova spumantiera.
Per la realizzazione del secondary packaging, la scelta si è orientata su contenitori metallici molto sofisticati dal punto di vista realizzativo, ricercati e di forte impatto. «Il secondary packaging è un elemento fondamentale per distaccarsi dalla massa in enoteca, in particolare durante il periodo natalizio», spiega Sala. «I clienti cercano la novità, anche nei piccoli dettagli: avere sempre qualcosa di nuovo da presentare, e soprattutto di cui parlare, è la carta vincente».

tubi

La silhouette del nuovo secchiello Valdo è ispirata alla forma slanciata di una flûte classica; grazie a questa scelta il secchiello risulta fortemente evocativo e comunicativo. La base di appoggio è caratterizzata da una rientranza molto pronunciata (picure) che permette alla bottiglia di rimanere sollevata, quindi di emergere e staccarsi rispetto agli oggetti che affollano il tavolo.
Le proporzioni del secchiello, ben calibrate in larghezza per assicurarne l’uso più comodo e per il contenimento del peso, quanto sviluppate in altezza per la migliore riconoscibilità, rendono questo oggetto distintivo e funzionale.
L’estensione del progetto alla spumantiera è avvenuta in modo naturale e coerente. La forma finale, ottenuta attraverso la compenetrazione del volume di cinque secchielli su pianta pentagonale, costituisce un richiamo alla legge di proporzione aurea.
Ciò ha consentito di realizzare un contenitore di forte impatto visuale, capace di accogliere e raffreddare sei bottiglie Valdo.
Sia i cilindri in metallo che secchiello e spumantiera sono realizzati con materiali completamente riciclabili.

secchiello

«Secchiello e spumantiera sono come abiti realizzati su misura per le bottiglie. Si tratta di oggetti molto apprezzati dai nostri clienti, sia per la visibilità conferita dalla trasparenza sia per la sinuosità, oltre che per l’efficacia nel mantenimento della temperatura. La picure crea una base dinamica e solida per le bottiglie, consentendo un’esposizione adeguata».
«In questo mercato, di cui deteniamo un’importante quota, una delle strade per competere è essere innovativi e propositivi. Nel corso del 2016, in occasione del nostro 90° anniversario, saranno realizzati un logo celebrativo ed edizioni speciali, corredati da attività ad hoc», conclude Bonetti.

Tag Intervista, Restyling

09 / 12 / 2015

SGA e Brevetti Waf: design e tecnologia per il vino.

La Brevetti Waf, azienda che da oltre quarant’anni realizza ed esporta in tutto il mondo oggetti tecnologici e di design legato al mondo del beverage, presenta un sito web tutto nuovo, moderno e immediato.

Particolare risalto viene dato al progetto di secchiello e spumantiera ideato da SGA per l’azienda Valdo.

La forma del nuovo secchiello Valdo, realizzato in metacrilato trasparente, è ispirata alla silhouette particolarmente slanciata di una flûte; grazie a questa scelta il secchiello diventa evocativo, un’amplificazione del classico bicchiere per spumante.
La base è caratterizzata da una rientranza particolarmente pronunciata (picure), le cui proporzioni permettono alla bottiglia di rimanere sollevata, quindi di emergere e staccarsi rispetto al ‘paesaggio’ affollato del tavolo.

Valdo secchiello

La declinazione del progetto sulla forma della spumantiera è avvenuta in modo coerente; l’oggetto finale è stato ottenuto tramite la compenetrazione del volume di 5 secchielli su pianta pentagonale; un richiamo alla sezione aurea, legge naturale di proporzione, che ‘informa’ la crescita di ogni individuo, sia dell’ambito animale, che vegetale, che risulta evidente per esempio nella foglia di vite.

Ciò ha consentito di realizzare un contenitore dal forte impatto visuale, capace di accogliere 6 bottiglie di spumante Valdo: una al centro e cinque nelle rispettive nicchie perimetrali. Anche nel caso della spumantiera il fondo, particolarmente pronunciato, solleva e valorizza le bottiglie.

Tag Global design

20 / 10 / 2015

L’etichetta ieri, oggi e domani. Intervista a Manlio Tonutti.

L’etichetta ieri, oggi e domani. Intervista a Manlio Tonutti from SGA Wine design on Vimeo.

Intervista a Manlio Tonutti, alla guida dell’azienda Tonutti Tecniche Grafiche di Fagagna (UD) con i figli Maria Teresa e Marco. 400 milioni di etichette stampate al mese, 130 dipendenti, 70 anni di storia alle spalle, l’impresa fondata da Pietro Mario Tonutti è definita la “Cartier dell’etichetta” per la sua vocazione alla stampa di qualità. Punto di riferimento internazionale nell’ambito del labelling, l’azienda friulana ha, negli anni, allargato i settori serviti, passando da quello enologico al beverage in generale, al food e ai cosmetici. Tonutti, sinonimo di etichette, ha vinto il premio “La Vedovella 2014”, noto anche come l’”Oscar della stampa”, con la nomination di Best Label Printer.

La Tonutti Tecniche Grafiche è un azienda d’eccellenza italiana che nasce circa 70 anni fa, ad opera di suo padre, Mario. Può raccontarci come è nata la tipografia e tratteggiarne brevemente la storia?

È una storia abbastanza curiosa. Mio padre era un sarto. Era un bravissimo sarto, aveva 20 dipendenti e produceva 20 abiti alla settimana, di qualità. Vendeva anche le stoffe che recuperava in Inghilterra, in Scozia o in Italia. Ma evidentemente era nato imprenditore: non gli bastava l’attività di sartoria. Guardava sempre se c’era la possibilità di fare degli affari.
Aveva un rapporto di conoscenza con una litografia a Udine; nel ‘44, proprio alla fine della guerra, questa litografia, dislocata su due piani, fu bombardata: non era rimasto altro che un cumulo di macerie. Il proprietario, parlando con mio padre, disse: «è tutto distrutto, però c’è del ferro sotto, c’è della ghisa, ci sono delle macchine importanti, potrebbe essere un affare smantellare tutto e vedere quello che ne possiamo ricavare». Mio padre intuì che poteva esserci qualcosa di importante da rivendere, per cui comprò da questo tipografo le cose così come stavano, a cancelli chiusi, dicendo: «compro quello che c’è, poi mi arrangio io». Lo stabilimento fu smantellato; una trave si era messa di traverso in un punto della piccola fabbrica su una macchina piana, da pietra, semirotativa. Questa macchina era la più importante; aveva dei danni, ma più che altro alla base, non nei meccanismi di rotazione. Mio padre non si sentì di venderla e la portò nel cortile della sartoria, vendendo il resto. A degli ex-dipendenti di quell’azienda, che erano rimasti senza lavoro, disse: «provate a rimetterla in piedi». Ci lavorarono su uno o due anni, e la rimisero in piedi: stampava. Guardandosi in giro, mio padre capì che in quel momento c’era mancanza di quaderni, e le scuole stavano riaprendo. Così cominciò a stampare quaderni, mentre continuava l’attività di sartoria. Siamo nel ‘45.

Cavit

Bellavista
Restyling Müller Thurgau Cavit e Linea Franciacorta Bellavista

Nel ‘46 si verificò una strana cosa, mio padre disse: «ho fatto la mia ricerca di mercato; ma non l’ho fatta io, è venuta da sé». Nel paese di Fagagna, nel nostro paese, in quegli anni c’era miseria, la gente aveva poco o niente, anche da mangiare, lavoro non ce n’era. Comunque, stranamente arrivò un carro con dei cavalli dalla zona del Collio; sopra c’era una botte di vino che doveva essere scaricata in una delle osterie del paese. Si sparse la voce e all’arrivo della botte uscì mezzo paese. Tutti gli uomini del paese, o quasi. Non riuscirono a portare la botte nell’osteria: l’oste si era attaccato alla spina, man mano che veniva la gente spinava. E così vuotarono la botte. Mio padre, che assisteva alla scena, fece un piccolo ragionamento: la gente era disperata, non aveva neanche i soldi per mangiare, però i soldi per bere un bicchiere di vino c’erano sempre. Disse: «se la gente è disperata beve, ma se è contenta… beve. Io, in qualche modo, mi devo attaccare al settore».
E da lì l’evoluzione: dalla stampa dei quaderni cominciò a guardarsi in giro e si mise a stampare etichette. Per quale settore? In quel momento il vino non veniva imbottigliato, specialmente nella nostra zona, veniva venduto nelle damigiane. Quindi: la grappa. Si mise a stampare etichette di grappa e di liquori. Non bastavano a coprire la possibilità di produzione della macchina piana, pur lenta com’era, e allora affiancò un altro tipo di stampa, sempre nell’ambito delle etichette per sfruttare tutto il resto dell’attrezzatura, adibita a tagliare, verniciare, fustellare… In quegli anni quello che andava, come etichette, in numeri incredibili erano le scope. Le scope di saggina avevano un manico di legno su cui ogni produttore attaccava un’etichetta di carta. Allora le scope avevano nomi famosi, come la Scopa Pippo, prodotta in milioni di pezzi.

Valdo 1

Valdo 2
Restyling Cuvée del Fondatore e packaging originale Prosecco Millesimato Valdo

Quindi etichette di grappa, di liquori e di scope. Da lì si sviluppò il servizio al cliente, che richiedeva il depliant, il catalogo o la scatola: l’azienda pian piano si evolveva dalle macchine piane e dalla litografia. Arrivarono le prime macchine rotative, le prime macchine Roland, dalla litografia all’offset; nell’evoluzione mio padre iniziò a stampare un po’ tutto.
Io sono entrato nell’azienda di mio padre negli anni ‘60. Ho interrotto gli studi, ho interrotto l’università (ero diplomato in ragioneria), e ho cominciato a lavorare con mio padre. Mi ha coinvolto nell’azienda di stampa e io ho preso la decisione di stampare solo etichette. La cosa è stata accettata anche da lui, che mi ha reso socio dell’attività al 50%. Quando ci ritrovavamo in famiglia io lo ringraziavo di questa possibilità che mi aveva dato, e la sua battuta era sempre quella: «sì, tu sei stato fortunato, ma anch’io, perché ti ho dato il 50% dei miei debiti».
L’azienda, la nostra azienda, è nata con una ricerca di mercato venuta da sé.

Quindi avete scelto di specializzarvi.

Sì, negli anni ‘70 la scelta è stata di non stampare più depliant o scatole ma solo ed esclusivamente etichette. Ovviamente in tutte le direzioni, in quegli anni come adesso: il nostro core business restava l’etichetta per il vino, però stampavamo un po’ tutto, dal mondo dei soft drinks al settore alimentare.

Rotari

Costaripa
Packaging originali Rotari Arte Italiana e Costaripa Brut Rosé

Come ha ben chiarito, un vostro punto di forza è rimanere al passo con le nuove tecnologie, anzi, spesso anticiparle. Quali sono le ultime innovazioni che avete adottato e quali prevedete di adottare nel prossimo futuro?

Nel tempo abbiamo adottato diverse innovazioni per seguire le richieste dei nostri clienti, intuendo le possibilità offerte dalla stampa rotativa e inimmaginabili con la stampa piana, oppure cercando di superare i grandi limiti della stampa carta e colla, con cui prima si doveva stampare, poi verniciare, poi fare bronzature, o degli ori… Il risultato era legato a troppi passaggi, e le varie fasi di lavorazione rendevano il controllo della qualità abbastanza difficile. Una macchina autoadesiva invece poteva stampare tutto fino in fondo, e si aveva già il risultato.
Certo, bisognava riuscire a convincere anche i fornitori. I nostri sforzi maggiori (forse non solo i nostri, ma di tutti quelli che stampano autoadesivo) sono stati diretti a farci costruire delle macchine che avessero tutte le possibilità, con cui potessimo avere l’offset, che era la stampa primaria per l’etichetta, o il rotocalco, e contemporaneamente dorare (non più bronzatura ma ori a caldo), contemporaneamente verniciare, fare il rilievo, le goffrature e tagliare. Abbiamo cominciato noi ad imporre queste necessità ai nostri fornitori, e li abbiamo trovati d’accordo, ottenendo determinate composizioni di macchine, complete di offset, flexo, con più di una possibilità di oro, con la possibilità di avere anche una linea a rotocalco. E alla fine, e questo è stato per me il più grande risultato, abbiamo potuto aggiungere a queste opzioni anche la possibilità della serigrafia.

Felluga

Chiarlo
Packaging originali Marco Felluga e Michele Chiarlo

Noi, alla Tonutti, abbiamo installato una delle prime macchine serigrafiche piane, lentissima; più di qualcuno ci aveva dato dei matti. Io stesso ero convinto che mai, con quelle velocità di stampa, i nostri clienti avrebbero aderito alla stampa serigrafica. Si è verificato invece che le etichette prodotte dalla piana, per quanto costose, erano di tale qualità che il boom è stato immediato e in breve tempo la macchina non era più sufficiente. Così siamo arrivati a macchine più veloci, sempre con telaio; e siamo stati i primi ad avere una macchina mista, cioè una macchina con gruppi offset e gruppo serigrafico. Da lì l’evoluzione della stampa serigrafica anche rotativa: oggi riusciamo a stampare, se abbiamo le quantità, in serigrafia rotativa, con delle velocità elevate per questi tipi di produzione. Per cui riusciamo ad avere macchine che stampano contemporaneamente offset per la quadricromia, flexo per le verniciature e per i fondi pieni, e in serigrafia, per risultati di grande opacità così come di brillantezza dei colori.

In che modo avete visto cambiare le richieste dei vostri clienti nel corso degli anni?

Nel corso degli anni i nostri clienti di tutti i settori, ma in modo particolare di quello enologico, hanno cominciato ad esportare. Esportando, sono cresciute le loro esigenze relativamente all’etichetta, che doveva essere realizzata con carte idonee a sopportare gli stress del trasporto e della spedizione in luoghi lontani, per esempio negli Stati Uniti. Le bottiglie di vino, magari stivate in ambienti caratterizzati da oltre il 90% di umidità, necessitavano di etichettature con carte e colle idonee, dotate di caratteristiche antimuffa, ha rappresentato assolutamente la richiesta più frequente, grazie alla sua capacità di resistere agli stress. Le esigenze sono cresciute anche nei confronti di quella che è, per esempio per i vini bianchi, frizzanti o spumanti, la tenuta a secchiello. Molto importante anche la possibilità di mandare i prodotti all’esportazione salvaguardando l’etichetta fino all’arrivo e poi fino al mercato senza necessità di contenitori costosissimi: a questo scopo ci vengono richieste etichette realizzate con vernici antigraffio, resistenti a tutte le influenze negative del trasporto, dei cambiamenti di temperatura. Da parte nostra, in collaborazione con i fornitori di materie prime, abbiamo portato avanti una grande ricerca in questa direzione, basandoci sulle richieste dei clienti.
I clienti sono maturati anche per quanto riguarda la qualità delle etichette e su questo fronte abbiamo lavorato con le agenzie; acquisiva sempre maggior importanza, finalmente, la richiesta di avere delle etichette con marchio, delle etichette importanti, delle etichette che si fanno riconoscere. Sempre più spesso ci venivano richieste delle etichette capaci di affrontare qualsiasi tipo di clientela, anche con mentalità diverse, perché quello che può piacere a un mercato in teoria potrebbe non piacere ad un altro. Questo, secondo me, è vero fino ad un certo punto. Oggi, dal mio punto di vista, graficamente, le etichette piacciono dappertutto e alle volte rispecchiano quella che è la caratteristica di un paese. Il cliente vuole essere ricordato, vuole in qualche modo che l’etichetta rispecchi quelle che sono le caratteristiche della sua azienda, cerca qualcosa in più, e io direi che i grafici hanno dato qualcosa in più. Oggi abbiamo delle belle etichette sul mercato, ed è lo stesso mercato a richiederle.

Lunelli

Schiopetto
Packaging originali Azienda Agricola Lunelli e Schiopetto

Quali sono le caratteristiche di un’etichetta di qualità, oggi?

L’etichetta di qualità, oggi, non può prescindere da determinate necessità: prima di tutto deve avere un collante che dia tutte le garanzie nei cambi di temperatura. Sicuramente un’etichetta per un vino rosso, se parliamo di etichette da vino, non ha la necessità di una frigo-conservazione. Quindi potremmo usare una carta diversa a seconda della necessità di una frigo-conservazione o in base alla tenuta in secchiello, ma di norma le due cose ormai, si adeguano, cioè si cerca un collante che abbia tutte le qualità importanti e un frontale che abbia le caratteristiche della lunga durata, dell’antigraffio e della tenuta all’acqua.
Dopo di che l’etichetta deve essere bella. Perciò tutte le tecnologie di stampa di cui abbiamo parlato devono potersi applicare a una grande grafica, adeguandosi alle esigenze di chi ha studiato l’etichetta. Oggi non ci sono limiti per realizzare una bella etichetta, abbiamo la possibilità della stampa offset se abbiamo delle quadricromie, o la esacromia, abbiamo la possibilità di aggiungere sulla stessa etichetta un oro o più, oppure un oro e un argento, con tonalità diverse di trasferimento di ori a caldo; abbiamo la possibilità di avere una stampa flexo per dei tratti o dei pieni. Ritengo che, anche in futuro, per una bella etichetta, non si potrà mai essere esenti da uno o più passaggi alla stampa serigrafica, anche per delle piccole cose, per dei piccoli toni, per dei piccoli tratti. Infine un’etichetta senza una goffratura, senza un rilievo, mi sembra abbastanza povera. Ma questo vale per me, che vado a cercare di tutto e di più sull’etichetta.
Noi stampatori di etichette oggi dobbiamo essere in grado di dare tutto quello che uno studio grafico ci chiede. Un’etichetta può essere semplicissima, per esempio di un solo colore, ma è importante su che supporto viene trasferita e con quale tecnologia di stampa.

ccc

ccc 2
Packaging originali Cascina Castlet

Siamo all’ultima domanda: può delineare per il futuro qualche tendenza più marcata nell’evoluzione di questo mercato?

È difficile, però credo che in certi settori vedremo etichette di cento centimetri quadri o anche di più. Oggi stanno nascendo le sleeve, stanno nascendo altri sistemi di etichettatura, che in certi ambiti possono dare la possibilità al grafico di trasmettere messaggi multipli. Sicuramente andremo nella direzione delle sleeve, andremo nella direzione delle etichette a copertura totale della bottiglia. Questa tendenza, ormai consolidata in altri settori alimentari, coinvolgerà anche il vino, chiaramente certi tipi di vino, certi prodotti, certi quantitativi. È una tendenza destinata ad espandersi, secondo me, così come la tendenza ad apporre sull’etichetta dei messaggi da trasferire: oggi noi stiamo lavorando molto sulla realtà aumentata. Sempre più spesso troveremo sull’etichetta un piccolo logo da puntare con il cellulare per avere tutte le notizie relative al vino, al prodotto, all’azienda. Già oggi facciamo delle retroetichette sempre più belle: in futuro dovranno essere anche sempre più intelligenti, dare tutte le notizie del produttore, di quel tipo di prodotto, di come è stato vinificato, della sua annata. In questo modo, secondo me, avremo completato quella che è la richiesta di un cliente. Il mondo nuovo ci porta in una direzione dove l’informazione, tutto quello che c’è dietro una bottiglia, potrà essere contenuto anche in un’etichettina piccolissima.
Oggi, e anche in questo ci riteniamo tra i primi, stiamo tentando ogni giorno di più di coinvolgere i produttori di materie plastiche affinché ci seguano, perché la plastica non è soltanto una brutta materia vile o lucida. Abbiamo cominciato a trattare bene la plastica, ottenendo dei risultati opachi o misti, cioè lucido e opaco (nessuno si accorge che l’etichetta è di plastica); riusciamo a fare dei rilievi sull’etichetta. Andiamo incontro in questo modo all’esigenza di massima resistenza espressa dal nostro cliente. Perciò io credo che un futuro abbastanza vicino poche etichette nel mondo dei vini bianchi, degli spumanti, dei frizzanti avranno etichette di carta. Avremo sempre di più materie prime che vadano incontro alle esigenze di fornire un’etichetta ineccepibile, perfetta. Senza fare nomi, oggi le più belle etichette fra le marche importanti dei prodotti di grande qualità di champenoise sia in Francia, sia in Italia, si stampano su materie plastiche. Credo che, purtroppo, in futuro avremo poca carta. Io sono nato con la carta, la adoro, ne sento l’odore, ma stamperemo sempre meno carta. In compenso daremo una grande soddisfazione ai nostri clienti: gli faremo dimenticare determinati problemi e abbiamo il dovere di farlo.

Tag Intervista, Packaging

08 / 10 / 2015

Progetti che vincono il tempo: Prunotto.

Barolo Riserva Bussia ‘Vigna Colonnello’.

La nuova etichetta per il vino ottenuto dal piccolo prestigioso cru Vigna Colonnello, in località Bussia, rappresenta l’ultima evoluzione di un percorso di archeologia del design, iniziato nell’88 con il recupero di un biglietto da visita aziendale in uso negli anni ‘30.
Seguendo il filo della memoria, la vestizione concepita alla fine degli anni ‘80 per i vini Prunotto si rifaceva ai biglietti da visita eseguiti con stampa litografica (tecnica tradizionale su pietra), che gli agenti dell’azienda distribuivano ai possibili acquirenti. Recuperati e ridisegnati sotto forma di etichetta da SGA, nel rispetto delle font originali, del tipo di carta, del colore e del formato, davano vita a un’immagine classica, elegante, rarefatta e autentica.

Prunotto storici
Le etichette progettate da SGA nel 1988

La semplicità e il rigore, che allora erano prodotti dai caratteri neri sulla carta avorio, vengono attualizzati dalla nuova etichetta che inverte il colore delle scritte sul fondo nero. Pur conservando interamente l’impostazione precedente con composizione a epigrafe centrale, la nuova etichetta è stata ripulita da ogni interferenza, mentre le informazioni relative al vino sono state collocate nella retroetichetta.
Elemento prioritario, subito dopo la firma Prunotto, è il nome della vigna, fra le più prestigiose del Barolo, cui viene data massima enfasi posizionandola a conclusione dell’epigrafe.

Prunotto Vigna Colonnello
Etichetta Barolo Riserva Bussia ‘Vigna Colonnello’

L’etichetta si integra al corpo della bottiglia; consente al testo di emergere dal fondo scuro, di porsi in primo piano, e di armonizzarsi con i riflessi luminosi della brand in rilievo nel vetro.
Il più elevato e corretto posizionamento di questa Riserva è affidato anche ad aspetti più sottili, ma significativi, quali la matericità della carta e la qualità tattile del rilievo applicato alla brand e al nome del vino.
Nonostante siano trascorsi quasi tre decenni e la Prunotto sia stata acquisita da una nuova proprietà, il progetto originario si rivela straordinariamente attuale ed efficace.
Il nuovo progetto per Vigna Colonnello, realizzato in rigorosa coerenza, dimostra che ancora oggi è possibile riallacciarsi agli stessi valori e criteri, producendo un risultato di inequivocabile impatto.

Tag Packaging

08 / 09 / 2015

Bottiglie e battaglie. La Guido Berlucchi raccontata dal suo ideatore.

Franco Ziliani ci parla del suo percorso professionale nel mondo del vino, costellato di ostacoli sempre brillantemente superati, senza tralasciare aneddoti memorabili.
L’azienda di cui è co-fondatore, la Guido Berlucchi & C. S.p.A, è leader di mercato in Italia nel settore del metodo classico, con 4 milioni di bottiglie prodotte all’anno e circa 10 mila clienti sul territorio nazionale e in 33 paesi del mondo. Attualmente conta su circa 500 ettari di vigneti in Franciacorta e 90 collaboratori tra la sede operativa, le cantine e i vigneti. Dalla vendemmia 2014 i vigneti dell’azienda, oggi guidata dai figli di Franco Ziliani (Cristina, Arturo e Paolo), sono in conversione al regime biologico.

famiglia
Franco Ziliani con i figli Cristina, Paolo e Arturo.

Quali furono le intuizioni che l’hanno portata negli anni ’50 a creare questa azienda?

Il mio percorso nel mondo del vino prende ufficialmente il via quando, all’inizio degli anni ‘50, ebbi la fortuna di assaggiare lo Champagne. A quei tempi eravamo soliti accompagnare il panettone con l’Asti Spumante; mio padre invece, che operava nel settore vino (come mio nonno prima di lui), una volta per festeggiare il Natale portò due bottiglie di Champagne. Allora ero studente di enologia ad Alba, e conoscevo lo Champagne grazie alle lezioni del professor Dell’Olio, appassionato di questo grandissimo vino francese. Assaggiandolo, decisi che lo avrei riprodotto in Italia; naturalmente avrei prima dovuto trovare un vino adatto alla rifermentazione in bottiglia, base del metodo classico (a quei tempi chiamato méthode champenoise), che all’epoca era insegnata da un tecnico molto bravo. Spesso, per mostrarci questo tipo di lavorazione, ci portava nello stabilimento che dirigeva, Calissano, nel centro di Alba. I piemontesi, come Cinzano e la sua “cantina del milione” (si diceva che contenesse un milione di bottiglie), applicavano questo metodo anche all’Asti, almeno finché non sono passati al metodo charmat, cioè alla fermentazione in autoclave.
Nel 1954, dopo gli esami di riparazione, conseguii il diploma: non ero un bravo studente. Lasciai Alba per tornare nella provincia di Brescia e poco dopo mio padre morì, cedetti quindi la sua piccola azienda, che vendeva vini correnti, e iniziai a collaborare come consulente tecnico per aziende vinicole in particolare del lago di Garda.
Un giorno Alessandro Borghese, mediatore di vini, mi disse: “il signor Berlucchi cerca un tecnico: vuole tentare l’imbottigliamento della partita di Pinot bianco che ha al castello”.

fondatori
Giorgio Lanciani, Franco Ziliani e Guido Berlucchi.

Così, nel 1955, mi recai a Palazzo Lana Berlucchi per incontrare il discendente dei conti Lana de’ Terzi. La casa era impressionante, e rimasi molto colpito anche dall’antica cantina, cui si accedeva da un vialetto: da una bella scala si giungeva a un volto, sotto cui erano sistemate delle piccole vaschette di cemento. È lì che, tra le tante limitazioni imposte da leggi molto strette, con fatica cominciammo a sperimentare, imbottigliando il vino, che Guido Berlucchi vendeva con il nome di “Pinot del Castello di Borgonato”. Aveva disegnato da sé l’etichetta, che rappresentava la loggetta collocata nel sottopasso del Palazzo cinquecentesco; il vino veniva proposto in bottiglie bordolesi. Berlucchi era innamorato del Bordeaux.
Quel giorno lanciai a Berlucchi la sfida: «perché non facciamo una cosa un pochino più raffinata? Proviamo a trasformare questo Pinot bianco con il metodo champenoise». Guido Berlucchi era perplesso, ma alla fine accettò. Costituimmo (al momento solo verbalmente) una società. Il nostro obiettivo non era facile da raggiungere: non avevamo a disposizione i materiali adatti, non avevamo esperienza. Il metodo champenoise era poco conosciuto nella nostra zona, mi dovevo arrangiare. Andavo spesso alla scuola enologica, ma anche dai miei amici tecnici riuscivo a ottenere solo vaghi suggerimenti.
Passarono tre o quattro anni, nel frattempo il vino nelle bottiglie aveva ripreso a fermentare, non ho mai saputo il perché. Finché, a un certo punto, con la produzione del 1961, tremila bottiglie andarono bene. Ne ricavai del bianco da lasciare brut e l’anno dopo anche del rosé (lo chiamammo Max Rosé e fu il primo metodo classico rosato d’Italia, dedicato all’amico di Guido Berlucchi, Max Imbert). Era nato il Pinot di Franciacorta. Mettemmo in vendita le bottiglie: la novità, dopo le prime diffidenze, piacque parecchio.

in cantina

console
Anni ‘60: Franco Ziliani in cantina e con il console inglese William Sharpe.

L’anno successivo aumentammo la produzione, e così in quelli seguenti. Parallelamente cresceva la domanda; e pensare che avevo iniziato trascinando in cantina tutti quelli che conoscevo, amici, parenti. Si entusiasmavano, compravano una scatola da sei bottiglie, poi telefonavano, ne volevano altre due, altre cinque… Morale: iniziammo a vendere tutto con facilità. Siamo andati avanti due o tre anni aumentando continuamente la produzione. Poco tempo dopo eravamo già a ventimila bottiglie. Ricordo quando le abbiamo accatastate in cantina: insieme a me, una cameriera di casa Berlucchi, il cameriere personale del signor Guido (detto il Beppe), e il cantiniere. Posizionate le ultime due bottiglie, il povero Beppe esclamò: «e adesso per vent’anni siamo a posto», pensando a quanto tempo ci era voluto per immagazzinare le prime: più di due anni!

Com’erano le prime bottiglie prodotte?

Le prime bottiglie provenivano dalla vetreria di Asti, erano molto belle, scure, col collo molto pronunciato, sottile. I tappi, che acquistavo da alcuni produttori piemontesi, erano costituiti da un pezzo unico di sughero. Il tappo rappresentava sempre un problema. Perché qualche volta, nel mollare la museruola, saltava; qualche altra volta non veniva su, oppure si spezzava: era un finimondo.
Poi c’era anche un altro problema: non avevamo un vero enofrigo, ma un frigorifero normale, quindi per ghiacciare il liquido che doveva essere espulso ci volevano ore e ore.
Nell’inverno del ‘62, invece, feci il mio primo viaggio in Champagne: proprio quando veniva introdotto il tappo a corona. Ho adottato subito anch’io questa tecnica, affrontando però seri problemi di tenuta.
Il tappo era un vero e proprio ostacolo.

Palazzo Lana

palazzo lana
Packaging originale Palazzo Lana.

Nei primi anni ‘60 avevo abbandonato l’azienda di mio padre e avevo aperto un ufficio di assistenza tecnica a Brescia, ma passavo da Borgonato di Corte Franca al mattino e al mio ritorno. Una sera, in un ufficio ai piani inferiori, trovai dei bellissimi tappi. Erano dei campioni che aveva portato un signore francese di origine spagnola. Senza perdere un minuto, mi feci dare una macchina veloce da Guido Berlucchi, la Morris. Partii alla volta della fabbrica dei tappi, in compagnia di un impiegato che ancora si ricorda di questo viaggio. Partimmo alle 6 di sera, alle 11 del mattino seguente eravamo là. Dopo una breve sosta in motel, caricammo la macchina - dentro e sopra -con sacchi di carta pieni di tappi. Ero ansioso di tornare per utilizzare subito i nuovi tappi e sostituire quelli precedenti, che erano disastrosi. Scendendo da Épernay, in Borgogna, prima di deviare per andare verso il Monte Bianco, a un certo punto scoppiò un temporale. Allora non era tutta autostrada: a un incrocio dovetti frenare violentemente: i tappi che erano sopra la macchina finirono tutti per terra. Fermammo il traffico. Li buttammo tutti dentro l’auto alla rinfusa perché i sacchi erano andati… Dopo pochi minuti l’abitacolo era saturo dell’odore di tappo, esasperante.
Ci toccò fare tutto il resto del viaggio con i finestrini aperti. Arrivammo alla dogana del Monte Bianco alle 5 del mattino: era troppo presto, non c’era il personale addetto. Poi il controllo dei documenti: «ma qui sono segnati 24-25 colli… invece ci sono solo tappi»! Gli ufficiali sospettarono che fosse un trucco, allora cominciarono a tagliare i tappi a metà per vedere se contenevano qualche sostanza illecita. Solo dopo che ebbi raccontato tutta la storia ci lasciarono andare. Alle 4 del pomeriggio, eravamo nel cortile del Palazzo. Dissi al cantiniere: «Battista, prendi i tappi e mettili nelle scatole che vado a Brescia a far dogana»! Una volta a Brescia, l’OK non arrivava: provai a protestare con un ufficiale, che mi rispose: «ma ci dica lei, piuttosto: parte con 24 colli e ora ne ha 28, come mai»?

C Imperiale
Restyling Cuvée Imperiale.

Può descriverci la prima vestizione delle bottiglie?

La prima vestizione delle nostre bottiglie è stata realizzata a Brescia da Apollonio. Ideata dal terzo socio, Giorgio Lanciani, che era appassionato d’arte, la prima etichetta era molto bella, ma costosissima. Era ovale, con il nome in rilievo: la sua forma la rendeva distinguibile da tutte le altre. Volevamo essere innovativi, come lo era la produzione di spumante nel bresciano. L’annata era riportata al centro dell’etichetta, un altro elemento di relativa novità, perché allora le annate non venivano comunemente riportate sui vini. Ma noi ci eravamo fatti un po’ di cultura in Francia…
Io vengo talvolta accusato dai miei colleghi di essere un francofilo; in realtà devo dire grazie alla Francia e ai suoi viticoltori, per esempio a Moët et Chandon, che mi ha ricevuto decine e decine di volte. Venivo sempre accolto in Avenue de Champagne, a Épernay, da un’addetta alle pubbliche relazioni. Si trattava della Contessa de Maigret che, guarda il caso, era stata in collegio a Bologna con due sorelle bresciane. Erano state loro a scriverci un biglietto di presentazione la prima volta che siamo stati in Champagne.
Non ho vergogna a dirlo, copiavamo tutto quello che facevano i francesi. Dal tappo a corona ai primi gyropalette, fino alle prime dosatrici… Ci mancava solo la loro terra. Ma io ero determinato a fare un vino come lo Champagne. Perché mi chiedevo: «ma la qualità di questo vino è tutta dovuta alla natura o una buona percentuale è determinata dall’estro dell’uomo»? Mi illudevo che l’uomo fosse protagonista, in realtà può solo conservare quel che la natura gli dà.

L’uva con cui avete dato il via alla produzione proveniva dal territorio?

All’inizio l’uva era di nostra produzione, inoltre compravamo quella della zona, sempre Pinot bianco. Il Pinot nero qui non esisteva. Ho piantato io i primi vigneti di Pinot nero: dava grappolini talmente piccoli, la produzione era così poca che la viticoltura per questa varietà si è sviluppata solo molto più tardi.

61

Cellarius
Packaging originale ‘61 Franciacorta e Cellarius.

Ha dovuto affrontare molti ostacoli nella sua carriera?

Leggi e regolamenti particolarmente restrittivi hanno spesso posto ostacoli difficili da sormontare. Per esempio, lo zuccheraggio del vino destinato alla spumantizzazione che si trova al di sotto del limite del valore zuccherino e quindi alcolico. In Francia c’è molta libertà, da noi è un problema. Loro poi sono stati furbi, non l’hanno chiamato “zuccheraggio” come noi, l’hanno chiamato “chaptalizzazione”, perché il signor Chaptal ha inventato questa pratica!
La burocrazia: un incubo. Per esempio, ricordo quando, per mandare il vino in America, avevo bisogno del bollino INE. Invio la pratica, e da Roma mi danno il benestare per il Pinot di Franciacorta, per il brut e non per il rosé. Perché? Perché il disciplinare dice che il vino deve essere “giallo con riflessi verdolini”. Ma se mi consentite di usare anche il Pinot nero, posso fare anche il rosé, no? Ho dovuto lottare per averlo.
Non solo, noi siamo stati gli unici in Italia a pagare l’IVA quando era salita al 38% per i vini spumanti prodotti con l’obbligo della fermentazione in bottiglia (méthode champenoise). La legge era stata formulata essenzialmente per colpire lo Champagne, ma coinvolgeva anche noi che ci attenevamo al disciplinare. Sono andato personalmente a Roma, a bussare alle porte del Ministero dell’Agricoltura, e non mi sono arreso finché non hanno cambiato l’articolo di legge.
Mi ricordo anche gli screzi con il direttore del consorzio dei vini tipici della nostra zona, quando io cercavo di spingere i viticoltori, quei pochi che c’erano, a piantare Pinot bianco o Chardonnay. Un giorno invitò tutti a una conferenza in cui sosteneva che il vino degli italiani, per antonomasia, è rosso. Io ribattei: «No!». Saremo stati un centinaio di persone: novantotto diedero ragione a lui. Allora lui si alzò, prese il bicchiere, un bicchiere di vino rosso, e fece un brindisi: «bevo alla morte dello spumante di Franciacorta!» Ma chi non muore si rivede…

Evento

Riserva
2011, Teatro Grande di Brescia: Franco Ziliani festeggiato dai produttori per il suo ottantesimo compleanno e per i 50 anni di Franciacorta.
Sotto: la Riserva a lui dedicata.

Tag Intervista, Packaging

23 / 07 / 2015

Wine2wine: come migliorare l’immagine e consolidare il brand nel mondo del vino.

Investire in immagine nel settore del vino: cosa significa e perché è importante?

Significa aver capito - sembra scontato ma non lo è - che occorre rendersi riconoscibili e memorabili; le aziende investono nel vigneto, nella cantina e nella produzione, ma non sempre dedicano la stessa attenzione e lo stesso impegno quando rivolgono i propri prodotti al mercato, non capendo che, in questo modo, vengono penalizzati.

Rinnovare l’immagine: perché una cantina dovrebbe farlo?

Ha senso rinnovare la propria immagine solo se è inadeguata.

valdo
Restyling marca Oro Valdo

Rinnovare l’immagine: come faccio a capire quando è il momento di cambiare?

Coltivare il dialogo con gli operatori del mercato, permette all’azienda di raccogliere critiche, stimoli e suggerimenti; osservare, senza imitare, i competitor è altrettanto utile.

Rinnovare l’immagine: sono preoccupato che i miei clienti non mi riconoscano più: sbaglio?

Direi proprio di si; l’eventuale disaffezione non dipende dagli aspetti estetici.
È, però, vero che trascurare i segnali ricevuti e inequivocabili, produce effetti negativi.

Gaja
Restyling packaging Gaja

Rinnovare l’immagine: che rischi corro se cambio la mia immagine? E se non lo faccio?

Non si può rispondere in termini generali a questa domanda, troppe variabili. Si può dire che il cambio d’immagine - fase sicuramente delicata - va vissuto come un’opportunità; non come minaccia. In rapporto a ciò, ecco che il non agire si traduce in un’occasione persa.

Rinnovare l’immagine: cosa deve coinvolgere il restyling dell’immagine? (es. logo, etichetta, packaging, etc)

Non solo ogni elemento della vestizione va ripensato, ma, quasi sempre, la fase di restyling va ben oltre la semplice vestizione ed esercita una funzione fortemente evolutiva anche verso l’identità e la comunicazione aziendale.

grappa Piave
Restyling Grappa Piave

Tra questi elementi oggetto del restyling, ve ne sono alcuni più importanti di altri o è bene lavorare su tutti?

Gli elementi coinvolti in un intervento di restyling hanno importanza di diverso grado; rimane però fondamentale agire su tutti gli elementi, anche quelli apparentemente meno significativi.

Il futuro del settore vino: nuove tendenze e best practice dall’Italia e dal mondo.

Convivono trend molto diversi tra loro e la creatività è davvero esplosa; il rischio maggiore consiste nella tendenza di molti produttori che scelgono di adottare un’estetica genericamente definita internazionale, rinunciando alla propria appartenenza culturale e territoriale.

Alanera
Packaging originale Alanera Zenato

Tips: quali sono i must e quali invece gli errori da non commettere?

Fra i must metterei la nostra straordinaria capacità di creare vini di grande personalità; l’attenzione verso l’ambiente (quindi verso le persone) sta elevando il nostro grado di civiltà oltre che di benessere.
Da evitare è qualsiasi tipo di imitazione, gustativa come stilistica; da evitare è la ripetizione di schemi comunicativi sfruttati. Come già accennato: da evitare è la rinuncia ai valori che ci caratterizzano sia sul piano culturale che produttivo.

Tag Brand, Interview, Packaging, Press

29 / 06 / 2015

Comunicare il vino: la visione globale di Giovanni Minetti.

Intervista a Giovanni Minetti: comunicare il vino from SGA Wine design on Vimeo.

Intervista a Giovanni Minetti, dottore agronomo specializzato in viticoltura ed enologia presso la Facoltà di Agraria dell’Università di Torino, ha iniziato la propria carriera come tecnico agricolo presso la Comunità montana Alta Langa. Dal 1979 ha lavorato come funzionario e poi dirigente presso la Regione Piemonte, all’assessorato Agricoltura e Foreste; dal 1992 al 1996, sempre per la Regione, ha ricoperto il ruolo di responsabile del comparto vitivinicolo. Dal 1982 al 1996 è stato direttore dell’Enoteca Regionale del Barolo. Poi per 17 anni direttore generale della storica casa vitivinicola Fontanafredda, in Serralunga d’Alba. Minetti è stato nominato presidente del Consorzio di Tutela del Barolo, Barbaresco, Alba, Langhe e Roero il 15 gennaio 2001, restando in carica per sei anni. Dopo la creazione e il lancio del progetto di internazionalizzazione “Nuovimondi” per l’associazione di produttori Vignaioli Piemontesi, è dal settembre 2014 amministratore delegato di Terre Miroglio, società che raggruppa la storica Tenuta Carretta, nell’area di produzione del Roero; l’azienda Malgrà, a Mombaruzzo, fedele interprete dei vini classici del Monferrato e la Edoardo Miroglio Wine-cellar, struttura produttiva che vanta oltre 150 ettari di vigneto in Tracia: un territorio antico che conta più di 5.000 vendemmie.

brand
Brand design

Quali sono state le tappe fondamentali del tuo percorso professionale?

Dopo il diploma di maturità classica, la laurea in Scienze Agrarie e la specializzazione in Viticoltura ed Enologia, la prima tappa fondamentale dal punto di vista professionale è stata l’aver vinto il concorso ed essere entrato nell’ambito della Regione Piemonte, prima come esperto e poi come dirigente all’Assessorato all’Agricoltura. La mia prima sede di lavoro è stata Cuneo, dopo pochi mesi sono stato trasferito ad Alba, in trincea, a contatto con i viticoltori, con i produttori: questo mi ha consentito di acquisire un’esperienza molto significativa di quello che era il mondo della vite e del vino nel Piemonte. Pochi anni dopo sono stato chiamato, in qualità di esperto della Regione Piemonte, ad occuparmi dell’Enoteca Regionale del Barolo, che ha sede nel Castello di Barolo: un’esperienza di vita, culturale e tecnica allo stesso tempo, che mi ha consentito di capire come fosse articolato il mondo del Barolo dalla parte dei produttori. Questa conoscenza è andata ancora più approfondendosi quando nel 1996 sono stato chiamato a ricoprire il ruolo di direttore generale di un’azienda come Fontanafredda, che ha costruito e rappresentato la storia del Barolo nel corso degli ultimi 150 anni. A questi passaggi fondamentali si sono alternate altre significative esperienze come giornalista e la conoscenza di Gino Veronelli, che mi ha consentito di capire l’importanza della critica nel mondo del vino e l’importanza dell’immagine dell’azienda di fronte al mercato. Queste pietre miliari segnano quello che è stato un percorso interessante, che sta proseguendo, durante il quale ho maturato una visione completa del vino dal punto di vista tecnico e legislativo, dal punto di vista della produzione, del mercato, del marketing, del commercio.

Le vigne
Packaging originale linea Le Vigne

Quali sono le differenze fra il modo di promuovere e comunicare il vino ieri, agli inizi della tua esperienza, e oggi?

Fino agli anni ‘80 era difficile trovare vino di grande qualità. Erano poche le aziende che puntavano alla qualità del prodotto, e solo pochissime si occupavano anche di come esso veniva presentato. Attualmente la situazione è completamente diversa, la qualità è diventata un prerequisito irrinunciabile, mentre a fare la differenza sono altri valori: il modo di presentare il vino, la vestizione, la scelta della bottiglia, il tappo, e tutto quanto contribuisce a costituire l’immagine del prodotto. Questo è il cambiamento più importante a cui si è assistito nel corso di questi ultimi 20 anni. Nel frattempo sono mutati anche i canali della comunicazione, i rapporti con la stampa, con il cliente stesso e con l’intermediario (agente, grossista, lo stesso ristoratore), che forse negli anni ‘80 era una figura più forte. Oggi il consumatore, favorito dai media e da Internet, cerca di by-passare questo canale, contattando direttamente il produttore. È chiaro che questo rapporto sempre più diretto apre degli interrogativi sulla funzione del trade: io sono convinto che dovrà evolversi nella direzione di un maggiore servizio al consumatore. Questa è la scommessa di oggi.

La Lepre
Packaging originale La Lepre

In riferimento a questo nuovo modo di comunicare al pubblico, esistono delle differenze, ancora oggi, fra le modalità adottate in ambito istituzionale e in quello privato?

A mio modo di vedere, il compito dell’istituzione deve essere quello di fare da catalizzatore tra la produzione e il mercato. Il ruolo che deve essere interpretato da un lato dall’ente pubblico, e dall’altro dall’ente sovra-aziendale (quindi le associazioni di tutela che si riconoscono nei consorzi), deve essere quello di facilitatore: l’istituzione dovrebbe mettere insieme le imprese e portarle a contatto col mercato, creando nello stesso tempo delle situazioni che invoglino il mercato ad incontrare le imprese.

Papagena
Restyling Papagena

Barolo: quali sono gli obiettivi e i contenuti che verranno messi a fuoco in futuro per quanto riguarda questo vino e questo territorio?

Il Barolo è un vino bandiera, simbolo indiscusso che ha trainato la crescita del proprio territorio. Resta aperta la questione dell’evoluzione della sua denominazione, anche se da questo punto di vista abbiamo tutto sommato già raggiunto una tappa significativa: dopo qualche decina d’anni di discussioni siamo riusciti a delimitare e identificare sul territorio le menzioni geografiche aggiuntive. Siamo riusciti a mappare il territorio d’origine del Barolo, dando un nome a ogni micro-area (i cosiddetti “cru”, o sottozone) e ponendo di fatto fine a una serie di rivendicazioni in etichetta in qualche caso veritiere, in altri casi probabilmente fasulle. Si tratta di un segnale preciso sia per il mercato che per la produzione: oggi ognuno può lavorare per valorizzare una serie ben definita di denominazioni di secondo livello nel mondo del Barolo. Ora la sfida passa al mercato, che come sempre farà giustizia: su 172 menzioni geografiche aggiuntive probabilmente ne riconoscerà una quarantina, mentre le altre saranno dimenticate. Però l’importante è che siano state definite e delimitate, in modo tale che d’ora in poi la situazione del Barolo, come quella del Barbaresco, sia ben chiara e non più modificabile.

Barolo
Packaging originale Barolo Riserva

Si parla di un nuovo progetto che prevede la creazione e il lancio di un nuovo marchio e la messa a punto di una strategia commerciale declinata soprattutto per il mercato estero, che interesserà alcune delle realtà più dinamiche del mondo Vignaioli Piemontesi. Puoi raccontarci di cosa si tratta?

È un progetto molto ambizioso, che riguarda soprattutto un’area del Piemonte (non solo l’area del Barolo) e ha lo scopo di unire sotto un marchio commerciale la produzione di alcune cantine cooperative e di alcune aziende agricole. Si tratta di partire dal vigneto, impartendo dei protocolli di vinificazione particolari, per ottenere un duplice risultato: innanzitutto una produzione qualitativamente superiore, e poi un sostegno concreto al mondo della cooperazione. Questi protocolli, ora in fase di elaborazione, saranno inizialmente destinati a una produzione limitata di bottiglie, ma abbiamo l’ambizione di pensare e di credere che verranno estesi a livello generale, in modo tale che tutte le aziende li facciano propri per produrre qualità. I protocolli in vigneto sono già una realtà, che negli ultimi anni si sta diffondendo in modo abbastanza importante; in cantina c’è ancora molto da migliorare, ma esistono già delle produzioni d’eccellenza ancora abbastanza nascoste, non conosciute dal consumatore. Uno degli scopi di questo marchio è proprio quello di portarle in evidenza e cercare per loro un mercato che sia in grado di riconoscere la qualità e remunerarla.

Moncucco
Packaging originale Moncucco

Quali sono i mercati più interessanti da raggiungere e per quali vini?

Il mercato che in questo momento sta dimostrando la maggiore vivacità è la Cina: qui le prospettive di crescita nei prossimi 10 anni sono enormi. È un mercato abbastanza sorprendente perché la Cina sostanzialmente non è un consumatore di vino: il vino in quest’area è ancora abbastanza sconosciuto, scelto soltanto per occasioni particolari. Per quanto riguarda il vino piemontese, la Cina ha almeno tre grossi interessi: il Barolo, vino celebre e dalla rinomata qualità, il Barbera (sia d’Alba che d’Asti), e i vini dolci (Moscato d’Asti e Brachetto d’Acqui), che si sposano magnificamente con la cucina della costa orientale. Barbera, Nebbiolo e Barolo sono invece preferiti nell’interno, perché si abbinano in modo straordinario alle caratteristiche di una cucina che privilegia sapori abbastanza forti. C’è un altro elemento particolare che connota la Cina come mercato sicuramente interessante, ed è il tannino: il tannino del Barolo, del Nebbiolo, del Dolcetto, è molto simile al tannino del tè. Quest’affinità culturale sta creando delle situazioni assolutamente inattese, e ci stiamo accorgendo che i cinesi si trovano “a casa” nel bere il vino, molto più di quanto avremmo potuto immaginare. La straordinaria potenzialità della Cina non ci deve però far dimenticare i paesi che sono tradizionali mercati dei nostri prodotti, con particolare attenzione al Nord Europa, aperto a tutte le proposte del Piemonte: dai vini più cari ai vini più economici, dai vini rossi ai vini bianchi, dai vini dolci agli spumanti dolci. La nota dolente, per quanto riguarda il successo del nostro vino nel mondo, è lo spumante secco: purtroppo non riusciamo a far decollare uno standard italiano, e questo continua a creare parecchi ostacoli al mercato del Metodo Classico, che globalmente è minimo e molto difficile.

Moscati
Packaging originale Moscato d’Asti e Le Fronde

In rapporto a questi mercati e alla loro grande diversità, la comunicazione cambia? E se cambia, in che modo?

La Cina ha delle preferenze molto chiare: sono ammessi alcuni colori e non altri; sono apprezzate le bottiglie che richiamano lo stile e l’eleganza italiani, ma nello stesso tempo piacciono quelle decorate con abbondanza di oro e punte di rosso (il vino in Cina è soprattutto un oggetto da regalo: più è ricca la bottiglia, più è alta la percezione del suo valore). Chi deve disegnare un’etichetta per la Cina si trova ad affrontare una sfida particolare, che richiede la conciliazione di elementi tra loro contrastanti. In altre zone del mondo è tutto più sfumato; normalmente sul mercato americano, scandinavo, tedesco, inglese, che rimangono i nostri interlocutori principali, vengono accettate l’immagine e la vestizione delle bottiglie proposte anche sul mercato italiano. Il Sud America resta invece un mercato abbastanza chiuso, a parte qualche breccia in Brasile: i nostri vini sono considerati troppo cari, e subiscono la concorrenza dei vini argentini, cileni e degli stessi vini brasiliani, che hanno prezzi molto bassi. È vero che il vino italiano ha dalla sua un’immagine unica: ormai il vino si vende sempre più come espressione territoriale e culturale, quindi come elemento che caratterizza uno stile di vita. È questo che per adesso ci consente di stare sul mercato nonostante i nostri prezzi non siano concorrenziali; d’altra parte, se accettassimo di sostenere una sfida basata soltanto sul prezzo, noi saremmo sempre perdenti perché il sud del mondo produce a costi dieci volte inferiori. Al contrario, ci stiamo imponendo e stiamo consolidando i nostri mercati di riferimento proprio grazie al fatto che siamo italiani, che siamo piemontesi, che veniamo dalle Langhe, e quindi siamo capaci di creare attorno alla bottiglia un alone che è rappresentato dal territorio e dal contesto culturale in cui i vini vengono prodotti. Io credo molto nell’incoming, credo molto nell’incrementarsi del fenomeno del turismo del vino. Il consumatore ormai non si fida più soltanto di quello che legge, o di quello che vede attraverso i media: vuole rendersi conto di persona, incontrare il produttore, parlargli, capire come vive, capire come lavora, capire il suo prodotto, farselo spiegare. Questo elemento fondamentale, a livello personale, mi ha convinto a fare un investimento in una rivista cartacea e online chiamata Wine Pass, che vuole porsi proprio come tramite per avvicinare il produttore al turista e al consumatore. Credo che questa sia la vera sfida oggi: in un’epoca dove tutto è digitale, il reale acquista un fascino nuovo e mostra la via per un modello di sviluppo che dovremmo assumere nel territorio delle Langhe e del Roero, ma anche in altri territori italiani. È imprescindibile, perché i costi per portare in giro per il mondo 3 o 4 bottiglie sono ormai diventati altissimi: bisogna quindi ragionare e attrezzarsi per un modo diverso di proporre i nostri prodotti.

Coste Rubin
Packaging originale Coste Rubín

Tag Intervista, Packaging

15 / 06 / 2015

Il futuro appartiene a coloro che credono nella bellezza dei propri sogni (Eleanor Roosevelt).

Al brand design, al packaging di prodotto e alla capacità di progettare e coordinare tutti gli elementi che concorrono alla comunicazione aziendale nel settore Wine, si aggiungono l’esperienza Food, le competenze in ambito pubblicitario, l’utilizzo dei nuovi media e la creazione di eventi.
Un team di professionisti che condividono non solo una nuova sede, ma un modus operandi e una precisa filosofia: secondo Heidegger il senso dell’esistenza risiede nella sua apertura al futuro, mentre Flaubert affermava che il fine dell’Arte consiste innanzitutto nella ricerca del Bello. Questi i valori cui facciamo costante riferimento nell’espressione della nostra progettualità.

L’elenco dei servizi che segue riflette questo approccio e visione comune:

· BRANDING
Analisi strategica · Brand architecture · Studio della brand · Brand manual · Immagine coordinata · Naming · Type design

Berlucchi Cuvèe Imperiale


· PACKAGING
Analisi, definizione e posizionamento del prodotto · Studio del packaging e secondary packaging

Zenato Alanera


· DESIGN
Progettazione di bottiglie · Special edition · Contenitori alimentari · POS material

Berlucchi cantinetta


· RESTYLING
Restyling di brand · Restyling di prodotto

Zenato restyling


· COMUNICAZIONE
Advertising · Editoria · Materiali promozionali · Ambient, guerrilla e viral marketing · Digital marketing · Ufficio stampa istituzionale, di prodotto, per eventi

Zenato adv


· WEB E APP
Siti web · E-commerce · Letteratura aziendale interattiva · App per IOS, Android, Cross platform HTML 5/CSS3 · App per Facebook

Berlucchi sito


· EVENTI
Istituzionali · Motivazionali · Format · Road show · Rassegne enogastronomiche

Berlucchi evento

Zenato evento


· SOCIAL MEDIA MARKETING
Creatività applicata ai Social Network · Creazione piani editoriali · Gestione operativa community · Monitoraggio, analisi del passaparola online e dei risultati raggiunti · Attività di digital PR · Formazione personalizzata e training


· STAND E STORE
Allestimenti temporanei e stand · Concept Store · Showroom · Corner

Berlucchi stand

Zenato evento mostra

www.noknok

www.sgawinedesign.it/sinergie

Tag Global design, Packaging

04 / 06 / 2015

Restyling René Briand: valorizzare l’autenticità.

Il nome prodotto è stato valorizzato grazie al disegno di un carattere più attuale, ricercato e al gioco di movimento fornito dalle discendenti delle due ‘R’ che ne accentuano la personalità.
L’idea di dividere l’etichetta in due elementi deriva, da un lato, dal desiderio di rendere ancora più fruibili alcune informazioni importanti sul prodotto, in particolare la sua origine italiana e, dall’altro, consente al colore del brandy di diventare parte integrante della vestizione. E’ possibile migliorare la percezione del contenitore in vetro in rapporto a come viene vestito, perciò SGA ha lavorato sulla fustella prima ancora di introdurre la grafica, determinando la percezione ottimale degli equilibri tra la forma del contenitore e la forma dell’etichetta. Il Brandy René Briand, nella sua nuova vestizione, risulta più riconoscibile, autentico, contemporaneo e attrattivo.

rene briand

Tag Packaging, Restyling

27 / 05 / 2015

Print Buyer: comunicare il vino tra design, cultura e creatività.

Il fascino accattivante di un vino (ma anche di uno spumante, uno champagne o di un whisky) non si limita al contenuto della bottiglia. Che, intendiamoci, è fondamentale per decretarne il successo commerciale, sia che si tratti di un prodotto low cost rivolto al mercato internazionale oppure appartenente alla prestigiosa famiglia delle grandi cantine italiane. Ma è altrettanto importante il suo vestito: la bottiglia, l’etichetta, la capsula e il packaging che possono accompagnarlo. Così, pur essendo sempre più attenti ai costi, sia che si tratti di una bottiglia da 30 euro sia di una da 3, i produttori di vini sanno che non possono rinunciare alla corporate identity della cantina, al design e a quella che più generalmente si chiama “comunicazione”, che poi finisce per sposarsi con la pubblicità.

Alois lageder
Packaging originale Alois Lageder

Come è cambiata e sta cambiando la tendenza della comunicazione nel mondo del “Wine & spirits”?
È ormai riconosciuta la necessità che attività e messaggi siano fra loro coerenti; così come tutti gli strumenti, tradizionali o innovativi, devono essere fra loro connessi, e integrati” esordisce Giacomo Bersanetti, 57 anni, alla guida del team SGA Corporate & packaging design di Bergamo. “Storia, territorio e metodologia produttiva rimangono fondamentali, ma il modo di esprimere questi valori è diventato molto più emozionale e coinvolgente; sempre più si creano occasioni di incontro volti ad una conoscenza ed esperienza diretta.

Quanto è importante vestire il prodotto: dalla bottiglia all’etichetta?
Ogni prodotto vinicolo ha una propria identità che si traduce in valore di unicità;  compito del packaging è renderlo visibile e percepibile attraverso un sistema di segni significativi. È il valore estetico del progetto che anticipa e comunica il valore e la personalità del contenuto. Inoltre, in ambito vinicolo, il packaging costituisce il principale veicolo dell’immagine aziendale rivelandosi quindi il maggior attore nella costruzione e diffusione dell’identità di marca. Tutto ciò vale sia per la bottiglia che per l’etichetta che non di rado diventano la vera e propria brand di un’azienda.

Gaja
Packaging, secondary packaging e brochure Gaja

Quali sono i trend attuali dal punto di vista delle forme delle bottiglie?
Convivono trend diversi: catturano l’attenzione i contenitori dalle proporzioni generose in controtendenza con la precedente, grande diffusione delle bottiglie slanciate. Prosegue da qualche anno, per vini bianchi e rosati, il successo della bottiglia trasparente e, in generale, vedo una maggiore attenzione per forme pulite con geometrie essenziali. Esistono moltissime forme di bottiglie, ma lo spazio per la sperimentazione è ancora molto ampio. In generale viene utilizzato il vetro cavo industriale mentre, per distillati dalla grande etichetta, si ricorre al vetro soffiato artigianale. Il cristallo invece non fa parte di questo mondo ma di quello degli accessori, a cominciare dai bicchieri fino ai decanter.

Quali sono i colori delle bottiglie più utilizzati?
Come dicevo, oggi si punta sulla trasparenza; vanno sempre di moda il classico verde scuro e il color quercia, ma si ricorre anche alla tipologia ‘gold’ capace di proteggere dai raggi ultravioletti il vino, ma anche di farlo ‘vedere’ o, riprendendo un tema caro a chi imbottiglia l’acqua minerale, anche il blu.

Arzente
La bottiglia originale Arzente di Bellavista

E sul fronte delle etichette, quali sono le scelte più richieste dal mercato?
In questo ambito la creatività è davvero esplosa. Noi per primi utilizziamo ogni possibile nuovo accorgimento tecnico e, per questa ragione, abbiamo un rapporto molto stretto e prezioso con tutte le aziende di stampa e nobilitazione con le quali ci confrontiamo costantemente, spesso mossi dalla ricerca di soluzioni innovative. Che vanno, per esempio, nella nobilitazione della bottiglia stampando direttamente sul vetro l’etichetta con rivestimenti serigrafici. In questi anni, poi, abbiamo assistito al sorpasso dell’etichetta autoadesiva rispetto alla classica carta e colla. Non costa meno ma è molto più duttile nelle fasi di pre e post-lavorazione. C’è poi una tendenza per i vini destinati all’esportazione di omologare bottiglia ed etichetta, dall’Italia al Sud Africa all’Australia, verso uno stile post moderno, informale, semplice. Un’omologazione a scapito, purtroppo, della riconoscibilità territoriale del prodotto.

Che tipo di stampa per le etichette viene preferita?
Ogni tecnica di stampa ha caratteristiche proprie e conduce a un risultato diverso: avvicinare serigrafia con flexo, offset con lamina a caldo, supporti e trattamenti di nobilitazione diversi è un po’ come intrecciare secondo tempi e modalità precise, le voci e i timbri di strumenti musicali differenti in una composizione armonica. Le etichette devono rispondere a un senso al contempo di freschezza e vivacità, con la ricerca di nuovi colori e superfici grazie a verniciature sovrastampate sulla lamina o con goffrature.

Berlucchi bancone
Packaging, secondary packaging e bancone bar Berlucchi ‘61

Quali sono i veicoli che comunicano l’essenza del vino anche a livello di concept store e imballaggio?
L’essenza del vino è un fatto culturale e psicologico, per questo utilizziamo da sempre elementi capaci di produrre evocazioni e suggestioni che entrano in risonanza con la nostra sensibilità per suscitare emozioni. Pensiamo per esempio al nome ‘Saten’ da noi individuato per la nota tipologia di Franciacorta, o ad un segno primario estremamente riconoscibile e memorizzabile come nelle etichette di Ca’Marcanda, o ancora alla forma della bottiglia di Villa Sparina… Lo studio del secondari pack è diventato importante quanto il progetto del packaging primario e spesso ne costituisce un’amplificazione; così come l’allestimento di corner o la brandizzazione di locali o eventi. Il packaging può essere classico con la cassetta in legno, utilizzando, come abbiamo fatto per una grande azienda, pannelli di medium density che ci hanno permesso di contenere i costi, attribuendo distintività e rispetto per l’ambiente, richieste primarie da parte di tutte le aziende. Ma si utilizzano, oltre al metallo, anche i materiali plastici che vengono usati per le etichette, mi riferisco in particolare a quelle di spumanti o champagne, che vengono serviti nei secchielli e quindi devono resistere ad acqua e ghiaccio.

Quanto conta il richiamo ai fattori ambientali, dalla cassetta di legno alla semplicità della bottiglia. Quindi il ruolo del vetro materiale riciclabile?
Conta sempre di più; diversi progetti recenti sono nati dall’esigenza di ottimizzare sia la produzione di un contenitore, sia assicurare una più agevole gestione nelle diverse fasi produttive e, naturalmente, rispondere a precise esigenze di distintività, riconoscibilità ed eleganza.

Quanto è importante la comunicazione stampata che accompagna il mondo del vino: brochure, cataloghi…
Questo tipo di comunicazione mantiene un ruolo significativo, soprattutto in rapporto a prodotti di alto livello (limited edition) e a comunicazioni istituzionali, anche perché entra in contatto con l’appassionato; il quale, oltre ai contenuti informativi, può essere colpito e gratificato da elementi sensibili, come il colore e la caratteristica tattile di una carta o la ricchezza di una nobilitazione e molte altre soluzioni estetiche che attraverso un monitor o l’informazione online non sono percepibili.

le sincette
Sito web Le Sincette

I nuovi strumenti di comunicazione digitale, dai social network ai siti, sono strumenti imprescindibili che ci permettono di amplificare il nostro potenziale comunicativo e di stabilire un dialogo diretto con un numero di persone molto più alto rispetto alla comunicazione stampata; in entrambi i casi, la qualità dei contenuti rimane decisiva. Non sempre è possibile visitare un’azienda e conoscerne da vicino i prodotti; siti e social si integrano perfettamente per rendere l’esperienza conoscitiva, a distanza, sempre più completa.

Tag Intervista, Packaging, Press

14 / 05 / 2015

Emilio Pedron: fedeli a noi stessi, senza stereotipi.

Intervista a Emilio Pedron: fedeli a noi stessi, senza stereotipi from SGA Wine design on Vimeo.

Amministratore delegato di Bertani Domains, Emilio Pedron è nato a Cles, in Val di Non, nel 1945. Dopo aver conseguito il diploma di enotecnico presso l’Istituto Agrario di S. Michele all’Adige, è passato dal Trentino alla Valtellina, dove ha ricoperto il ruolo di direttore presso la Cantina Nino Negri. La sua carriera è proseguita durante gli anni ‘80 in Veneto presso le Cantine Lamberti e poi presso il Gruppo Italiano Vini, di cui è diventato AD nel 1996, mantenendo la carica fino al 2010. Dal 2003 al 2009, Pedron è stato presidente del Consorzio di Tutela dei Vini Valpolicella, dove ha attivamente lavorato per l’ottenimento della Docg per l’Amarone.

Bertani secco
Special edition

Dott. Pedron, com’è cominciato il suo percorso nel mondo del vino?

Vivo in questo mondo praticamente da sempre: mio padre aveva una piccola cantina nel Trentino, per cui ho respirato la vigna e il vino fin dalla nascita. La mia crescita professionale, che mi ha portato in varie regioni d’Italia, è stata anche una crescita qualitativa: partendo da una piccola cantina sono arrivato a dirigere un gruppo importante, forse il più importante gruppo di cantine italiane.

In base alla sua esperienza, com’è cambiata nel tempo la percezione dei vini prodotti dall’azienda Bertani da parte dei consumatori, e come si è evoluta la loro comunicazione?

Ritengo che Bertani sia un caso veramente eccezionale e atipico: è un marchio nato all’insegna della qualità, con uno stile particolare e riconoscibile che tendenzialmente si è mantenuto. Non solo l’azienda è stata in grado di mantenerlo: abbiamo dei consumatori che riconoscono e vogliono questo stile. Questo è il nostro grande valore e, se vogliamo, anche il nostro piccolo handicap: siamo talmente connotati presso i nostri estimatori che riusciamo con fatica a trovarne di nuovi tra i più giovani. L’attaccamento e la fedeltà dei nostri consumatori resta comunque uno dei nostri più grandi vantaggi: guai se cambiamo.

Bertani amarone
Special edition

In una recente intervista, Lei ha criticato l’eccessiva importanza che i produttori danno al prezzo come leva di marketing; crede che la comunicazione e il packaging del vino siano caratteristiche fondamentali per promuovere i valori e i significati impliciti del prodotto? La vestizione di un vino può influenzare la percezione della sua qualità?

Io ritengo che il vino italiano abbia una storia abbastanza breve sul mercato mondiale, essendo di recente introduzione in rapporto alla secolare presenza di quello francese. Perciò contiamo su una tradizione, una storia e una capacità di stare sui mercati meno sofisticate. È per questo motivo che molti produttori sanno usare solo il prezzo come elemento di competizione; ma è una leva di marketing molto difficile, molto pericolosa, perché comunque tendenzialmente genera una gara al ribasso. Il prezzo medio del vino italiano venduto all’estero è inferiore alla metà di quello del vino francese, e questo la dice lunga.
Dovremmo imparare, invece, a distinguerci, e fare concorrenza sul nostro valore aggiunto, non sulla diminuzione del prezzo. Fra gli elementi su cui puntare per creare valore aggiunto, oltre alla qualità insita del prodotto, deve esserci sicuramente la capacità di usare la comunicazione in maniera moderna e articolata.

Bertani Villa Novare
Packaging design

Quali sono oggi per Bertani i mercati più interessanti, e per quali vini?

Proprio in base alle caratteristiche dell’intera produzione aziendale, i mercati più interessanti per il marchio sono i mercati più maturi: l’Italia, gli Stati Uniti, il Canada, l’Inghilterra, la Germania. E poi moltissimi altri mercati più recenti, come il Giappone, la Russia, i paesi dell’ex Unione Sovietica.
In ogni caso, ovunque nel mondo, noi restiamo ancorati a un consumatore conoscitore del vino ed estimatore del nostro stile, capace di valutare la nostra qualità. Pertanto dobbiamo lavorare molto per mantenere questa nostra immagine e non tradire mai il consumatore attuale.

Considerando la sua importante opera svolta per il Consorzio Valpolicella, quali sono gli strumenti che un territorio può utilizzare per promuovere se stesso e come le diverse aziende possono fare sistema, per competere sui mercati internazionali?

Questa è una questione di grande interesse; “Valpolicella” è un marchio collettivo, un marchio che appartiene a molte persone e a un vasto territorio. In generale, la difficoltà di gestione dei marchi collettivi sta nel dover tenere conto del comportamento di tante persone e di tante aziende.
Io ritengo che per portare avanti la valorizzazione dei marchi collettivi, e quindi anche del Valpolicella, siano due gli elementi chiave: uno è mantenere la bellezza del territorio, custodirne i valori storici e le tradizioni, e trasmetterne la qualità nel suo insieme, non solo relativamente alla produzione del vino, ma anche rispetto all’intera produzione agricola, all’offerta turistica, all’ospitalità. L’altro elemento chiave è il comportamento dei produttori e di tutti gli attori coinvolti nella produzione, in questo caso del Valpolicella. Un comportamento che dovrebbe essere il più possibile coeso e mirato a obiettivi comuni. Questa è la cosa più difficile, perché spesso i produttori sono molto diversi tra loro: grandi, piccoli, con una lunga storia o esordienti. Ognuno la pensa in modo diverso e si comporta in modo diverso. Questo è il grande distinguo fra il territorio italiano e il territorio francese: contrariamente a noi, che siamo molto più individualisti, in Francia tutti sono abituati a perseguire le stesse qualità, gli stessi obiettivi.
Il territorio del Valpolicella e dell’Amarone ha rappresentato negli ultimi vent’anni un caso di grande successo, e quindi oggi è forse più minacciato di altri, perché proprio dal successo deriva ancora più autonomia di comportamento fra gli operatori vitivinicoli.

Bertani valpolicella
Packaging design

Come dovrebbe cambiare, a suo parere, la comunicazione del vino in rapporto ai mercati, tenendo conto delle loro profonde diversità?

Io credo che chi vuole stare al passo, oggi, debba sviluppare il proprio saper fare in due filoni principali. Uno è il prodotto, che deve essere innovativo e allo stesso tempo capace di rappresentare fedelmente il territorio. L’altro è la conoscenza dei mercati. Spesso gli operatori vinicoli si dedicano solo all’uno o all’altro aspetto, mentre mettere insieme questi due elementi rappresenta, secondo me, il vero fattore di successo.
Dobbiamo saper innovare i nostri prodotti, mantenendone sempre l’aderenza alle caratteristiche del territorio in cui nascono e valorizzandone le radici, che spesso sono veramente antiche. D’altra parte dobbiamo conoscere i mercati a cui ci rivolgiamo: prima di tutto la distribuzione, ma anche le abitudini di consumo. Infine, molti sostengono erroneamente che dobbiamo produrre per il mercato. È sbagliato, perché nel nostro caso dovremmo adattare il nostro vino tipico al mercato cui ci rivolgiamo, e così facendo perderemmo la nostra capacità distintiva, i tratti che caratterizzano i prodotti italiani di qualità nel loro insieme. Tuttavia sarebbe altrettanto sbagliato produrre il nostro vino, dal Valpolicella all’Amarone, senza conoscere il consumatore o il mercato cui facciamo riferimento. Mettendo insieme questi due aspetti possiamo sviluppare nel modo più consono al prodotto e al mercato tutti gli elementi di marketing: il posizionamento di prezzo, la confezione e la presentazione del prodotto, la comunicazione.
Non dimentichiamoci che oggi, dal punto di vista della comunicazione, è basilare il comportamento del produttore. Con l’avvento di Internet e delle nuove tecnologie, i nuovi consumatori spesso conoscono i vini leggendone la storia online, invece che degustandoli. Allora la capacità del produttore di presentare se stesso, di raccontare una storia e di essere credibile, diventa fondamentale quanto avere un prodotto di qualità da poter far assaggiare.

Lei ha sempre avuto una visione molto ampia del mondo del vino italiano, prima con Gruppo Italiano Vini e ora con Bertani Domaines. Quali crede che siano i migliori strumenti per affrontare la situazione attuale e gli scenari che potrebbero presentarsi in futuro?

Oggi dobbiamo essere capaci di innovare e di rinnovarci all’interno delle nostre tradizioni. Mai tradire le tradizioni, mai tradire il territorio: dobbiamo rimanere fedeli a noi stessi. Però, all’interno della nostra tradizione, della nostra storia e della nostra cultura vitivinicola, dobbiamo anche poter dire e fare cose nuove. Credo che il mondo del vino di qualità abbia ormai maturato il suo modo di presentarsi e di raccontarsi e abbia bisogno di novità.
Il vino di qualità, in Italia, è nato venti, trent’anni fa; da allora il nostro racconto della vigna e della cantina è diventato quasi uno stereotipo comune, tutti diciamo le stesse cose. Non possiamo continuamente parlare di tante viti per ettaro, bassa produzione per ceppo, pressatura soffice, lieviti indigeni, ormai storielle ripetitive. C’è bisogno di novità, soprattutto c’è bisogno che ci rivolgiamo al nuovo consumatore con un linguaggio diverso, degli aggettivi diversi, per raccontare le nostre storie e le qualità del nostro vino. È necessario capire che ci rivolgiamo a consumatori nuovi e più giovani d’età, che quindi hanno una percezione diversa dei valori rispetto a quanto avveniva in passato.


Special edition

 

Tag Intervista, Packaging, Video

30 / 04 / 2015

Internazionalizzare: più facile con i fondi europei.

Finanziamenti e contributi destinati alle imprese vitivinicole per gli investimenti strutturali e per promuovere i propri prodotti fuori dall’Unione Europea. Una risorsa fondamentale oggi che l’internazionalizzazione pone una sfida cruciale alle aziende che intendono crescere e competere nei nuovi scenari creati dalla globalizzazione. LC International di Bergamo aiuta le aziende agricole (soprattutto vitivinicole) a sfruttare i fondi europei per sbarcare sui mercati dei Paesi terzi. Ce ne parla Leonardo Morosini, socio fondatore dell’azienda insieme a Cristina Scarpellini, giurista con particolare esperienza nel processo di internazionalizzazione delle PMI.
Morosini, proveniente da una famiglia lombarda impegnata da oltre un secolo nel settore Food&Wine, ci parla dell’OCM Vino, la regolamentazione unica dell’Unione Europea che disciplina il settore vitivinicolo sia per quanto riguarda le norme di produzione che i contributi a fondo perduto assegnati alle aziende del settore.

Bertani 50
Bertani

L’OCM Vino prevede due tipi di contributi per le aziende: la misura investimenti, che consente di ottenere contributi a fondo perduto per il reimpianto dei vigneti, la ristrutturazione e l’ampliamento delle cantine e l’acquisto di nuove attrezzature, e il bando Paesi Terzi, che permette di finanziare con un contributo a fondo perduto tutti i costi da sostenere per promuovere i propri prodotti fuori dall’Unione Europea. Quest’ultimo bando, in particolare, è prossimo alla sua uscita annuale, prevista per il mese di aprile con importanti novità. Può darci qualche dettaglio?

L’OCM Vino Paesi Terzi permette alle aziende vitivinicole di promuovere i propri vini sui mercati extra UE, grazie a contributi a fondo perduto erogati dall’Unione Europea. Per poter ricevere questo tipo di finanziamento è necessario partecipare al bando pubblicato annualmente sul sito del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali (MIPAAF), in cui è contenuto l’invito a presentare un progetto di promozione sui mercati obiettivo e le linee guida da seguire nella stesura dello stesso.
Le aziende possono presentare domanda singolarmente oppure riunendosi in Associazioni Temporanee d’Impresa (ATI), o ancora in Consorzi. Questa misura permette alle aziende di ottenere un finanziamento pari al 50% del costo totale del progetto per azioni promozionali sui mercati di riferimento prescelti, quali ad esempio: degustazioni (wine tasting o marketplace), partecipazione a manifestazioni fieristiche di importanza internazionale, attività di pubbliche relazioni, produzione di materiale informativo e merchandising, attività di media advertising, incoming (incontri con operatori del settore presso le zone di produzione) e viaggi. Le singole regioni, poi, possono autonomamente decidere di integrare questo contributo del 50% con una propria quota (al massimo il 30%), arrivando così a raggiungere un contributo dell’80% sul costo totale del progetto. Il bando solitamente viene aperto a maggio, con la pubblicazione ufficiale sul sito del Ministero; ad esso ciascuna regione fa poi riferimento per pubblicare il proprio con specifici parametri di graduatoria e le scadenze ultime per la presentazione dei progetti.
Una delle novità di quest’anno è che il bando dovrebbe essere pubblicato un po’ prima rispetto agli altri anni, entro metà maggio; inoltre, l’annualità 2015/2016 dovrebbe essere l’ultima in cui si potranno presentare progetti multi regionali. Infatti, solitamente i progetti si dividono in: regionali, volti alla promozione dei vini di una regione specifica, multi regionali (minimo 2 regioni partecipanti) e nazionali (minimo 3 regioni partecipanti).


Guido Berlucchi

C’è qualche progetto realizzato grazie a queste forme di finanziamento di cui ci può parlare?

Come accennato poco fa, grazie ai bandi OCM non solo è possibile ottenere finanziamenti per attività quali degustazioni e manifestazioni fieristiche, ma anche per la realizzazione di materiale promozionale e attività di media advertising (ideazione di siti web, video promozionali…) utili a coadiuvare l’attività di promozione sul Paese di riferimento. Tutti i materiali prodotti, sia cartacei che online, quali volantini, brochure illustrative, siti web, banner promozionali, devono obbligatoriamente recare una dicitura in doppia lingua, in cui è contenuto il numero del regolamento europeo di riferimento e le due bandierine italiana ed europea.
Il regolamento OCM prevede che per la realizzazione di tale materiale venga preventivamente richiesto il nulla osta tramite il portale online del MIPAAF; una volta ottenuto, è possibile procedere con la produzione.
Possiamo portare ad esempio l’attività di Tenuta Vinea: grazie alla partecipazione ai bandi OCM, e in particolare a un progetto multi regionale (Lombardia e Piemonte) dal titolo “The Trilogy of Excellence”, ha deciso di cogliere l’occasione per rinnovare il proprio brand e sfruttare i finanziamenti OCM per consolidarlo sui mercati target, dove tra l’altro è già operativa.
Nello specifico, grazie anche all’aiuto di SGA e NokNok, Tenuta Vinea sta realizzando un sito web tutto nuovo che, una volta ricevuto da parte del Ministero il nulla osta cui ho accennato prima, verrà messo on line per i Paesi di riferimento del progetto. Questo tipo di attività è particolarmente utile per diffondere e sviluppare un determinato brand nei mercati di riferimento, in quanto un sito web ha un bacino di utenza potenzialmente infinito; ovviamente, poi, grazie ai finanziamenti sarà necessario supportare questo tipo di azione anche con attività in loco utili a consolidare il brand, sia presso coloro che già conoscono il marchio, ma anche verso chi lo scopre per la prima volta, sviluppando e rafforzando la presenza dello stesso nei Paesi oggetto della promozione.
L’azienda, dovendo produrre questo nuovo materiale promozionale, ha approfittato per rinnovare anche fisicamente i suoi prodotti, nel formato della bottiglia e nel packaging. Tutti accorgimenti che, nel loro piccolo, sono fondamentali per il risultato complessivo e sono stati possibili grazie all’incipit del progetto OCM.

Tenuta Vinea
Tenuta Vinea

Ritiene che in generale le aziende vitivinicole italiane siano a conoscenza di queste opportunità di finanziamento? È difficile avervi accesso?

Negli ultimi anni, si sta facendo un grande lavoro di comunicazione/informazione a tal fine. Questo è proprio uno dei servizi di LC International: informare le aziende vitivinicole sulle varie opportunità messe a disposizione dal Ministero (grazie ai bandi europei) di promuovere i propri prodotti attraverso contributi a fondo perduto, ed offrire loro un aiuto per accedervi.
Purtroppo in Italia questi bandi spesso non vengono sfruttati appieno. Il motivo è da ricondurre principalmente ad un fattore culturale. Fino a qualche anno fa tra i viticoltori la parola internazionalizzazione (e tutto ciò che essa comportava, bandi compresi) era vista con sospetto, considerata sinonimo di perdita della propria identità e della propria cultura.


Barone Pizzini

È solo negli ultimi anni che le cantine hanno iniziato ad allargare i loro orizzonti e ad aprire le loro menti, capendo che, se supportate dai giusti mezzi, varcare i confini nazionali e spingersi in mercati lontani non può essere altro che un’opportunità da cogliere al volo, per farsi conoscere ad un pubblico più vasto, senza snaturalizzare il proprio prodotto.
L’accesso a tali contributi non è difficile e ancor più facile se fatto unendosi con altre aziende (le ATI e i Consorzi citati prima), in modo da avere un certo peso (dal punto di vista finanziario e d’immagine) una volta arrivati sul mercato del Paese Terzo.
La parte più “onerosa”, in termini di tempo, è quella iniziale. In questa fase, bisogna stilare un progetto, preparare la documentazione finanziaria e amministrativa e stabilire i budget (nel rispetto di una serie di massimali) che si intendono investire nei vari Paesi scelti come destinazione dell’attività promozionale.
Una volta ottenuta l’approvazione del progetto, si sviluppano le varie azioni programmate, comunicando trimestralmente/semestralmente le varie attività da svolgere.
Sia nella prima fase (burocratica) sia nella seconda fase (di sviluppo vero e proprio del progetto approvato), LC International ha proprio la funzione di aiutare le aziende partecipanti, alleggerendole di una serie di compiti, quali: la stesura del progetto, l’invio della documentazione al Ministero, alla regione/i di riferimento e ad AGEA, la stesura periodica dei calendari delle attività da svolgere, il controllo della parte contabile (pagamenti e correttezza della fatture).
Insomma, l’acceso a questi contributi, grazie anche all’aiuto di LC International, diventa assolutamente facile.

Carpenè_malvolti_secondary_packaging
Carpené Malvolti

http://lcinternational.it

Tag Intervista, Press

10 / 04 / 2015

Stora Enso blog: vino spumante in armonia con la natura.

Tag Packaging, Press

24 / 03 / 2015

Design Tribune Magazine: Packaging is a super media.

Il vino è un prodotto sicuramente legato al fattore tempo. Come e quanto incide questa caratteristica nelle strategie di branding e d’immagine?

È vero, il fattore tempo incide moltissimo, “Come e quanto” dipende da numerosi aspetti, sia culturali che produttivi: per esempio la chiarezza, la completezza e la profondità della vision aziendale; ma anche aspetti tecnici come la maturazione di un vino, possono condizionare l’evoluzione e il lancio di un nuovo progetto.  Il tempo è determinante anche nella fase progettuale sia per quanto riguarda la sua dinamica, sia perché tendiamo ad attribuire ai progetti un elevato potenziale di vita, indispensabile allo sviluppo e al consolidamento di un’identità aziendale o di prodotto.

design 1
Riserva Franco Ziliani Berlucchi, Edizione speciale

Ci racconta il più recente dei suoi lavori?

Il progetto per il vino Alanera dell’azienda Zenato, pensato per gli Usa, è stato sviluppato in un periodo di tempo contenuto, grazie a un dialogo tra i diversi interlocutori molto serrato. Fra gli obbiettivi: sviluppare un packaging che fosse accattivante per lo scaffale e premium per la ristorazione; capace di veicolare i valori in cui l’azienda si riconosce e di dialogare con un pubblico di estimatori molto eterogeneo; il progetto è iniziato con l’individuazione di un nome incisivo e memorizzabile, che esprimesse riconducibilità alle tipologie di uve utilizzate, che fosse evocativo del territorio di origine e che comunicasse spiccata personalità ed eleganza. La vestizione, dalla scelta della bottiglia all’etichetta, oltre a rispondere agli stessi obbiettivi, risulta distintiva e di forte impatto.

design 2
Il progetto Alanera di Zenato

Il suo studio si occupa ampiamente di branding ma anche di packaging del vino, dalla bottiglia ai suoi accessori, alle confezioni e agli imballi. Qual’è il progetto che ritiene più completo?

Sono numerosi i progetti in cui ci muoviamo fra diversi ambiti della comunicazione: fra i più completi quello per l’azienda Guido Berlucchi, un rapporto di collaborazione iniziato nel 2006, per la quale abbiamo sviluppato progetti di stand e di comunicazione tradizionale (editoria e Adv), brand restyling e architecture, sito internet ed eventi, packaging, bottle design, secondary packaging e limited edition.
Per rimanere in tema, abbiamo studiato i vari elementi necessari sia all’allestimento, che all’arredo di temporary corner per la brandizzazione di attività specifiche sia out che indoor.

design 3
Il progetto Berlucchi ‘61 (brand, packaging, secondary packaging, secchiello e bancone bar)

Sostenibilità e temporaneità sono due valori spesso in contrasto tra loro. Come affronta questo problema nei suoi progetti?

Noi tendiamo a proporre l’utilizzo di materiali che rispettano i criteri più recenti in termini di salvaguardia ambientale; in secondo luogo è molto importante ottimizzarne l’uso al fine di evitare sprechi; non promuoviamo l’assemblaggio di materiali o componenti la cui unione comprometterebbe la riciclabilità, la riduzione del peso delle bottiglie, ma anche preoccuparsi, per esempio, di ridurre la durata delle fasi di confezionamento va nella direzione della sostenibilità.

design 4
Il progetto Ca’ Marcanda di Gaja

A proposito di temporaneità come è il vino quest’anno?

Difficile rispondere in termini generali. È stata una vendemmia molto sofferta; sono certo che i produttori non abbiano subito le condizioni metereologiche negative e ritengo abbiano interpretato la particolarità di questo raccolto proponendosi un obbiettivo - comunque - di alto livello qualitativo.
A fronte di una quantità inferiore penso avremo vini molto interessanti, anche se diversi dalle annate più recenti e forse, proprio per questo, sorprendenti.

design 5
Il sito web Berlucchi

Tag Global design, Intervista, Packaging, Press

05 / 02 / 2015

Alois Lageder: l’arte del vino

Intervista ad Alois Lageder: l’arte del vino from SGA Wine design on Vimeo.

Alois Lageder ha assunto la direzione dell’azienda, le cui radici risalgono al 1823, a metà degli anni Settanta; con l’aiuto della sorella Wendelgard e del cognato Luis von Dellemann, si è impegnato da subito a darle un volto diverso e una nuova posizione sul mercato. Convinto che la sua terra avesse un potenziale vinicolo ancora largamente inespresso, ha scelto la strada della qualità, acquistando nuovi appezzamenti e puntando su metodi innovativi sia nel vigneto che in cantina. Così sono nati prodotti come l’uvaggio rosso Cor Römigberg o il Löwengang Chardonnay, che hanno segnato un vero cambio di stile nel panorama vinicolo altoatesino.
Alois Lageder ha acquistato nel 1991 la Tenuta Hirschprunn, (30 ettari di vigneti e un palazzo rinascimentale), che si è così aggiunta alla Tenuta Löwengang a Magrè, nel lembo più meridionale della provincia, una tenuta con vigneti eccellenti e posizioni ideali per produrre grandi vini bianchi e vini rossi di gran corpo, come il Cabernet e il Merlot. Sempre a Magrè, nel 1995 Alois Lageder ha costruito una nuova cantina, esempio di alta tecnologia e di architettura sostenibile ed ecologica. Dai primi anni Novanta, l’azienda ha imboccato un cammino innovativo convertendo i propri vigneti gradualmente alla coltivazione biologico-dinamica.
Fedele all’approccio olistico che permea la sua filosofia d’impresa, con l’aiuto della moglie Veronika Riz, coreografa di teatro danza, e dei tre figli, Alois Lageder è promotore di iniziative legate all’arte e alla musica contemporanea all’interno dell’azienda.

Al gruppo 3
Packaging originale della linea Classici

Da oltre 150 anni profondamente radicata nel proprio territorio, è un’azienda capace di coniugare tradizione e innovazione. Uso della tecnologia più avanzata e rispetto dei criteri di sostenibilità; produzione e salvaguardia dell’ambiente: qual è il segreto per armonizzare esigenze tanto diverse?

Forse al primo impatto sembrano degli aspetti molto diversi, ma non è così. La mia esperienza mi ha insegnato che più ci siamo evoluti, più ci siamo spostati in direzioni sbagliate. Perciò innovare, oggi, vuol dire spesso tornare al passato.
Per 10 mila anni l’uomo ha coltivato la terra usando metodi in sintonia con la natura; negli ultimi 150 anni invece, con l’industrializzazione e la razionalizzazione del lavoro, secondo il mio punto di vista, si è presa una direzione sbagliata. La biodinamica ci insegna a ritornare alla base, a ritrovare il legame con la natura e a seguire le orme dei nostri avi, anche se con un approccio diverso e più efficace. Nel nostro caso, abbiamo cercato di rispettare la tradizione, ma senza fermarci al passato, prendendolo invece come punto di partenza e come base per evolverci.

Infatti il marchio Alois Lageder è oggi sinonimo di attività vitivinicola biodinamica e di approccio olistico e sostenibile: come vengono comunicati questi valori al consumatore?

Negli ultimi anni abbiamo cercato di comunicare le nostre esperienze nel mondo della biodinamica attraverso attività in loco e attraverso l’abbigliaggio della bottiglia. Abbiamo scelto di associarci a una delle istituzioni che seguono la biodinamica, Demeter, attiva sin dal 1928, cioè quattro anni dopo le lezioni di Rudolf Steiner sull’agricoltura biodinamica. Per l’importanza che attribuiamo alla trasparenza, abbiamo deciso di mettere questo marchio in evidenza sulla bottiglia: nel momento in cui “bio” è diventato un fatto di moda (e tanti si danno per bio ma non lo sono) sono convinto sia necessario dare al consumatore una garanzia, informandolo del lavoro e del controllo molto serio che si cela dietro questa certificazione. Per quanto riguarda la sostenibilità, è un concetto complesso, difficile da comunicare: per questo motivo abbiamo sempre cercato di portare in azienda più clienti possibili, per far toccare loro con mano la nostra realtà.

Al gruppo 1
Linea Masi

Bioarchitettura: anche la cantina all’interno della storica tenuta Löwengang è il risultato della volontà di dare un’unica risposta alle istanze della salvaguardia ambientale e dell’efficienza nella produzione. Quali principi hanno ispirato la sua progettazione?

Il primo progetto della cantina, che risale al ’92, non prevedeva un’attenzione particolare alla sostenibilità, che allora non era un argomento così sentito. In quel periodo però incontrai per altri motivi una persona, iniziatore dell’Ecoistituto dell’Alto Adige, a cui parlai dell’idea di costruire una nuova cantina: fu lui a sollecitarmi, motivarmi e spingermi a integrare nel progetto tutti gli accorgimenti legati alla sua sostenibilità. Così abbiamo messo da parte il primo progetto e ne abbiamo approntato un secondo: alla base c’era il ragionamento che oggi la nostra società ha la responsabilità e l’obbligo di passare alla prossima generazione un mondo che abbia preservate ancora le stesse risorse.
Il progetto era fondato su tre pilastri, innanzitutto l’uso minimale di energia. Invece di sfruttare le energie fossili per produrre calore ci siamo orientati alle energie rinnovabili (acqua, sole e biotermia). Il secondo importante obiettivo era quello di creare un ambiente bello e salutare per coloro che avrebbero lavorato in cantina, ma anche per il vino, che è un prodotto molto sensibile agli influssi esterni. Perciò abbiamo eliminato le possibili fonti di elettrosmog, puntando sull’uso di prodotti bioedili e sullo sfruttamento della termica per arieggiare gli ambienti. Il terzo intento del progetto, forse il più importante di tutti, era quello di ottenere una lavorazione dell’uva molto soffice e gentile. Perciò è stata costruita una torre di vinificazione rotonda, profonda 17 metri, dal cui punto più alto viene scaricata l’uva; a caduta, essa viene trasportata nelle varie fasi della lavorazione senza bisogno di movimento meccanico. In questo modo riusciamo a mantenere tutta la qualità che nasce in vigna: in cantina, infatti, non abbiamo la possibilità di costruire qualità, possiamo solo lavorare delicatamente l´uva ed affinare il vino per preservarla. Sempre a questo scopo abbiamo introdotto il concetto del cerchio: i vasi vinari sono posizionati in cerchio intorno al punto dove scende l’uva, al fine di minimizzare le distanze ed evitare l’uso di pompe o mezzi meccanici di trasporto.

AL gruppo 2
Packaging originale della linea Terroir

Coerentemente con l’approccio olistico che permea la filosofia d’impresa, anche l’arte e la musica contemporanea trovano ampio spazio in azienda. Quanto conta la ricerca artistica e la promozione culturale nella costruzione dell’identità aziendale e nella sua narrazione?

Inserire arte negli ambienti in cui viviamo e lavoriamo è stato prima di tutto un piacere personale, mio e di mia moglie, ma anche un modo per identificare l’azienda e le persone che vi lavorano. In particolare con la mia persona: il mio approccio olistico, la mia idea sulla sostenibilità, il mio amore per l’arte, sono argomenti che rivivono nell’azienda e messaggi che essa lancia verso l’esterno.
Negli anni ‘80, con pochi altri qui in Alto Adige, abbiamo preso la strada della qualità, riducendo le rese e cercando di valorizzare il prodotto. In questo modo abbiamo creato una forte immagine, marcando anche una grossa differenza rispetto alle altre aziende locali. Poi, negli anni ’90, tutti hanno sposato l’idea della qualità, perciò la percezione del nostro profilo, così come quello degli altri, è andata leggermente affievolendosi. Allora mi sono chiesto come potevamo distinguerci, visto che la qualità non era più l’unico parametro a fare la differenza: in quel momento è nata l’idea di dare all’azienda un’individualizzazione netta e precisa attraverso l’arte.

Degustazioni e concerti presso la Vineria Paradeis e Cason Hirschprunn; visite guidate alla cantina di vinificazione e ai vigneti. Quanto è importante oggi accogliere il consumatore?

Proprio per il fatto che il nostro obiettivo consiste nel portare più persone possibili qui a Magrè, dando loro l’opportunità di vivere e conoscere da vicino la nostra realtà, la Vineria Paradeis, il luogo dove accogliamo i nostri clienti e gli ospiti provenienti da tutto il mondo, è un biglietto da visita fondamentale, che mi impegno a seguire quotidianamente. Negli ultimi anni abbiamo cercato di migliorare la nostra proposta di ospitalità offrendo non solo la possibilità di visitare le cantine, ma anche i vigneti (dove possiamo spiegare e mostrare concretamente i concetti della biodinamica) e il parco, che è parte integrante della visione olistica cui si ispira la nostra azienda.

lowengang close up
Restyling Lowengang di Tenutae Lageder

È punto fermo nella filosofia aziendale che ogni vino sia ambasciatore del proprio luogo d’origine, e che ogni singolo vigneto abbia la propria tipicità. È possibile comunicare le differenze dei vari terroir attraverso la bottiglia?

Non è facile, però comunicare le nostre diversità attraverso la bottiglia e il suo abbigliaggio è un punto importante, al quale mi sono sempre dedicato personalmente. E nel nostro partner, abbiamo trovato un interlocutore molto attento e sensibile, che prima di tutto ha cercato di capire le nostre esigenze. Vista la grossa diversità di condizioni pedoclimatiche che esistono nelle varie zone dell’Alto Adige, abbiamo un assortimento molto vasto, perciò è molto complesso riuscire a comunicare nel modo giusto tutte queste particolarità. Io oggi sono molto contento della presentazione dell’azienda, proprio perché con i nostri partner siamo riusciti a creare delle etichette molto individuali e diverse tra loro; è stata bellissima anche un’iniziativa svolta ormai dieci anni fa, che ha previsto l’intervento di artisti che hanno realizzato le etichette della linea dei Monovitigni. Perciò credo che attraverso queste etichette, se un consumatore tiene in mano la bottiglia, può vedere tante cose e capire la nostra filosofia, il nostro modo di operare.

Al cassa rarum
Cassa legno Rarum

E siamo all’ultima domanda: come abbiamo detto, la vostra produzione, per tipologie e posizionamenti, è particolarmente ricca e diversificata. Com’è stato risolto questo elevato grado di complessità?

Proprio in questi giorni stiamo nuovamente discutendo di come suddividere con trasparenza il nostro assortimento così vasto, comprendente vini di diverse qualità.
Nel punto più alto della piramide ci sono i masi, i vini della tenuta Löwengang, della tenuta Hirschprunn, del maso Römigberg e così via, che ormai da tanti anni sono coltivati in modo biodinamico, in base all’idea dell’organismo vivente che è centrale nella filosofia di Rudolf Steiner. Ad ognuno di questi vini, i più importanti da un punto di vista qualitativo, abbiamo cercato di dare una grande individualità attraverso la bottiglia e l’etichetta, perché ogni maso è un’entità, ha una sua specificità dovuta al terreno, alla posizione, all’ambiente, alla presenza di animali e di altre piante.
Poi abbiamo un livello intermedio - riassunto nella categoria i Terroir - in cui si inseriscono vini provenienti da zone molto ristrette, masi, piccole regioni, o località che sono massima espressione del loro vitigno. Infine abbiamo i Classici (Monovitigni); sono vini caratteristici del territorio, di una buona qualità ma con un prezzo accettabile, da bere tutti i giorni.
Sempre con l’aiuto, il supporto e la consulenza dei nostri partner di Bergamo, siamo riusciti a dare ad ogni vino e linea un filo conduttore, e questo credo sia molto importante. Importante perché il consumatore deve capire che prodotto ha in mano, non solo per il prezzo, ma anche per la qualità che noi diamo ad ogni singolo vino.

global alois
Brochure e coordinati Alois Lageder

Tag Biodinamica, Brand, Global design, Intervista, Packaging, Video

01 / 12 / 2014

Rinnovarsi è un processo naturale

Ci sono momenti che segnano le tappe del proprio percorso evolutivo, passaggi importanti che sottolineano la propria crescita ed esprimono la volontà di ampliare i propri orizzonti.

SGA_team
Photo by Francesco Radino

Con un’esperienza trentennale nell’ambito della progettazione di immagine aziendale e di prodotto, principalmente per il settore wine & spirits, SGA amplia la propria sede nei nuovi uffici nel cuore di Bergamo, un luogo prestigioso dagli spazi più ampi e più facilmente raggiungibile, ma rinnova anche la propria comunicazione.

In collaborazione con la web agency Ocho Durando, oltre al nuovo blog www.sgawinedesign.it/blog, ricco di informazioni e contenuti, è stato realizzato il nuovo sito www.sgawinedesign.it, una piattaforma più funzionale e fruibile, in grado di mostrare i progetti attraverso immagini suggestive e di grande impatto.

SGAwinedesign_social

ll nuovo dominio sgawinedesign, già utilizzato nei profili twitter e facebook, è stato adottato con la precisa intenzione di dialogare con interlocutori internazionali.

Tag Comunicazione Digital, Sito Web

30 / 07 / 2014

Intervista a Aldo Colonetti: Vino e design

Intervista a Aldo Colonetti: l’equilibrio sensoriale tra vino e design from SGA Wine design on Vimeo.

Aldo Colonetti, filosofo, storico e teorico dell’arte, del design e dell’architettura.

Direttore Scientifico del Gruppo IED (Milano, Torino, Roma, Venezia, Madrid, Barcellona, San Paolo) dal 1998, è vicepresidente della Fondazione Francesco Morelli e dell’Istituto Europeo di Design. Dal 1991 è direttore del magazine di architettura contemporanea e design Ottagono, e responsabile editoriale di Editrice Compositori.
Autore di saggi, curatore di mostre e promotore di diverse iniziative culturali, in Italia e all’estero, è consulente, per quanto riguarda il design e l’architettura, della Direzione Culturale del Ministero degli Esteri. Ha ricevuto dalla regina Elisabetta II, nel 2001, il titolo di Member of the British Empire per meriti culturali. Dal 2009 fa parte del Consiglio Nazionale del Design, sotto l’egida dei Ministeri dei Beni Culturali, degli Esteri e delle Attività Produttive. Dallo stesso anno fa parte del Consiglio di Amministrazione del Centro Legno e Arredo Cantù.

Il design italiano ha sempre avuto un appeal internazionale, quali le ragioni? Perché un’azienda straniera dovrebbe affidare un progetto ad uno studio di design italiano?

Il design italiano è un complesso sistema culturale, che fa perno sulle imprese specializzate in questo ambito. Non è la carta d’identità a circoscriverne i limiti: in molti casi un progetto di design può essere considerato “italiano” anche se ideato all’estero o da designer stranieri che operano nel nostro territorio.
La nostra specificità e il nostro appeal internazionale sono strettamente legati alla qualità del sistema culturale che il design italiano, anche quando si esprime attraverso un progetto straniero, è in grado di trasferire al prodotto.

Siamo quotidianamente sommersi da oggetti, ma quando diventano di “design”? Cosa significa?

Il design, applicato a un qualsiasi oggetto, diventa elemento determinante non tanto per il valore estetico e simbolico che è in grado di conferire. Il design deve in primo luogo essere in grado di declinare la funzione o la specificità di un oggetto alla sua finalità, essere capace di decontestualizzarlo dalla cronaca, e soprattutto di renderlo capace di parlare al mondo in tempi lunghi.
Pensiamo ad esempio alla lampada Arco dei fratelli Castiglioni, che nacque all’inizio degli anni ‘60: si tratta di un prodotto straordinario, che tuttora rappresenta una parte importante del fatturato della Flos.

Quando una bottiglia, un contenitore di bevande alcoliche, ma anche di olio, di distillato, di spumante, diventa un oggetto di design?

Quando il design ha a che fare con il cibo e gli alimenti in senso lato, deve rispettare una regola fondamentale, recentemente tema di un libro al quale ho lavorato con l’esperto gastronomo Alberto Capatti di Slow Food (Design in cucina. Oggetti, riti, luoghi - Giunti Editore). Applicato agli alimenti, il design deve essere in grado di esprimere una particolare caratteristica sinestetica, rendendo il prodotto capace di catturare l’attenzione ed evocare una reazione sensoriale.
Quando il design affronta il tema del cibo è, però, necessario un grande equilibrio: il prodotto non deve essere caricato oltre i propri valori e contenuti, e deve essere evitata una sua eccessiva spettacolarizzazione. In ambito alimentare, la creatività è molto più difficile che in altri, perché ha a che fare con un prodotto vivo, che si evolve.

Packaging Fontanafredda
La nostra vestizione per La Lepre di Fontanafredda

Il design è un fenomeno che ha mutato il valore degli oggetti di uso quotidiano sia da un punto di vista estetico che dei valori simbolici veicolati; questo aspetto riguarda anche il packaging dei prodotti. In che modo il design può contribuire alla scelta di un prodotto?

In qualsiasi campo della realtà manifatturiera italiana e internazionale, un prodotto raggiunge il successo se, partendo da una fondamentale qualità di base, compie tutto il proprio percorso creativo e distributivo in modo coerente e complementare con essa.
Capita che prodotti di eccellenza rimangano in ombra a causa di un mancato o errato sviluppo di questo percorso; ma non è raro assistere a fenomeni di segno contrario, con oggetti marginali o mediocri portati a un successo straordinario dalla capacità comunicativa e performativa della distribuzione. Parlare di packaging significa necessariamente affrontare l’importante tema della distribuzione: in ambito alimentare, ma non solo, il packaging gioca un ruolo centrale, risultando parte integrante del sistema progettuale del prodotto.

Dagli anni ’80, il vino italiano ha vissuto un percorso evolutivo straordinario, che ha portato alla necessità di un’evoluzione anche da un punto di vista estetico. Quali sono le implicazioni?

Rispetto agli anni ‘80, oggi il vino italiano gode di una straordinaria autorità, maturata in risposta a una grande crisi che lo ha costretto a rifondarsi attraverso un profondo mutamento nel modo di intendere la cultura del territorio. Quando se ne progetta l’estetica, è dunque importante tenere conto del concetto di territorialità, valorizzandolo dal punto di vista visivo ma soprattutto ad un livello “multisensoriale”. Una bottiglia o un’etichetta, attraverso la grafica e il design, dovrebbero rappresentare la storia di persone, luoghi e cose, in sintonia con l’intera filiera di produzione.

packaging Fratelli Giacosa
Vestizione di Vigna Mandorlo di Fratelli Giacosa

Scegliere un vino implica conoscenza. Ma non sempre è così. Quanto la vestizione di un vino influenza la percezione della sua qualità?

Il vino è un prodotto che affida se stesso a una bottiglia, ad un’etichetta ed ad una logica di distribuzione ad esso applicata. Però, è bene ricordare che la vestizione è determinante. I grandi vini hanno sempre una vestizione “low profile”. Non che non sia presente la creatività ma, magari, viene concentrata in alcuni aspetti dei linguaggi utilizzati: un lettering che ha fondamenti storici o culturali oppure in un nome. Non so se sia una vera e propria regola, ma ho notato che spesso funziona.

Dagli anni ‘90 la progettazione architettonica di alcune cantine è stata affidata a architetti di fama internazionale, dando vita ad un fenomeno che coinvolge tutto il mondo, in particolare quello produttivo. Come dovrebbe operare un architetto o un designer che si avvicina al tema del vino?

Ci sono esempi interessanti di questo fenomeno in Italia e Spagna. Io amo le architetture che, pur non rinunciando alla forza espressiva dell’architetto, sanno integrarsi con il territorio, dialogando con l’ambiente in modo non impositivo, ma complementare. In un luogo di produzione in cui è la natura l’elemento determinante, una pura espressione di volontà di potenza dell’architetto è disturbante. In una cantina apprezzo anche l’inserimento di qualche elemento che rappresenti simbolicamente la relazione storica tra vino e territorio. Quando rispetta questo profilo, una cantina d’autore diventa sito da visitare, oltre che luogo di marketing e comunicazione.

Petra packaging
Immagine coordinata della tenuta Petra di Terra Moretti

Tag Intervista, Packaging, Video

30 / 05 / 2014

Intervista a Gianni Legnani: fare sistema per conquistare il mercato globale

Fare sistema per conquistare il mercato globale: Intervista a Gianni Legnani from SGA Wine design on Vimeo.

Gianni Legnani (Milano 1936) inizia il proprio percorso in Nestlé (Milano) e prosegue l’attività presso la sede centrale a Vevey (Svizzera); poi Locatelli, Gillette Italia e quindi in proprio, con Design Group Italia.
Direttore generale e, poi, amministratore delegato di Hill & Knowlton Italia, struttura specializzata in consulenza di comunicazione del Gruppo J. Walter Thompson. In seguito è stato vice presidente internazionale di Burson-Marsteller Italia, importante società di comunicazione e relazioni pubbliche del Gruppo Young & Rubicam.

Legnani ha costituito e diretto per sedici anni il Centro Informazioni Champagne in Italia, per conto del Comité Interprofessionel du Vin de Champagne (CIVC). La sua direzione ha ottenuto la risoluzione di questioni particolarmente delicate come la “guerra del vino” terminata nella “pace di Firenze”, e la discriminazione dei tassi di IVA che colpivano rispettivamente lo Champagne (38%) e gli spumanti italiani (18%), ottenendo un’armonizzazione al 18% grazie a una sentenza della Corte di Giustizia dell’Aia.
Dopo aver diretto per 12 anni il Centro Informazioni Cognac in Italia, su mandato del Bureau National Interprofessionnel du Cognac (BNIC), ha proseguito la sua attività come consulente di comunicazione del Consorzio Tutela Vini dell’Oltrepo Pavese e della Guido Berlucchi.

Gianni Legnani tiene lezioni sulla spumantizzazione, i distillati e i vini speciali ai corsi di primo livello per sommelier organizzati dall’A.I.S. e da altre organizzazioni di settore. Tra gli autori del manuale “Il mondo del Sommelier” (testo ufficiale dei corsi A.I.S.), collabora regolarmente con riviste specializzate in eno-gastronomia.
Attualmente tiene il corso di conoscenza della vite, del vino e dei principali distillati all’Università per Tutte le Età, organizzata dal Lions Club di Brugherio, quale attività di carattere sociale e culturale.

In rapporto alla sua esperienza, qual è stato il percorso evolutivo della comunicazione nel settore vinicolo?

In questi ultimi 20-30 anni, la qualità dei vini è mediamente migliorata e, guardando ai progressi dell’enologia, io sono certo che tra un ventennio sarà addirittura superiore a quella attuale. D’altra parte, però, il consumo del vino sta costantemente diminuendo. Quando mi si dice: «si beve meno ma si beve meglio», io invece vorrei sentirmi dire: «si beve meglio e si beve di più». La tendenza parzialmente negativa è da attribuirsi anche alla comunicazione e al marketing operati delle aziende vinicole italiane in questi ultimi anni: non siamo mai riusciti a fare sistema. La comunicazione vinicola è sempre rimasta legata a singoli produttori, ciascuno con un proprio messaggio, e questa dispersione ha impedito la creazione di una massa critica tale da dare una spinta determinante al vino italiano sul mercato globale. L’effettivo miglioramento della qualità del prodotto italiano non è stato correttamente trasmesso al consumatore in termini d’immagine, e oggi paghiamo il prezzo di questa carenza di comunicazione.

Zonin Prestige
Packaging Prestige studiato per Casa Vinicola Zonin, destinato ai mercati esteri.

Il vino si distingue sempre di più dalle altre categorie merceologiche: ne è una dimostrazione il fatto che venga proposto anche nella grande distribuzione, con spazi dedicati e una più attenta puntualità delle informazioni. In rapporto alle caratteristiche peculiari che lo contraddistinguono, quali sono i criteri su cui si deve basare la propria comunicazione?

Nel passato il vino era consumato in tutte le case. Ai ragazzini veniva garantita un’“introduzione positiva al vino” direttamente all’interno della famiglia grazie a piccole aggiunte di acqua, che cambiava leggermente sapore e colore. Questo avviamento positivo sta andando perdendosi: oggi i giovani difficilmente vengono indirizzati al consumo di vino come parte del nostro patrimonio millenario, e al contrario si rivolgono all’alcol, spesso al binge drinking, senza alcuna cultura di base.
Considerando le mie esperienze di vita all’estero, posso affermare che la cultura vinicola in paesi come Francia, Svizzera e Inghilterra è molto superiore a quella italiana. In particolare tra conoscitori, si tende a dare risalto alla qualità del vino, mentre nel nostro paese è più frequente la ricerca spasmodica dell’affare. Invitato dagli amici italiani, seppure laureati o professionisti, non mi sento dire: «vieni, apriamo una bottiglia di Château Lafite». Piuttosto: «guarda, ho trovato un vino dal contadino, l’ho pagato un Euro al litro, tu che conosci il vino devi dirmi che cosa ne pensi».

La comunicazione, nel nostro settore, dovrebbe riuscire a superare queste barriere culturali e sociali, trasmettendo gli aspetti positivi del consumo di vino di qualità, frutto dell’abilità e della capacità dell’enologo e del produttore. Il vino non è semplice alimentazione, cela risvolti simbolici, aspetti emozionali, sapori e profumi particolari. Tutto quanto di vissuto e di positivo c’è nel vino dovrebbe essere valorizzato dalla sua comunicazione, che non dovrebbe soltanto parlare di produzione o di vitigni.
Trovo che noi italiani, che nella storia del vino abbiamo avuto un’importanza notevole, dovremmo riuscire a capitalizzare sulle nostre tradizioni, per imporci non soltanto in Italia, ma anche all’estero. In questo i francesi stati più bravi di noi: sono riusciti a diffondere i loro i vini in tutto il mondo facendo diventare del Bordeaux, per esempio, un archetipo. Pensiamo poi allo Champagne; un terzo della sua produzione viene esportato. Se un terzo della produzione italiana di vini venisse esportato, tutto il nostro settore vivrebbe una situazione completamente diversa. Ma per raggiungere un simile risultato è necessaria quella massa critica che consente una vera comunicazione, volano per tutto il resto della produzione.

Michele_Chiarlo_Palas
Michele Chiarlo: nuova vestizione per la linea Palas destinata ai mercati esteri.

Negli ultimi anni in Italia si è registrato un calo nel consumo del vino. Questo fenomeno corrisponde però ad una maggior attenzione alla qualità; com’è cambiata la sensibilità dei destinatari di questa comunicazione?

Il vino nel passato era considerato principalmente come un alimento, da consumare in quantità in quanto fonte di energia. Oggi si chiede al vino qualcosa che non si ricercava nel passato: il piacere della degustazione.
Strutture come A.I.S. e Onav, che operano capillarmente per la diffusione della cultura vinicola, propongono lezioni molto frequentate. Alcuni corsi tenuti da me hanno impegnato fino a 80 persone, disposte a investire tempo e denaro per seguire con grande attenzione la presentazione della degustazione.
Illustrando le DOCG piemontesi e i vini di Lombardia ad una platea di operatori del settore vinicolo cinesi, alla manifestazione Interwine di Canton, ho notato lo stesso interesse. E tutti, al termine delle degustazioni mi dicono: «ora beviamo in una maniera diversa». Allora mi rendo conto che la diffusione della cultura del vino è un’attività molto lunga e dispendiosa, ma imprescindibile per la sensibilità del consumatore di oggi, che vuole sapere che cosa sta bevendo e trarre piacere dalla degustazione e dalla condivisione di grandi vini, anziché accontentarsi di aver risparmiato qualche Euro.

Entriamo nel mondo delle bollicine: il Metodo Classico corrisponde a una categoria di vini che si distingue per la sua particolarità; quali sono gli elementi e le differenze che contraddistinguono la comunicazione di questi prodotti rispetto al resto del panorama vinicolo e produttivo?

Il vino Spumante, in Italia, è percepito essenzialmente come il vino della festa. Se da una parte ciò è positivo, in quanto se ne privilegiano gli aspetti emozionali e celebrativi, d’altra parte viene penalizzato il vino in quanto vino. Questo non avviene in Francia con lo Spumante per eccellenza, lo Champagne, considerato adatto tanto per un evento importante quanto per accompagnare un pasto.
L’atteggiamento tipicamente italiano di associare il vino con le bollicine soltanto alla gioia, alla celebrazione, al brindisi, tende a circoscrivere eccessivamente le possibilità di quelle che rimangono, secondo me, le gemme della nostra enologia. Il vino prodotto con il Metodo Classico, pur salvaguardando la sua vocazione celebrativa, dovrebbe essere sempre più percepito come adatto al consumo a tutto pasto, non sporadico, per il piacere della convivialità e della condivisione. È bello pasteggiare a bollicine.

Berlucchi 61 confezioni USA
Guido Berlucchi, linea ‘61: packaging e imballi studiati per il mercato americano

In rapporto al più recente fenomeno di espansione delle aree di produzione a livello globale, che porta i vini italiani a dover competere con prodotti riconducibili al cosiddetto “nuovo mondo” (Cile, Australia, Sud Africa e più recentemente anche Cina), quali strategie dovrebbero essere messe in atto per mantenere e incrementare le nostre quote di mercato?

Prima di tutto mettendo da parte la contrapposizione: io credo che i produttori abbiano una missione comune. È inutile disputarsi le briciole di una torta che, avendo una certa dimensione, non potrà che essere spartita in fette sempre più piccole all’aumentare del numero di contendenti. Dovrebbero tutti agire in maniera che la torta diventi più sostanziosa, in modo che la fetta che tocca a ciascuno aumenti di conseguenza.
Non si tratta di sbarrare la porta ad altre produzioni. Il consumatore, se adeguatamente educato, non si limiterà a trangugiare la prima bevanda che trova, ma cercherà la qualità e le caratteristiche organolettiche migliori in base alle proprie aspettative: ed ecco che, puntando sull’eccellenza, aumenteremmo il consumo.

Certo, realtà emergenti come quella cilena, argentina, californiana o australiana, oggi propongono vini molto interessanti. Ma è anche vero che mercati in cui il vino non fa parte della cultura tradizionale, come l’Estremo Oriente, sono in procinto di aprirsi. Se sapremo aiutare quei mercati, che sono assolutamente incredibili, a rivolgersi al vino di qualità, otterremo che la nostra piccola torta diventi una torta enorme, di cui ciascuno potrà prendere una fetta.
Tutti assieme, i produttori hanno uno scopo condiviso: favorire un consumo pro capite più regolare e più adeguato in tutte le zone del mondo. Noi italiani siamo certamente capaci, siamo in grado di realizzare cose egregie, ma con il nostro individualismo non sempre riusciamo a comunicarle in maniera egregia. Seguendo l’esempio dei grandi châteaux bordolesi, ambasciatori nel mondo del vino francese, e degli Champagne, ambasciatori del vino con le bollicine, noi anziché giocare la nostra singola partita dovremmo giocare la partita “vino italiano” senza disperderci in troppe alternative e possibilità, ma puntando su alcune tipologie forti che si riescano a diffondere nel mondo. Favoriamo i vitigni autoctoni, piuttosto che quelli internazionali, e le nostre tradizioni; privilegiamo i nostri vini, quelli che sappiamo fare, e imponiamoli, in modo che siano riconoscibili.
Allora, trainati dai grandi nomi, che al di là della loro missione commerciale hanno quella di essere i grandi ambasciatori del vino italiano nel mondo, avremo la capacità e la forza di competere sul mercato globale.

Tag Intervista, Video

13 / 05 / 2014

2014 - Gamberorosso.it: 14 fotografi raccontano il mondo del vino nel progetto di Zenato

Fonte: www.gamberorosso.it, http://bit.ly/1ltfRl9

Raccontare il mondo del vino e delle vite che vi ruotano intorno è l’obiettivo di Zenato che ha coinvolto 14 giovani fotografi in un workshop e in sessioni fotografiche per raccontare, come su un set, i luoghi, le persone e il lavoro del vino. In mostra a Verona, nei giorni del Vinitaly.
Raccontare per immagini il mondo del vino nelle terre dell’Amarone e del Lugana, promuovendo il territorio e la giovane fotografia.

Questo l’obiettivo di Zenato, l’azienda vinicola fondata nel 1960 da Sergio a Peschiera del Garda e oggi guidata dalla moglie Carla e dai figli Nadia e Alberto, che per realizzarlo ha ideato - insieme a Giacomo Bersanetti dell’agenzia SGA - un progetto all’insegna del connubio tra vino e arte.

È stato così affidata al fotografo Edoardo Delille, classe 1974, la conduzione di un workshop a cui hanno partecipato tredici studenti della Fondazione Studio Marangoni, nota scuola di fotografia di Firenze. Ne sono nati un libro e una mostra, VITE. Il mondo del vino in scena, dove la parole “vite” si riferisce tanto alla pianta, quanto alle persone che vi dedicano fatica e passione. L’esposizione ha inaugurato pochi giorni fa a Verona, a cura di Daniele De Luigi, in una sala del prestigioso Palazzo della Gran Guardia in Piazza Bra, proprio di fronte all’Arena, e resterà aperta per tutto il periodo del Vinitaly, quando il wine world confluirà nella città scaligera.

zenato invito


“Nei miei numerosi viaggi nel mondo, dalla California alla Russia, dal Giappone all’India, a New York” afferma Nadia Zenato, responsabile commerciale e marketing dell’azienda di famiglia “riscontro sempre un autentico stupore da parte di chiunque entri in contatto con la nostra storia, il nostro territorio e i valori che ci identificano. Il mondo del vino gode di un incredibile carisma e con questa mostra Zenato vuole continuare a regalare stupore ai giovani e a tutte le persone che giungono a Verona da ogni parte del mondo, anche in occasione di Vinitaly”. Il risultato è senz’altro di grande originalità e le immagini comunicano bene quel mix di tradizione e innovazione, che caratterizza la storia di aziende come Zenato che hanno portato un contribuito significativo alla storia della produzione vinicola italiana.

“Siamo un’azienda in continua evoluzione” ci racconta Nadia Zenato “ma fedele a valori di sempre come il rispetto del tempo, l’aspetto umano, l’amore per il territorio e l’attenzione alla tradizione.È proprio da questo profondo legame con il territorio che sono nate intuizioni, come quelle di mio padre Sergio, di investire in modo pionieristico sui vitigni autoctoni per ottenere vini bianchi e rossi di qualità, come è accaduto per il Trebbiano di Lugana; o di riscoprire un metodo antico della Valpolicella ormai in disuso, il ripasso, creando un grande vino, la Ripassa Zenato”.

zenato verona

Con questa mostra Zenato affida quindi alle nuove generazioni di fotografi e artisti la missione di mettere in scena il mondo del vino. Le fotografie sono state realizzate con una tecnica particolare che grazie all’uso delle luci ha trasformato il territorio in un teatro open air, dove sembra che tutte le fasi produttive siano riprese su un set di cui i lavoratori sono gli attori. Il workshop è consistito in un lavoro in esterno di 5 giorni nelle vigne lo scorso, ottobre per

La vendemmia, a cui sono seguiti 5 giorni a gennaio nelle cantine e nelle tenute, per la potatura e spremitura delle uve dell’amarone. Le immagini mostrano il territorio e il paesaggio - Peschiera del Garda, Sirmione, Verona, la terra del Trebbiano di Lugana, i filari della Valpolicella – le casse della vendemmia, donne, uomini e ragazzi, la potatura dei vitigni, i grappoli e i nastri trasportatori, la spremitura delle uve passite dell’Amarone, le mani, le cesoie, gli attrezzi, i bicchieri, le bottiglie, le botti, la cantina. Nonostante vi abbiano lavorato 14 fotografi, l’insieme delle immagini appare unitario e mette al centro il carattere collettivo del fare il vino, che rappresenta oggi uno degli esempi più positivi di sintesi fra passato, presente e futuro, capace di custodire il meglio della tradizione e dei valori nel rispetto dell’ambiente e del paesaggio, nonché di concorrere sul piano internazionale a tenere alta l’eccellenza del Made in Italy.

Tag Press

29 / 04 / 2014

2014 - Imbottigliamento: Packaging, l’arte di comunicare

Articolo di Elena Riboldi, rivista Imbottigliamento

Giacomo Bersanetti, uno dei maggiori indagatori del binomio vino e design ha costruito con il suo studio, SGA di Bergamo, il successo di Gaja, celebre marchio piemontese.
Per questo marchio il designer ha pensato di conciliare gli aspetti tecnico-funzionali a contenuti simbolici, emozionali e culturali.

GAJA etichette

Il marchio Gaja è presentato con grande coerenza, grazie a un’immagine coordinata, completata da una piccola pubblicazione e dal pack secondario.
L’utilizzo di materiali naturali e di una grafica di grande impatto hanno fatto acquisire al vino valenze culturali derivate dal genius loci.

Tag Global design, Packaging, Press

04 / 04 / 2014

Nadia e Alberto Zenato: VITE, il mondo del vino in scena.

Mostra #Vite: Intervista a Nadia e Alberto Zenato from SGA Wine design on Vimeo.

Intervista a Nadia e Alberto Zenato: figli del fondatore dell’Azienda Vitivinicola, Sergio, hanno consolidato e ampliato l’attività dell’impresa insieme alla madre, Carla. Alberto presta le sue cure al prodotto, dalla vigna, alla bottiglia, all’export. Nadia è responsabile dello sviluppo dei mercati e della comunicazione.

Nadia, oggi si inaugura “Vite”, esposizione che riunisce i risultati di un workshop condotto presso l’Azienda Vitivinicola Zenato da Edoardo Delille con un gruppo di studenti del terzo anno della Scuola di Fotografia Fondazione Studio Marangoni di Firenze. Come è nato il progetto di collaborazione? 

NZ: Il progetto è nato un anno fa, con l’intento di valorizzare il nostro territorio, verso il quale sentiamo un forte senso di appartenenza e del quale ci sentiamo portavoce nel mondo, e la nostra azienda, radicata nelle zone del Lago di Garda e della Valpolicella. L’iniziativa, svolta in collaborazione con la Fondazione Studio Marangoni, è stata concepita anche per mettere in luce i giovani, che secondo noi rappresentano il futuro. Questo progetto ha dato vita a una grandissima sinergia, che ha permesso a noi di far conoscere un’area geografica importante e a loro di comunicarla attraverso dei messaggi forti, scaturiti dall’anima.

Allestimento Mostra presso il Palazzo della Gran Guardia di Verona


La comunicazione aziendale viene comunemente affidata a messaggi di tipo pubblicitario; in questo caso invece l’investimento in comunicazione è stato utilizzato per dare vita ad un’iniziativa legata alla ricerca fotografica che si distingue per il contenuto culturale. Qual è la sua personale opinione rispetto a questo differente approccio?
 

NZ: Tutto ciò che facciamo ruota intorno a valori importanti: la cultura, l’arte, ma anche il sentimento che mettiamo quotidianamente nel nostro lavoro. Per cui credo che questa iniziativa premi soprattutto la voglia di valorizzare ciò che la generazione mia e di mio fratello sta facendo: portare avanti un’opera che ha iniziato mio padre negli anni Sessanta, dedicandosi anche ad altro attorno a quello che è il mondo del vino. 

Alberto, in riferimento a quanto accennato prima da Nadia: “Vite” è un titolo che rimanda alla naturale essenza del vino e della sua produzione, ma anche a un capitale umano di individui che si dedicano quotidianamente alla terra. Attraverso questo percorso fotografico si è voluto intrecciare la rappresentazione delle “viti” del basso Lago di Garda e della Valpolicella con quella delle “vite” di tante persone che su quel territorio lavorano con passione?

AZ: Sì, certamente. Questo titolo, “Vite”, ha un doppio senso: rimanda alla vite vera e propria che coltiviamo, ma anche alla vita, alle vite di tutti noi, che ruotano attorno al mestiere di produrre l’uva, per trasformarla in vino e portarlo sulle tavole di tutto il mondo. Questo prodotto così buono e piacevole da gustare non ci sarebbe senza il lavoro di tante persone che collaborano con noi.

Strumenti di comunicazione dell’evento

 

Tag Intervista, Video

07 / 01 / 2014

2014 - Ottagono: per proteggere e mostrare

Come è iniziata la collaborazione?
Giacomo Bersanetti. Angelo ‘monitorava’ la nostra progettualità da anni; mi proposi e lui scrisse una lettera dove spiegava perché il nostro rapporto non sarebbe iniziato subito.
Angelo Gaja. È stato importante costruire una sintonia, un’intesa che non poteva prescindere dalla conoscenza della storia dell’azienda, del suo modo di stare sul mercato, dagli obiettivi di comunicazione. E questo richiede tempo e maturazione.

Cosa ti ha colpito di più di Angelo/Giacomo?
G.B. La straordinaria capacità intuitiva, la chiarezza e il rigore intellettuale.
A.G. La dimensione intellettuale, il gusto, la vivacità, l’istinto.

Breve definizione di packaging.
G.B. ll punto di incontro tra persona e oggetto, tra fruitore e prodotto. Le forme parlano agli occhi, alla memoria, alle emozioni; il design crea chiavi universali di comunicazione.
A.G. L’identificazione che l’azienda trasmette attraverso la grafica.

Gaja fagiani

Come cambia in funzione del prodotto?
G.B. Cambia in funzione di azienda, territorio, tipologia, settore, epoca, posizionamento, target… e del prodotto.
A.G. Non c’è abbastanza spazio per rispondere!

Il dettaglio che curate di più.
G.B. La coerenza con la filosofia del produttore/azienda.
A.G. La sobrietà, la pulizia, l’eleganza.

La parte più difficile del lavoro.
G.B. Riuscirci!
A.G. Non disperdere, illustrare con continuità l’anima dell’azienda.

Gaja camarcanda

Il prossimo progetto.
G.B. Un progetto editoriale.
A.G. Ne ho molti in mente ma voglio pensarci sopra senza lasciarmi guidare dalla fretta.

Angelo/Giacomo in una parola.
G.B. Totale. Un’artista tanto geniale quanto irrequieto come Michelangelo.
A.G. Lo chiamo il mio Einstein privato.

Il vostro legame in una parola.
G.B. Autenticità.
A.G. Una parola proprio non basta. La consapevolezza di avere costruito un rapporto che si basa sulla stima, sulla comunità di pensiero e sul rispetto reciproco.

Gaja secondary packaging

Tag Intervista, Packaging, Press

23 / 12 / 2013

2013 - Artlab: Etichette e colore

L’uso particolarmente intenso del colore nelle etichette dei superalcolici è un fenomeno recente ma con radici profonde: dagli inizi del secolo scorso Johnnie Walker con il suo whisky ha imposto il rosso come elemento di identità.

Nel tempo anche i produttori di vino hanno utilizzato il colore per migliorare la loro riconoscibilità. Anche qui la brandizzazione del colore ha origini consolidate: il giallo di Veuve Clicquot o la banda rossa di Mumm sono parte integrante della riconoscibilità del marchio. Le scelte cromatiche devono però essere anche in sintonia con la personalità del vino, soprattutto per il loro valore sinestesico, cioè per la relazione tra colore e sensazioni gustative evocate: come l’argento/platino che nel caso di un Franciacorta è abbinato al Satèn.

Nella visione di Francesco Voltolina dello studio SGA di Bergamo, il colore è diventato elemento di attenzione per l’identità di marca e il posizionamento del prodotto. Un esempio viene dalla linea Cà Marcanda di Gaja, che ha scelto una grafica minimalista dove il colore è il valore segnaletico che differenzia le tipologie.
Al diffondersi dell’uso del colore sulle etichette contribuisce l’evoluzione delle carte, dei sistemi di stampa e degli inchiostri. I colori perlescenti, l’opacità delle tinte serigrafiche, la gamma dei colori metallici aiutano ad affinare il messaggio e conferiscono personalità anche alle etichette più tradizionali.

Ceretto grappa

È sintomatico tuttavia che, al contrario di quanto avviene in Italia, legata a un certo tipo di classicità tradizionale che influenza il linguaggio grafico e comunicativo, le etichette dei vini esteri, in particolare australiani, sudafricani o californiani, prediligano tinte piene applicate su ampie superfici, immagini stilizzate o illustrazioni elaborate e pattern iperdecorativi. Si tratta di bottiglie su cui la cultura del graphic design si impone rispetto a quella vitivinicola. La tenzone è ancora in corso…

Tag Packaging, Press

10 / 12 / 2013

Il futuro della comunicazione nel mondo vitivinicolo

Intervista al Dott. Paolo Panerai from SGA Wine design on Vimeo.

Il nome di Paolo Panerai suggerisce grandi successi in diversi settori dell’informazione, ma anche in ambiti d’eccellenza come la produzione vinicola. Come nasce la passione per il vino?

La passione per il vino è una cosa reale, autentica e che nasce da bambino, avendo sempre vissuto in campagna nella grande casa di mio nonno, con tutta la famiglia, a Firenze. Quando c’è stata la possibilità, abbiamo deciso di ritornare in Toscana in una zona che ci piaceva molto, quella del Chianti, ed abbiamo cercato un’azienda. Siamo stati fortunati: dopo un giorno di ricerca l’abbiamo trovata, è stato come un primo amore.  Non è stata secondaria l’amicizia e il rapporto professionale con Luigi Veronelli; ci eravamo incontrati a Panorama e, quando abbiamo fatto la casa editrice (Class Editori), ha cominciato a scrivere per le nostre riviste. Prima, ancora insieme, avevamo fatto una rivista che si chiamava L’Etichetta. Quindi ho avuto la fortuna di poter avvicinare la passione per il vino e la conoscenza del vino attraverso il più grande scrittore e filosofo del vino; intenditore, che mai ha accettato di fare degustazioni bendate, perché è il complesso del vino, che dà l’idea della qualità o della gradevolezza o il suo contrario, attraverso la bottiglia, attraverso l’etichetta, attraverso il sapere da dove proviene; che è l’espressione, e la sintesi di tanti fattori, compreso il territorio.

Grazie. Ha già anche in parte risposto a quella che pensavo quale seconda domanda: ci sono anche altre persone, altre figure che hanno influito in questo percorso oltre a Luigi Veronelli?

Sicuramente l’esempio di alcuni grandi produttori di vino toscani, ma non solo… Antinori, Frescobaldi… Riflettere sul fatto che sono secoli che queste famiglie continuano a produrre vino e sulla continuità della vita delle loro famiglie, attraverso la prosecuzione dell’attività vitivinicola; ma nello stesso tempo anche il ‘mondo nuovo’.  Proprio con Luigi Veronelli facemmo un giro importante in America negli anni settanta quando il mondo intero stava scoprendo la California, in particolare Napa Valley; l’incontro con personaggi come Robert Mondavi, Tim il figlio enologo oppure Michael, che fa la distribuzione, sono stati molto di stimolo. Però quello che più di tutti ha influito su di me è stato Edmond de Rothschild con cui eravamo diventati soci in un’azienda di importazione e tecnologia del vino francese. Edmond è sempre stato separato dalla banca francese - suo padre aveva creato una banca in Svizzera - ed è sempre stato però il maggiore azionista (ora lo è suo figlio Benjamin), di Chateau Lafite, pur non potendo contare in Chateau Lafite. Quindi si era messo in testa di creare lo Chateau Lafite degli anni 2000.  Ha comprato un’azienda che si chiama Chateau Clarke, poi purtroppo è morto e non ha potuto realizzare l’obiettivo, ma ebbe l’amicizia di invitarci con Luigi Veronelli e con Maurizio Castelli, che allora era il nostro enologo nell’azienda in Chianti (Castellare) e lì avemmo la fortuna di poter parlare per due giorni interi con il più grande enologo degli ultimi 100 anni Emile Peynaud, professore all’Università di Bordeaux, che mi aiutò a capire che valeva la pena - idea che Veronelli aveva già radicata - puntare sui vitigni autoctoni e quindi, nel caso specifico per la Toscana, sul Sangiovese invece di fare dei Supertuscan mischiando con i vitigni internazionali.

Rocca di Frassinello

Il vino è un prodotto sempre più in evoluzione e distinto dalle altre categorie. Come si comunicava in passato? Come si comunica oggi? E, soprattutto, si comunicherà secondo lei in futuro?

Prima si comunicava con la fame, perché è stato un prodotto alimentare e portatore di calorie in una dieta che era molto povera. Il vino serviva per questo per cui era la pancia che programmava la comunicazione del vino. Via, via che il livello di vita anche degli italiani, ma non solo, si è elevato, le calorie si trovavano da altre parti. Man mano che si è ragionato sul fatto che il vino, oltre un certo limite non è più un piacere o un prodotto positivo, ma può diventare negativo, si è sempre più sviluppata la sensibilità alla qualità, più che alla quantità. Si sono verificati fenomeni rivoluzionari per un’enologia e una viticoltura basata sulla quantità, come era stata per lungo tempo in Italia; un po’ meno in Francia dove avevano cercato la selezione fin dal 1855, grazie alla classificazione fatta da Napoleone III: vigneti da estirpare, concetti da ricomunicare, etc.  Adesso la comunicazione punta essenzialmente su due valori: la qualità e la genuinità, dove per genuinità si passa facilmente al discorso di una produzione biologica quasi al 100%. Purtroppo la vite, come tanti altri vegetali, ha problemi di malattie molto frequenti, quindi se uno non vuole distruggere il vigneto, qualche intervento deve farlo.  Di questo valore sono stato convinto fin dall’inizio, tant’è vero che nell’etichetta dei vini di Castellare abbiamo sempre messo i disegni di John Gould con gli uccelli, andando a cercare quelli che sono sempre più rari - perché per lungo tempo si è fatto abuso, nella vigna, della chimica di sintesi - quando invece è possibile avere un equilibrio usando prodotti più naturali come il verde rame, etc… che quindi preservano la qualità. Questi sono i due filoni, naturalmente poi alla comunicazione si aggiunge tutto il resto. Non si può vendere solo una bottiglia di vino, ma bisogna vendere il territorio e bisogna utilizzare i valori del territorio, soprattutto perché nel frattempo molti altri paesi che non erano produttori di vino, si sono messi a produrre vino e non essendo una tecnologia difficilissima da acquisire, producono anche dei buoni vini. La differenza, quindi, per i vini italiani, la fa la descrizione complessiva del vino insieme al territorio, l’offerta che il territorio può dare, l’accoglienza, le degustazioni e tutto quello che ne consegue.

Baglio del sole

Il progetto architettonico della cantina è ormai diventato un elemento di comunicazione che contribuisce all’affermazione del valore di marca. Che significato ha secondo Lei questa leva?

È una leva a doppio uso, come tutte le medaglie che hanno due risvolti: l’armonia architettonica della cantina può aiutare a valorizzare il vino, ma se in seguito il valore architettonico della cantina supera quello del prodotto e quindi la gente si interessa più della cantina che al vino, viene a cadere l’efficacia di questa scelta. Per quello che ci riguarda, con un grandissimo architetto, mio grande amico da tanti anni Renzo Piano, abbiamo fatto una cantina che rimanesse con ‘i piedi per terra’, per così dire, tenendo conto che una cantina è uno luogo di produzione.  Quindi, a cominciare dalla scelta dei materiali, come il cemento ‘faccia a vista’, alle linee architettoniche, siamo stati d’accordo fin dall’inizio che dovesse essere, appunto, uno stabilimento funzionale, con il valore architettonico che può dare uno straordinario artista come Renzo Piano. Ormai il filone è lungo e ci sono cantine degli architetti un po’ in tutto mondo; sono molti i casi, diciamo, prevaricanti sul valore del vino.

Baglio close up

Nella storia dei suoi vini c’è la prestigiosa joint venture con Domaines Barons de Rothschild in cui in soli due anni il grande vino Rocca di Frassinello 2004, premiato subito con due bicchieri Gambero Rosso, che con l’annata 2006 diventano tre e Tre Stelle Veronelli. Una ricerca continua mirata all’eccellenza. Cosa significa per lei eccellenza?

Intanto, è stata proprio la vecchia amicizia con Edmond de Rothschild che ha creato la congiunzione con i cugini, quelli che gestiscono Chateau Lafite e in particolare con Eric. Questa relazione è stata poi cementata dal fatto che loro, come banca, sono stati i nostri advisor per la quotazione in Borsa della casa editrice; quindi c’è stato un incontro proprio fra attività editoriale, attività finanziaria e vino. Eric è una persona molto curiosa, ci siamo trovati un giorno in Maremma a pranzo dal Gambero Rosso - che adesso non ha più come protagonista Fulvio Pierangelini - e gli ho raccontato che avevo comprato un podere non lontano da lì, per il fatto che in Chianti è molto difficile trovare terreni e ci sono anche vincoli molto forti. Quindi c’era stato questo spostamento verso la Maremma dove c’erano più terreni. Siamo andati sul posto e visto che c’era un pezzetto di vigna con curiosità ha detto: ‘Il vino dov’è?’ ‘Il vino non lo so dov’è perché lo fa il contadino. Non so neanche che vitigni ci sono dentro’. Invece lo ha voluto assaggiare e con l’understatement che lo contraddistingue ha detto: ‘Ah, che buono questo vino, etc’… dice: ‘Ma quanti ettari sono qua?’ E io ho detto: ‘Sono 50 ettari’. ‘50 ettari non ci si fa niente perché il vino, detto in francese: c’est une affaire foncière, quindi bisogna avere molti più ettari, se metti insieme almeno 500 ettari possiamo fare una società’. E così è nata la società e c’è stata la prima joint venture fra l’Italia e la Francia, che sono i due più grandi paesi produttori del mondo, sia per quantità che per qualità e la ricerca dell’eccellenza era implicita. All’inizio hanno lavorato insieme i due enologi: l’enologo di Lafite e l’enologo nostro Alessandro Cellai, che ormai è un gigante di questo mondo. I vini sono decollati molto prima di quando si potesse pensare, in questo caso diciamo proprio nel rispetto della joint venture dei due paesi mettendo insieme i vitigni autoctoni quindi ancora il Sangiovese con i vitigni internazionali, francesi. La ricerca però non finisce mai…

L'Eterno

Quale importanza ha la vestizione di un vino nel determinarne il successo?

Direi che, per quanto ci riguarda, è stata importantissima e, credo, lo sia per tutti. Quando siamo usciti - adesso c’è qualche abuso, qualche copiatura, della nostra etichetta iniziale di Castellare - l’idea di usare i disegni bellissimi di Gould che è stato un grande ornitologo, e legarlo a questo principio della tutela, del territorio e della fauna con un’attenzione in vigna: non usare i prodotti chimici, che poi sono quelli che distruggono la fauna oltre a non fare bene a chi beve il vino, è stato molto caratterizzante.  Per lungo tempo abbiamo sentito dire: “ah questo è il vino con le etichette degli uccelli”.  È fondamentale affidarsi a dei professionisti; per me quella prima etichetta è stata un lungo lavoro insieme con un grafico intelligente che avevo quando ero direttore del ‘Mondo’, ma poi, per proseguire sempre a un livello elevato bisogna avere una qualità grafica che esprima quello che è il valore del vino, che gli si vuol dare. Quindi se un vino punta sull’eleganza come filosofia da perseguire, bisogna che le etichette siano estremamente eleganti e che rimangano in mente. È come se avvenisse una sorta di fotografia nel cervello del consumatore, che poi identifica il vino immediatamente attraverso l’etichetta.

Paolo Panerai

E siamo all’ultima domanda: la vasta esperienza in ambito editoriale ed economico-finanziario in quale modo ha contribuito alla creazione delle sue realtà vinicole?

L’esperienza editoriale è stata usata soltanto in termini di sapere come comunicare. Per scelta, non ho mai mischiato l’editoria con l’enologia; nel senso che l’editoria è una società quotata in Borsa e invece il vino è un fatto personale. In tutti gli eventi che facciamo, la gente si meraviglia: “Questo vino è tuo?” “No” dico, “non è il mio!”, perché non facciamo mai così; unica eccezione l’abbiamo fatta qualche tempo fa a Shanghai dove abbiamo presentato due iniziative per la Cina: un numero di Gentleman in cinese e il sistema d’informazione per i turisti cinesi, che saranno un fattore fondamentale per l’Italia, ma anche per il vino, che si chiama Eccellenza Italia, fatto con Xinhua, Agenzia Nuova China; in quella circostanza ci siamo trovati nella necessità di usare i nostri vini perché nel ristorante dell’albergo dove siamo andati, il Ritz-Carlton, avevano quelli al momento disponibili. Ma non cerchiamo mai di mischiare le due cose. Ovviamente c’è un travaso di esperienze dall’editoria, per quanto riguarda la comunicazione, che dà un vantaggio al vino. E dal mondo che il vino rappresenta, dalla filosofia che implicitamente contiene,  provengono valori anche per il settore editoriale.

Tag Intervista, Packaging, Video

23 / 10 / 2013

Capital: Di-vino elogio dell’etichetta

Per fare un’etichetta «bisogna innanzitutto conoscere il vino. Giacomo Bologna di Braida ci portava casse di bottiglie del vino che avremmo poi dovuto vestire e ci chiedeva di assaggiarlo, conoscerlo e solo dopo andare a caccia dell’ispirazione». L’aneddoto risale a 30 anni fa e a raccontarlo è Giacomo Bersanetti, titolare, insieme con la moglie Chiara Veronelli e con Francesco Voltolina, di Sga Corporate & packaging design, società specializzata nello sviluppo di progetti, che da oltre 25 anni collabora con le maggiori aziende del settore vitivinicolo. Seguendo anche la realizzazione della marca, l’immagine, il packaging, la creazione di nomi di azienda, linee e prodotto, pubblicità, editoria, web design; progettazione di materiali promozionali, contenitori e stand. Insomma, di tutto quello che ha a che fare con la presentazione e promozione del nettare di Bacco.

Nino Negri

Ma non solo. Sga opera anche nel mondo dell’olio (Confraternita di San Lorenzo, Seggio Fiorito) e dei distillati (Grappa Bocchino, le grappe di Gaja, Gibò, Zedda Piras, Rau, Distillerie Franciacorta).
I tre soci si sono conosciuti ai tempi della scuola, all’Accademia di Brera di Milano. «Il modo in cui abbiamo sempre operato è conseguenza della formazione ricevuta, che non nasce dal marketing, al quale arriviamo successivamente, ma dalla sensibilità e dalla ricerca artistica. Nella nostra formazione hanno influito artisti, designer e storici dell’arte», prosegue Bersanetti. «Tra i tanti, Alik Cavaliere, Roberto Sambonet, ma anche Silvio Coppola e Pier Carlo Santini». Le prime esperienze di Giacomo e Francesco sono di quelle che lasciano il segno: in Unimark International di Bob Noorda seguono l’immagine coordinata di Agip (oggi Eni) e delle Collane Feltrinelli. Poi ecco Sga, che Giacomo e Chiara fondano nel 1983, mentre Francesco, dopo numerose collaborazioni con loro, entra a pieno titolo in società nel 1997. Il resto è storia di oggi. «Abbiamo progetti che quest’anno compiono trent’anni. La maggior parte continua a vivere nel tempo. Etichette che sono efficaci e moderne ancora oggi, che non invecchiano mai», racconta Chiara.

Distillerie Franciacorta

«Crediamo che ogni dettaglio sia essenziale. Il lettering, per esempio: infatti spesso disegniamo i caratteri a mano. Come abbiamo fatto per il logo del Millepassi (Azienda Donna Olimpia 1897, a Bolgheri, di Guido Folonari)». Anche il naming è uno dei cavalli di battaglia della società: il nome deve produrre evocazioni e suggestioni, deve essere accattivante, avere suoni piacevoli ed essere facile da memorizzare e da pronunciare anche all’estero, essere accolto e assimilato rapidamente. A che cosa si punta quando si veste una bottiglia? «A far anticipare, già dal primo sguardo, l’incontro col vino. L’etichetta deve creare interesse, evocazione», spiega Voltolina. «Quando si coglie nel segno, trasmette l’appartenenza a una categoria, a un territorio, a un livello di prezzo». Questa esigenza è di ancor maggiore importanza per i prodotti venduti attraverso la grande distribuzione, dove il compratore sceglie senza il consiglio di nessuno. E prosegue: «Chi si trova di fronte allo scaffale dei vini si fa condizionare dall’etichetta. A parità di qualità e conoscenza, si è spinti a scegliere il prodotto che soddisfa di più dal punto di vista estetico. Fondamentale è anche l’aspetto della memoria legata al gusto. A ciò neppure un grande conoscitore di vini riesce a sottrarsi». A differenza di altre categorie di prodotti, il vino abita la tavola, sia a casa che al ristorante (un pacco di pasta rimane in cucina), e quindi l’aspetto estetico è imprescindibile. Per il consumatore da supermercato «sono determinanti anche i colori», puntualizza Sara Mutti, che in Sga si occupa dei contatti con le aziende e della comunicazione. «Attribuire determinate cromie aiuta il consumatore a immaginare il sapore e il gusto. Per esempio, a un Satèn (nome inventato da Sga per Bellavista, adottato poi da Ca’ del Bosco, Monterossa e Cavalleri come produttori pilota; oggi utilizzato da tutto il Consorzio per la tutela del Franciacorta), dove il gusto è più morbido, si attribuiscono colori tenui e setosi».

Braida vini

Per riuscire a trovare il vestito giusto per ogni vino è importante attingere alla cultura locale in termini propositivi, con un orientamento verso il futuro, ma conoscendo la storia e le tradizioni dei produttori. «Le farfalle che compaiono su un’etichetta di un vino di Braida, altro non sono che la forma stilizzata delle labbra di Giacomo Bologna. Rappresentano il suo sorriso quando, completato il ciclo della vinificazione, arrivava il momento di imbottigliare e affidare il vino al mercato. E lui aggiungeva in dialetto: “Ai Suma” (ci siamo). Da qui anche il nome del vino», racconta Bersanetti. E i ricordi si rincorrono. «Per Mariuccia Borio della Cascina Castlet, che voleva fare recepire la Barbera come un vino fresco, coinvolgente, adatto a un pubblico giovane e per il consumo di tutti i giorni, trovammo negli archivi storici dell’azienda una foto di quattro bambini sulla Vespa del papà della titolare. Da qui, con un certo senso di provocazione e ironia, nacque un’etichetta scanzonata e divertente, che in una sorta di marketing inconsapevole ha portato da quel giorno alcuni fan club Vespa a riunirsi in cantina». E per i 150 anni della fondazione di Bertani «abbiamo vestito un Amarone con un bagno di cera d’api (dalla capsula al corpo della bottiglia). Per la famiglia Moretti (Bellavista) abbiamo messo il sigillo di ceralacca a una serie di bottiglie fatte per amici e appassionati. Per gli ottant’anni di Franco Ziliani (Berlucchi) abbiamo studiato una confezione a tiratura limitata. Con Passum (della Cascina Castlet) abbiamo osato serigrafare l’etichetta in anni in cui questa tecnica era utilizzata solo per le bibite».

Alois Lageder Classici

Una delle recenti operazioni condotte da Sga è stata studiata per la linea dei vini classici di Alois Lageder, produttore altoatesino appassionato d’arte contemporanea (sotto la sua presidenza, nel 2000, Museion, a Bolzano, fu trasformato in Museo d’Arte moderna e contemporanea). Sono stati coinvolti dieci artisti italiani che, dopo avere conosciuto la realtà aziendale, hanno prodotto liberamente alcuni lavori: cinque sono oggi etichette.
In questo caso l’arte ha svelato a tutti, anche grazie a un catalogo curato dal critico d’arte Marco Senaldi, la filosofia aziendale e la visione olistica di Lageder, che si basa sul processo biodinamico per la cura delle viti e la creazione di una cantina moderna, dove il rispetto per l’ambiente è al primo posto insieme con ecosostenibilità e naturalità dei prodotti. Le prossime tappe di Sga? «Puntiamo sull’innovazione che oggi passa attraverso il rispetto per l’ambiente», questo è uno dei capisaldi di Bersanetti. «Puntiamo alla riduzione dell’impatto ambientale in fase produttiva, all’ottimizzazione delle procedure, usando materiali interamente riciclabili, riducendo il peso della bottiglia. E cerchiamo di non mischiare mai gli elementi per renderli poi riutilizzabili». La firma Sga sull’etichetta? «Mai», conclude Bersanetti. «Nell’etichetta si mette solo lo stretto indispensabile.
Tutto il resto è disturbo».

Valdo Edizione oro

Tag Packaging, Press

06 / 09 / 2013

Scenari futuri nel mondo del vino

LE VOCI DEL VINO. Protagonisti del mondo enologico - Intervista a: MARILENA COLUSSI from SGA Wine design on Vimeo.

Quali sono stati i criteri della ricerca?

La ricerca, tipo quantitativo, ha coinvolto campioni estesi di popolazione italiana rappresentativi della popolazione web, intervistati via Internet: un campione di 500 casi dai 18 ai 64 anni, Web People Doxa, e un campione ancora più esteso di oltre 2000 casi, intervistati tramite il panel proprietà di HQ24. Poi, durante Vinitaly e attraverso i siti delle testate del Gruppo 24 Ore (Bargiornale, Gdoweek, MARK UP, Ristoranti, VigneVini), abbiamo svolto un’indagine quantitativa su un gruppo di 300 operatori della filiera del vino: ristoratori, chef, sommelier, produttori, distributori.

Come è cambiato il consumo di vino in Italia, e in che modo si sta evolvendo il ruolo del vino nella nostra società?

Il consumo di vino in Italia è cambiato molto, quantitativamente e qualitativamente, negli ultimi 30 anni. Al consumo di un vino considerato come alimento tradizionale, di famiglia o del paese d’origine, se n’è sostituito uno più qualificato, anche se minore in termini quantitativi: siamo, infatti, scesi ormai sotto i 40 litri pro capite all’anno, praticamente la metà rispetto a 30 anni fa.
Tuttavia, l’interesse verso la qualità e la predisposizione a spendere nei confronti del vino sono aumentate; del resto se il consumo di vino è sempre meno un’abitudine ripetitiva e tradizionalistica, è invece sempre più un piacere, una scelta.
Il consumo è cambiato, è diventato anche più femminile: sempre più donne si avvicinano al vino da intenditrici, da conoscitrici o da semplici appassionate. Sfatiamo un mito: piace anche ai giovani, non bevono solo birra o altre bevande gassate. Quando viene raccontato, spiegato e reso accessibile al loro gusto, alle loro esigenze e alle loro aspettative, apprezzano anche il vino. Gli amanti della birra e quelli del vino stanno avvicinandosi progressivamente, creando dei bevitori “ibridi” tra le due categorie.
Quello tra gli italiani e il vino è un rapporto che è cambiato, e che continuerà a evolversi. Mentre resta costante la percentuale dei cosiddetti astemi, cioè gli italiani che affermano di non bere vino o altri alcolici (6% circa), il 42% dei bevitori si dichiara moderato ed equilibrato. Abbiamo un 28% di consumatori occasionali, che bevono quando si presenta l’occasione giusta, e un 21% che dichiara di bere in modo regolare; solo il 3% dichiara di bere in modo sostenuto.
L’insieme dei consumatori di vino delineato dall’indagine è estremamente sfaccettato; è dunque necessario saper posizionare i vini in modi diversi, a seconda dei consumatori che dobbiamo intercettare.

Zenato

Berlucchi bancone

Sopra: Zenato, degustazione in cantina.
Sotto: Berlucchi, degustazione in spiaggia.

Quali cambiamenti sono emersi dalla ricerca riguardo ai modi e ai luoghi di consumo del vino?

In alcune regioni esiste da tempo la cultura dell’aperitivo o del vino a merenda, però storicamente, in Italia, il vino è sempre stato legato ai pasti principali.
Negli ultimi anni, invece, abbiamo visto accentuarsi l’importanza del vino durante l’aperitivo e diminuire quella del vino durante il pasto, che spesso avviene fuori casa, è un pasto veloce, leggero, composto da un piatto unico o uno snack. Mentre durante i pasti il vino può essere percepito come un appesantimento, nelle situazioni di festeggiamento o durante le cene conviviali, è entrato a far parte della dimensione della socializzazione.
Un altro cambiamento significativo nelle esigenze, nei modi e nei luoghi di consumo del consumatore di oggi: sempre più gli italiani apprezzano i locali che propongono non solo la bottiglia ma anche il calice di vino, o i calici di vino, in accompagnamento a un menù.

Quali sono i luoghi e le modalità con cui viene acquistato il vino oggi?

Nel tempo l’accessibilità del vino è aumentata molto; in particolare è cresciuto l’acquisto di vino nella GDO: supermercato principalmente, ma anche ipermercato e discount. La grande distribuzione rappresenta il luogo dove la maggioranza degli italiani (circa il 70% degli intervistati) ha effettuato un acquisto di vino negli ultimi 6 mesi.
Tuttavia, l’acquisto presso la cantina, quindi direttamente dal produttore, è un fenomeno che si sta rafforzando sempre di più: si tratta di luoghi spesso antichi e molto belli, oppure pionieristici ed innovativi, che offrono un’esperienza a tutto campo, coinvolgendo anche il territorio. Dall’indagine risulta che in media, tra i due campioni, il 32% degli intervistati (il 28% tra la popolazione Web Doxa, un po’ più giovane, e il 38% del panel HQ24, che comprende fasce d’età più ampie) ha effettuato un acquisto in una cantina negli ultimi 6 mesi.  Questo è un fenomeno importante: è espressione di un bisogno, so non addirittura di un desiderio, proveniente dal consumatore per il quale l’atto di acquistare vino, si trasforma in un’esperienza di piacere che lo arricchisce sul piano culturale e personale.
Un altro rilevante cambiamento nei luoghi e nei modi di acquistare è stato poi introdotto da Internet: l’e-commerce è un fenomeno in forte crescita. Considerando entrambi i campioni, una quota tra l’11 e il 14% ha effettuato un acquisto di vino via Internet negli ultimi 6 mesi.
Infine, non dimentichiamo l’acquisto presso la classica enoteca, che resta ancora una pratica abbastanza diffusa, anche perché le enoteche si sono evolute, affiancate a wine-bar o ristoranti. Spesso offrono informazioni approfondite, consigli, assaggi e un packaging adeguato per un regalo o una situazione particolare.
L’indagine evidenzia poi tante altre situazioni in cui viene comunemente acquistato il vino: l’agriturismo durante le vacanze, ad esempio, o i negozi di vino alla spina, presso i quali il 10% degli intervistati ha fatto un acquisto negli ultimi 6 mesi.

Le sincette

Derbusco Cives

Le Sincette e Derbusco Cives: punto vendita in cantina.

Che tipo di esperienza d’acquisto viene maggiormente ricercata dai consumatori?

I consumatori non sono tutti uguali: ci sono quelli più esperti, più sofisticati, più disposti a spendere, che richiedono un certo livello d’informazione. Poi abbiamo consumatori più abitudinari, più semplificatori, più tradizionalisti, che ripetono l’acquisto di una marca o di un prodotto che già conoscono.
Volendo tracciare un denominatore comune, quello che si chiede oggi è un’esperienza in cui il vino sia il protagonista: quando si accosta a un bicchiere o a una bottiglia di vino, il consumatore vuole assimilare la cultura che lo ha prodotto, l’ambiente, il territorio, il produttore, al di là del semplice prodotto.

La ricerca delinea 7 profili di bevitori. Può sintetizzarli?

Affiancando alcune variabili, dall’interesse conoscitivo nei confronti del vino alla disponibilità a spendere, al rapporto quantitativo, abbiamo identificato 7 profili, e chiesto poi ai nostri intervistati con quale si identificavano di più.
Il risultato è che possiamo individuare dei veri e propri entusiasti del vino, un gruppo inferiore al 10% tra i bevitori. Gli entusiasti sono competenti e appassionati, bevitori regolari, ben disposti a spendere.
È poi consistente il gruppo dei consumatori cosiddetti equilibrati, mediatori tra esigenze di qualità e di prezzo, che bevono “abbastanza”, e si appoggiano al consiglio dell’esperto, dell’amico, dell’enotecaro, del produttore o ricercano informazioni via Internet: siamo intorno al 27% nel campione più giovane Web Doxa e al 18% nel campione ancora più esteso HQ24, all’incirca un quarto dei nostri consumatori.
Un altro quarto di consumatori può essere definito di “aspirazionali”: hanno sete di informazioni, di sapere, di cultura, di stimoli, di storie riguardo al vino, ma considerano allo stesso tempo molto importante l’elemento prezzo. Per questo profilo sarebbe necessario studiare prodotti economici ma anche ad alto valore culturale, simbolico ed emotivo.
Poi abbiamo un 9% circa di “semplificatori”, dai gusti abbastanza semplici, basici. Non amano cambiare, hanno i loro vini di riferimento, sono molto attenti al prezzo, e si orientano su prodotti e marche solide, affidabili, trasparenti, oneste e fortemente riconoscibili.
I consumatori ancora più tradizionali e abitudinari sono coloro i quali non si discostano dal vino del loro paese, della loro regione, e tendono a bere quasi sempre lo stesso tipo di vino, mantenendo un forte legame con la terra d’origine e apprezzando la genuinità del prodotto. Sono generalmente consumatori un po’ più anziani in termini di età, più presenti al sud.
Infine abbiamo rilevato una quota pari al 7% circa di “follower”: non sono dei veri bevitori di vino, ma lo apprezzano nelle situazioni di convivialità, spesso fuori casa, nell’happy hour, durante le feste. Tendono a preferire vini frizzanti, in generale bianchi, e considerano il vino una bevanda ideale nella celebrazione della socialità.

Giv catalogo

Folonari Siti

Sopra: GIV (Gruppo Italiano Vini) catalogo prodotti.
Sotto: Guido Folonari web sites.

Per raggiungere questi diversi target, la comunicazione del vino dovrebbe differenziarsi, e come?

Sì, sarebbe opportuno. Spesso si ripetono i soliti cliché, riproponendo lo stesso messaggio allo stesso tipo di consumatore. In realtà, in questo momento di crisi in particolare, bisognerebbe osare, rompere gli schemi, inventare dei posizionamenti nuovi, pensando anche ai tanti consumatori “marginali”, che consumano poco e non s’intendono di vino. Non è utile guardare a questo segmento solo in termini negativi: bisognerebbe invece recuperarlo dando dei messaggi più facili da comprendere, posizionando i vini in termini più emotivi e divertenti, sollecitandone l’immaginario sul piano della fantasia. C’è spazio per diversificare la comunicazione del vino, pur mantenendo un denominatore comune.

Quali sono i valori che influenzano il consumatore nella scelta?

Il panorama del vino italiano è molto vario e complesso; tuttavia i valori che influenzano la scelta del consumatore possono sempre essere ricondotti a degli elementi basici che rimangono costanti nonostante cambino le mode, i tempi, i linguaggi. Per esempio l’esigenza di naturalità, che poi è anche un’esigenza di salubrità, è un driver della scelta molto importante. Il vino deve essere un prodotto naturale, vivo, onesto, autentico.
Un altro elemento importante è il territorio, che è l’elemento costitutivo dell’identità di un vino; sempre più italiani sanno che sono tanti i territori con delle qualità dal punto di vista enologico e non c’è più una regione migliore sulle altre.
Per il consumatore è anche sempre più importante che il produttore comunichi valori di sostenibilità, salvaguardia dell’ambiente, risparmio energetico, cura del territorio. Ad esempio, se il tappo di sughero resta un must, sinonimo di tradizione e di qualità, comincia però a esserci un’apertura nei confronti dei tappi non di sughero, se apportano dei vantaggi alla sicurezza del prodotto.
Altra questione molto dibattuta, quella dei solfiti: bisogna affrontarla. Mediamente non si sa affatto che cosa siano, ma vengono diffusamente associati a qualcosa che fa male alla salute. Tant’è che la conoscenza dei vini cosiddetti “zero solfiti” misurata dall’indagine è risultata molto più elevata di quanto ci si potesse aspettare. C’è, e sta crescendo, l’interesse del consumatore sulle sostanze che potrebbero arrecare disturbo, come i lieviti. In Italia ci sono sempre più persone vegetariane, cui è importante comunicare vini compatibili con la loro dieta.

Podere Forte

Calò enoteca

Sopra: Podere Forte, enoteca Perinquà.
Sotto: Michele Calò, enoteca.

Delle azioni strategiche da intraprendere per lo sviluppo futuro, dall’indagine emerge che branding e Internet non sono considerati prioritari per il vino italiano. Potrebbe approfondire questo dato?

Abbiamo proposto 14 strategie e su ciascuna abbiamo chiesto di dare un voto da 1 a 10, relativamente all’importanza per aumentare il successo del vino italiano nel futuro. Il ruolo della marca in sé, del puro aspetto esteriore e del packaging, ha suscitato un livello di interesse un po’ più basso rispetto ad altre strategie perché, come Internet, è visto più come un mezzo che non come sostanza. Infatti la strategia che ha avuto più voti è quella che implica una valorizzazione del vino per la sua naturalità e la sua salubrità. Al secondo posto abbiamo il territorio: mantenere il legame con il territorio è considerato un valore, così come salvaguardare l’ambiente da cui proviene il vino. Una terza strategia, al secondo posto per gli operatori della filiera vino, è l’export; in questo momento il mercato italiano è plafonato e statico in termini quantitativi, mentre l’export sembra dare delle prospettive interessanti.
Sono poi importanti la sostenibilità, già menzionata, e il prezzo. In questi ultimi anni si è spostata verso l’alto l’asticella del prezzo medio sul mercato italiano ma, soprattutto in tempi di crisi, il consumatore è diventato più scettico e richiede trasparenza e coerenza, oltre che sconti e promozioni soprattutto presso la grande distribuzione e su Internet.
Un’altra strategia complementare e sinergica, che ha contribuito a rinnovare l’immagine del vino, aprendo le porte ai consumatori più sensibili, riguarda i vini biologici: interessano e appassionano sempre di più, come per altro i prodotti alimentari biologici.
È anche considerata interessante la proposta di diversificare i vini in un’area “smart”, più easy, pensando ai giovani e a delle occasioni di bevibilità in cui è importante avere un grado alcolico controllato. Poi ancora, l’innovazione e la sperimentazione: raccontare le nuove tecniche agronomiche ed enologiche è una strategia che ha riscosso un certo interesse.

Come si potrebbero rendere più efficaci e più incisive l’attività di branding e l’attività su web?

Puntando sempre sulla personalità, sulla distintività di un vino rispetto a un altro. Per rendere chiare le differenze va rinnovato costantemente anche il vocabolario, il lessico che utilizziamo quando descriviamo un vino e le sue componenti organolettiche, piuttosto che le caratteristiche di produzione o il territorio da cui proviene. È importante comunicare gli elementi d’immagine del brand, della casa vinicola, coniugandoli con informazioni e terminologie che possono arricchire le nostre conoscenze.

Quali caratteristiche dovrebbe avere il vino di domani?

Il vino di domani deve facilitare e rendere migliore la qualità della nostra vita e delle nostre relazioni. Deve dare piacere ed emozione, mantenendo la sua immagine di prodotto vivo e vitale, ma con una parte razionale, sicura, affidabile, certificata, per essere bevuto senza preoccupazioni e paure. Non un vino per dimenticare, come si usava dire una volta, o per alterare i nostri stati di coscienza: al contrario, il vino del futuro è un vino che arricchisce, che porta emozioni, immagini, cultura, e tutti i valori legati alla filiera produttiva, importante nel nostro paese anche dal punto di vista economico. Il vino del futuro deve poter essere scelto con orgoglio e consapevolezza di una filiera importante, cha va sostenuta in tutta la sua complessità.

 

Tag Intervista, Packaging, Video

17 / 07 / 2013

Capsule: frammenti di storia, icone del presente

Divenute nel tempo vero e proprio simbolo delle bollicine, insieme ai tappi a fungo, le capsule applicate sui tappi delle bottiglie hanno cominciato a diventare oggetti da collezione nei primi anni ‘80, in Francia, nella Champagne. Oggi quei lamierini circolari, che possono valere da poche decine a migliaia di Euro, sono pezzi preziosi da conservare, elencati in appositi cataloghi per collezionisti e tema di eventi ed esposizioni per appassionati. Come la Mostra Nazionale delle Capsule tenutasi lo scorso 16 marzo nelle cantine Guido Berlucchi, a Borgonato in Franciacorta, con la presenza di espositori italiani, francesi e argentini.

Capsule ccc
Capsule personalizzate da SGA per l’anniversario del Club

La mostra, organizzata in collaborazione con il Club Collezionisti Capsule, ha proposto inestimabili collezioni da tutto il mondo, insieme a bottiglie d’antan e paraphernalia dal mondo del vino. A celebrazione della Festa di Primavera Berlucchi, sono state coniate una speciale capsula a ricordo dell’evento, già oggetto di culto tra gli appassionati, e una capsula su cui è stato impresso il nuovo logo a colori del C.C.C. Il Club, che negli ultimi anni ha fatto proseliti e organizzato incontri in tutta Italia, partecipato a saloni multitematici, fiere, convegni, e mantenuto contatti con diversi produttori, conta circa 250 iscritti, ma si calcola siano circa 5000 i collezionisti italiani.

Gianni Legnani premio

Arturo Ziliani con il presidente del Club, Pino Manieri, che consegna il premio a Gianni Legnani

Nate dall’intuizione di Adolphe Jacquesson, titolare di una Maison di Champagne, a metà dell’800, le “plaques de muselet” rappresentano l’apice dell’evoluzione dei metodi precedentemente utilizzati per evitare la fuoriuscita del tappo di sughero dovuta alla pressione, che consistevano essenzialmente in legature, fatte a mano, con cordicelle di iuta e fil di ferro. Assicurando maggior tenuta alla gabbietta metallica preformata brevettata da Jacquesson, le capsule garantivano una chiusura ermetica alle bottiglie di Champagne preservandone le caratteristiche. Una geniale invenzione che fu presto adottata da tutti i produttori di vini spumanti, diventando simbolo di qualità.
Dalla seconda metà del ‘900 le capsule sono litografate, serigrafate o laccate, arricchite di elementi decorativi, stemmi e marchi: oggi protagoniste della comunicazione pubblicitaria di case di Champagne e di Metodo Classico italiano, le capsule sono un elemento stilistico che non può essere trascurato all’interno di ogni progetto di packaging e di immagine globale delle aziende produttrici di spumanti.

Anche le cantine italiane ne conoscono la valenza estetica e comunicativa: protagoniste della home page del sito web Berlucchi, le capsule in metallo sono diventate elemento di caratterizzazione dei coperchi delle casse di legno del produttore, valorizzate così da una personalità distintiva.

Berlucchi site

Per un approfondimento sull’evoluzione storica della capsula da spumante, è possibile consultare il testo redatto da Gianni Legnani, già direttore del Centro Informazioni Champagne in Italia per conto del Comité Interprofessionel du Vin de Champagne.
http://www.winetaste.it/la-capsula-da-spumante-ha-162-anni/

Tag Global design, Packaging

07 / 06 / 2013

Secondary solo nel nome

Due calici si incrociano danzando. Siamo al tavolino di un’osteria tipica, travi a vista e pareti di pietra. Dalla finestra filtra una luce dorata, il tramonto porta con sé la giornata di lavoro e ci concede un momento solo per noi. Vini eccellenti sono elencati sulla lavagna affissa alle spalle del bancone, l’oste è prodigo di consigli. Ma quello che cattura la nostra attenzione sono le decine di bottiglie poste a ridosso delle pareti.
E soprattutto i lussuosi imballi di legno sugli scaffali, le eleganti confezioni di edizioni limitate. Una sapiente combinazione di colori e materiali attira il nostro sguardo e fissa nella nostra memoria nomi di grandi vini, associandoli a nobili varietà di uve.
Casse e imballi di pregio personalizzano l’intera location, impregnandola di atmosfera, e diventano oggetti del desiderio.

Gaja tubi

Berlucchi Palazzo Lana

Infatti, perché un vino sia percepito e ricordato come “di valore”, non bastano territorio, uvaggi e tecnica enologica, né sono sufficienti unicamente struttura e profilo organolettico. Lo sanno bene i produttori di vino, che da tempo hanno capito quanto l’estetica del prodotto sia importante per avvicinare i consumatori e trasmettere loro un messaggio forte e chiaro. Se bottiglia, tappo ed etichetta rappresentano l’essenza dell’immaginario evocato da un marchio, confezioni speciali e astucci sono in grado di elevarne e amplificarne la portata.
Quelle confezioni le ritroveremo sul web, in un corner all’enoteca, lungo le corsie della grande distribuzione. L’accostamento di forme e immagini con cui si impongono al nostro sguardo, ci fa attardare incuriositi davanti a un espositore, fantasticare sul momento in cui doneremo un prezioso gift box o indugiare soddisfatti davanti alla cantinetta di casa, assaporando il momento in cui stapperemo la bottiglia migliore.

Alta Langa Serafino

Alois Lageder Riff

Il packaging secondario è uno tra i più potenti strumenti nelle mani dei produttori: copre una categoria molto vasta, in cui si ritrovano elementi di comunicazione dalle caratteristiche e dai costi molto diversi. Imballo da 6, astuccio singolo, limited edition, confezioni speciali, espositori, confezioni regalo: a prescindere dal contesto d’utilizzo, tutte le declinazioni hanno un unico obiettivo, quello di enfatizzare il messaggio trasmesso dal brand e dalle vestizioni, coerentemente con l’indirizzo strategico aziendale. I secondary packaging faranno riferimento nella loro interezza alla filosofia che sottende il marchio, a partire dalla scelta dei materiali, come ci ricorda l’esempio di Alois Lageder.

Zenato casse

Gaja casse legno

Così le cassette di legno progettate per i vini Zenato, una volta dischiuse, rivelano preziosi scatti fotografici; quelle “grissinate” che contengono il Barbaresco vinificato da Gaja sono creazioni uniche, dalla forte personalità. I cartoni e gli astucci litografati Enrico Serafino Alta Langa, con dettagli dorati e argentati, illuminano la bottiglia come un gioiello il collo di una donna.
Gift box e Limited Edition, pensati per valorizzare particolari annate e vendemmie, aumentano fortemente il valore percepito dei brand.

Berlucchi cantinetta

Oltre a fare da megafono alla comunicazione del marchio, il packaging secondario contribuisce a tessere la trama del rito che precede la degustazione in modo originale e memorabile; a volte facendo da vero e proprio complemento d’arredo, come nel caso della gift box di Berlucchi, capace di tingere l’ambiente dell’enoteca e del lounge bar, ma anche della nostra cucina, di una vivace ospitalità. Un vero e proprio modello di design versatile e modulare.
Insomma, secondario solo nel nome.

Tag Global design, Packaging

15 / 04 / 2013

Rosé & Rosato: non un vino ma uno stile di vita

Spumanti rosati

“Il vino, dopo l’uomo, è il personaggio più capace di raccontare storie, di lanciare messaggi vasti e antichi, di presentarsi con i suoi documenti d’identità completi”, così parlò Veronelli (citazione da pag. 300 del libro “Luigi Veronelli. La vita è troppo corta per bere vini cattivi” di Gian Arturo Rota e Nichi Stefi).
In questa identità complessa, il colore del vino è il richiamo visivo che affascina e stimola, attrae e incuriosisce.
Il rosa, nelle infinite varianti che vanno dal caldo corallo al dorato, non è il colore di un vino ma di due universi ammalianti: il Rosé e il Rosato.
Con Rosato intendiamo i vini del centro sud, i più famosi sono i salentini, con Rosé parliamo di vini del nord che possono essere fermi o mossi. Vini con doti di freschezza, di immediatezza, uniche. Doti che li rendono non solo piacevoli, anche brillanti compagni di occasioni conviviali; accompagnano abitualmente entrée di pranzi e cene anche importanti e esaltano il gusto di sane colazioni mediterranee.
Sono i rosati che ogni anno traghettano nuovi consumatori al vino: i palati poco educati alla complessità dei vini possono scoprire gradualmente questo universo, cominciando con i rosati che offrono soddisfazioni degustative comprensibili e stimolano la scoperta di sensorialità più articolate educando il palato; evoluzione che si verifica solo se la scelta sarà orientata a vini Rosé di qualità.

Calo rosato

Addentriamoci in quella terra spazzata dai venti tra mare e mare, lo Ionio e l’Adriatico, per accedere ad un mondo dove il tempo ha i ritmi lenti delle lunghe estati che regalano uve nobili, zuccherine, come il Negroamaro da cui nasce il Riserva Cerasa delle Cantine Michele Calò e figli. Fernando e Giovanni Calò ci raccontano di come abbiano deciso di accettare una sfida: “il Mjere è il nostro Rosato classico, poi lo scorso anno abbiamo deciso di produrre un Riserva, il Cerasa. La procedura è quella classica a “lacrima”: 100 Q.li circa di uve selezionate Negroamaro nel serbatoio a temperatura controllata, una sosta sulle bucce di 12/15 ore, questo è il tempo giusto per ottenere un colore rosa corallino ed un gusto equilibrato, ricco di sapori. Il peso importante dell’uva fa esplodere i chicchi naturalmente, la parte liquida si posiziona in basso, mentre la parte solida, le bucce, si posiziona in alto (viene chiamata anche vinificazione ad “alzata di cappello”).
Durante la svinatura dei 100 Q.li di uva otteniamo solo 30/35 Q.li di mosto rosato fiore, un prodotto spontaneo senza nessuna pressatura, con un colore meraviglioso, brillante come quando lo mettiamo in bottiglia.
Rosato come il colore del Salento”.
“È stata una sfida” continua Fernando “perché avevamo il nostro mercato consolidato, non sapevamo come avrebbe reagito ad un nuovo prodotto. Abbiamo lavorato molto sull’immagine del prodotto, sull’etichetta, doveva comunicare la novità ma anche offrire un anticipo delle sensazioni che il vino riserva, perciò ha una grafica studiata, quasi classica ma molto personale armoniosa. Il mercato è pronto, ha voglia di novità, di sorprese, noi abbiamo voluto sorprenderlo. Sono 10.000 bottiglie, destinate a chi sappia già degustare un buon Rosato, a chi conosce bene il nostro Mjere. Siamo molto soddisfatti del posizionamento ottenuto e della risposta del mercato”.

Costaripa rosato

“I Rosé sono vini dell’arco alpino, sono meno alcolici, più acidi, molto freschi, molto sapidi, e sono estremamente chiari di colore” così Mattia Vezzola di Costaripa apre a raccontarci dei vini di questa zona eletta, Valtenesi, sulla sponda dannunziana del lago di Garda.
“Il punto più a nord dove si coltivano agrumi, dove ci sono i capperi, gli ulivi, i cedri (la Tassoni è di Salò) che si coltivano in 3 posti nel mondo: il Libano, la Calabria, qui sul lago di Garda, una parte di Mediterraneo a ridosso delle Prealpi”.
A rendere speciale questa terra è il clima “Un clima unico”  racconta Mattia con molta padronanza dell’argomento “estremamente temperato, qualità/vocazione che nasce dalle dimensioni del Garda: 370 km2, un cm2 di acqua dà origine a 1.400.000 ettolitri circa di acqua la cui temperatura minima invernale è di 7°”.
In questa terra si è sempre prodotto vino “Il grande passo si fa nel 1896 quando un senatore veneziano, certo Pompeo Gherardi Molmenti, sposa una ricchissima signora di Salò, Amelia Brunati, che porta in dote una splendida villa con 15 ettari che vanno a lago. Lui fa un viaggio a Bordeaux e si innamora di quel vino, assolda 2 enologi e se li porta a Moniga dove il terreno è ghiaioso, giallo argilloso, il clima è mediterraneo, si chiama Moniga ma potrebbe chiamarsi Saint Tropez, pensano: questa è terra di rosé e nel 1896 nasce il primo rosé, la prima etichetta nel 1904”.
“Da allora coltiviamo vitigni esclusivamente italiani: Groppello, Marzemino, Sangiovese e Barbera. Il Groppello è una delle uve più rare del mondo, ce ne sono 500 ettari solo lì, nel 700 era presente anche in Val di Non a Massacara poi, piano piano, si è ritirato e ha trovato il suo ambiente ideale sul lago. Barbera e Sangiovese sono i due vitigni più diffusi in Italia nelle DOC. quindi, il Rosé è un vino tipico italiano”.
“Il nostro rosé è un vino che si può abbinare a tutti i piatti speziati: dove c’è l’acciuga, il cappero, il rosmarino, la salvia, il pomodoro, il basilico, il peperone, in più ha facilità di essere bevuto anche fresco e, normalmente, questo tipo di vino, questo tipo di alimentazione, questo tipo di clima si ha dove la gente è estremamente moderata, quindi, il Rosé non è un vino ma uno stile di vita”.
“Vino di altissima tecnologia, il rosé è di una setosità di una delicatezza, è un cachemire, molto raffinato, bisogna saperlo lavorare, saperlo trattare. Ha bisogno di grande rispetto come materia, al contrario di quello che si pensa del rosé, si crede siano vini “reflui”, di seconda qualità  e le aziende li producono perché sono di moda, il rosé è richiesto, incrementa le vendite”.
“Consiglio a tutti i consumatori di accostarsi al rosé degustando solo vini a denominazione, primo tra tutti Valtenesi. Siamo scivolati, per negligenza nostra, verso un basso profilo ma noi, Valtenesi, io in particolare, stiamo facendo grandi sforzi per riportare la prua sommersa di questa nave a navigare cavalcando l’onda. La scelta di produrre rosé di qualità è premiante sia per il produttore che per il consumatore, è in arrivo lo tsunami puzzolente di color rosa, distinguersi ora facendo scelte di alta qualità, investendo risorse e competenze, consente un posizionamento che il mercato italiano e quelli esteri più educati, ripagano ampiamente”.

Ferghettina rosato

Laura Gatti dell’azienda Ferghettina ci porta in Franciacorta, terra di bollicine pregiate e ci sorprende dichiarando, senza mezzi termini, di amare il Pinot Nero, di un amore incondizionato, quindi, il loro Rosé - 100% Pinot Nero - ne è la sublimazione.
“Tutt’altro che facile, tutt’altro che pensato per chi vuole una cosa leggera e poco impegnativa” così esordisce Laura, una premessa che ci inchioda qui, ad ascoltarla, in attesa che risponda alla nostra silente domanda: perché? “Per valorizzare questa tipologia: il nostro disciplinare prevede un minimo 25% Pinot Nero, volendo uno potrebbe fare 25% Pinot Nero e 75% Chardonnay. Quando abbiamo deciso di produrre un rosé volevamo che fosse una cosa molto diversa, perché altrimenti non aveva senso produrlo. Nel tempo siamo passati da poche bottiglie ad un numero sempre maggiore, mai tantissime, oggi sono 30.000, in funzione della disponibilità di Pinot Nero, per mantenere l’identità in purezza e perché l’obiettivo era unire la struttura, la forza, l’aspetto varietale di una bacca rossa con l’eleganza di una bollicina; un nettare gradevole, bevibile ma con una personalità abbastanza decisa.”
La mente non può non rincorrere uno champagne, il Cuvée Rosé Laurent Perrier anche lui 100% Pinot Nero, lo champagne Rosé per antonomasia, Laura sorride compiaciuta a questa comparazione e chiarisce subito che i due prodotti hanno “vocazioni” diverse.
Perché tutt’altro che facile? “È stato un po’ più difficile all’inizio, sul mercato si trovano rosé più morbidi, più accattivanti, fatti per non creare pensieri. Spiegare, far capire la nostra idea di prodotto, abbiamo dovuto essere strategici, precisi, nella comunicazione, nell’immagine del prodotto. Adesso ce lo chiedono, perché è un prodotto diverso, la degustazione premia.”
Il futuro? “In una dimensione di nicchia ha trovato molto bene il suo spazio. È un vino che non solo accompagna, esalta piatti di pesce, carne come culatello o crudità, filetti scottati dal gusto più deciso. Abbiamo voluto che il nostro rosé fosse, a tutti gli effetti, molto varietale, che manifestasse queste note di frutti di bosco, di lamponi, di ciliegie sotto spirito, molto legate alla varietà, che fosse persistente, corposo senza perdere di vista una delle caratteristiche delle bollicine, la bevibilità. Altri produttori cercano di fare questo percorso, noi abbiamo già creato e posizionato un prodotto unico: ha la freschezza acidica delle bollicine allo stesso tempo regge senza problemi un pasto strutturato … stiamo cercando di farlo sempre più deciso, come note. L’attenzione al dettaglio, nel definire l’immagine de prodotto, l’etichetta e la comunicazione, ci consentono di patrimonializzare come valore tangibile il presente e il futuro di questo Rosé.”

Tag Packaging

02 / 04 / 2013

2013 - Unico People & Style: Vino e design

Si può bere un’etichetta? Ci si può innamorare della forma sinuosa di una bottiglia?
Può una confezione curata nei dettagli influenzare il palato? Comunque si risponda, una cosa è certa: “vino e design” è un binomio affascinante, quanto scivoloso. Affascinante, perché è innegabile. Negli ultimi anni, anche le cantine più polverose hanno rinfrescato la loro immagine, anche i produttori più restii si sono impegnati a costruire una strategia di comunicazione in grado di gareggiare alla pari con una concorrenza sempre più forte, sia casalinga sia soprattutto in arrivo dai competitor stranieri. Scivoloso, perché è altrettanto innegabile. Il contenitore non sarà mai il contenuto e se al museo vi capita di soffermarvi più sulla cornice che sul quadro, vi state perdendo senza dubbio qualcosa.

Gaja secondary packaging

Prese le giuste misure, si può iniziare a esplorare questo binomio chiedendo aiuto a uno dei massimi esperti in materia: il grafico Giacomo Bersanetti che, con il suo studio SGA di Bergamo, ha vestito centinaia di bottiglie, contribuendo al successo di nomi come Gaja, Braida, Enrico Serafino e Villa Sparina. “Il design - dice Bersanetti - mira a conciliare aspetti tecnici, funzionali, economici degli oggetti prodotti in serie, che nel mondo vinicolo si arricchiscono anche di contenuti simbolici, emozionali e culturali. L’etichetta rimane protagonista, ma non c’è elemento che possa essere trascurato; infatti, il risultato più efficace si raggiunge con la progettazione di tutti gli elementi coinvolti, in particolare con il design della bottiglia. Il tema è delicato, perché la forma del contenitore può influire sull’evoluzione del vino stesso, deve rispondere a esigenze funzionali diverse. Inoltre, deve comunicare una personalità distintiva, valorizzare il prodotto senza prevaricarlo e integrarsi con gli altri elementi della vestizione.”
Dunque, l’etichetta è la prima protagonista. Lo sa bene un personaggio come Cesare Baroni Urbani, zoologo marchigiano in pensione che ha speso buona parte del suo tempo libero a collezionare etichette di vino da tutto il mondo. Ne ha raccolte quasi 300.000 e recentemente le ha donate al Comune di Barolo, con il vincolo di creare un fondo al Museo del Vino allestito nel castello. Scorrendo la sua straordinaria collezione, si leggono stili e tendenze, si scoprono curiosità e ricercatezze. C’è l’etichetta dello Champagne Veuve Clicquot, quando la “vedova” non era ancora tale e sulle bottiglie campeggiava il nome dello sconosciuto marito Eugene.
C’è la serie completa, dal 1945 a oggi, delle celebri etichette d’autore fatte realizzare dal Barone de Rothschild per festeggiare la fine della guerra, coinvolgendo artisti come Picasso, Chagall, Mirò ed Andy Warhol. Un’altra serie originale è quella che ogni anno, dal 1985, la californiana Nova Wines dedica alla bionda più famosa del cinema con il titolo “Marilyn Merlot”. “I Paesi produttori del nuovo mondo - spiega Bersanetti - hanno uno spessore storico e culturale completamente diverso dal nostro; ciò si riflette non solo sul modo di vestire il vino, ma anche di pensarlo, produrlo e proporlo. L’avvio della produzione vinicola, a parte casi molto rari, è recente in questi Paesi, per cui riscontro nei packaging molta freschezza ma, nonostante l’elevato grado di sperimentalità, noto anche una relativa uniformità: di conseguenza, non è facile stabilire se un vino proviene dal Sudafrica, dal Cile o dalla Nuova Zelanda.”
Ma quali sono le nuove tendenze nelle etichette, nel packaging e nel formato delle bottiglie stesse? “Sono in declino i virtuosismi grafici e la ridondanza estetica, in favore di maggiore pulizia e chiarezza.

Braida

Lo spazio libero - continua Bersanetti - trasmette autenticità ed eleganza e permette di apprezzare il valore di una carta pregiata, come la ricchezza di un dettaglio nobilitato da una lavorazione speciale. L’etichetta tende a tornare verso le forme primarie, allontanandosi dalle silhouette di fantasia. Parlando di bottiglie, le forme archetipiche, borgognotta e bordolese, negli anni si sono evolute raggiungendo sintesi di eleganza e praticità.” Il maggiore rispetto verso l’ambiente e l’attenzione per la sostenibilità produttiva, hanno poi creato un generale orientamento verso la riduzione del peso del vetro e una serie di riflessi positivi. “Oggi – afferma ancora il noto designer - le soluzioni più interessanti sono quelle capaci di creare sinergie e coerenza comunicativa su più livelli, grazie all’integrazione di linguaggi diversi: dall’architettura della cantina alla vestizione dei prodotti, dal disegno della bottiglia al sito web e ai social media; dal secondary pack alla creazione di eventi. Ciò che noi chiamiamo global design, il risultato di un lavoro sempre più interdisciplinare”.
Un buon esempio è quello realizzato a Barolo da Gianluca Viberti, produttore che nel 2010 ha deciso di lasciare l’azienda di famiglia per iniziare un’avventura tutta sua. “Mi sono trovato davanti a una pagina bianca, con l’esigenza di costruirmi un’identità e di renderla riconoscibile - racconta Viberti - Non è stato facile, ma ho potuto dare libero sfogo alla creatività, non dovendo ripiegare su un semplice lavoro di restyling”. È così nato il progetto di Casina Bric 460, che ha ottenuto anche un premio per il packaging al Top Application Award di Milano. “A partire dal nome, che richiama in dialetto la località dove si trova la mia cantina e l’altimetria media dei vigneti, ho cercato un marchio originale, intuitivo e in grado di comunicare qualcosa”. La linea grafica è moderna, il packaging è curatissimo, dall’etichetta alle confezioni fino alle bottiglie, per le quali Viberti è andato a rispolverare le forme basse e tozze della “poirinotta”, una bottiglia in voga a fine del XVIII secolo. Il contenitore è all’avanguardia, ma il contenuto è saldamente legato alla tradizione. “Abbiamo giocato sul contrasto: chi vede le mie bottiglie, pensa a un vino moderno, internazionale. Invece, scopre un Barolo classico, realizzato in vasche di cemento e grandi botti di legno. Sono convinto che la cura del dettaglio sia la strada giusta, soprattutto se si vogliono portare i propri vini anche all’estero.”
La pensa così anche un’altra rinomata cantina di Barolo, come Damilano. Un’azienda che, pur essendo legata alla tradizione e alla sua lunga storia, sa anche essere molto dinamica e attenta al rinnovamento. Dal re Cannubi all’alfiere Cerequio, dalla torre Liste al cavallo Brunate, tutti gli storici cru di Barolo di Damilano trovano in etichetta una propria collocazione e un’identità all’interno della scacchiera della vocazione territoriale e dei gusti dei consumatori. E il restyling non si è fermato solo al prodotto, ma ha coinvolto anche la cantina grazie a un importante intervento di ristrutturazione.
Gli errori da non fare? “Destinare risorse a progetti non ben mirati e poco coerenti con le linee costitutive dell’identità aziendale, della comunicazione e delle attività di marketing – risponde ancora Bersanetti, – così come cercare scorciatoie ricalcando idee altrui.”
Anche con vino e design, meglio diffidare delle imitazioni.

Tag Packaging

20 / 03 / 2013

2013 - Wine Pass Piemonte: Da Passum ad Avié

Cascina Castlet passum

C’erano le etichette con la casetta del contadino e quelle con la vigna. C’erano quelle col grappolo d’uva, le colline e, ancora, quelle con lo stemma di famiglia. E poi c’era l’etichetta di Passum, Barbera d’Asti Superiore prodotta da Cascina Castlet. Siamo nel 1985 e il design applicato alle etichette è ancora un campo da esplorare. Non per Mariuccia Borio che, con un gesto di ribellione rivelatosi vincente, commissionava a Giacomo Bersanetti (oggi uno dei più importanti artisti del packaging enoico in Italia) quello che sarebbe diventato il più celebre e blasonato “vestito” della Signora in Rosso: “volevamo un’etichetta unica, ne abbiamo creata una d’avanguardia”, dice la titolare di Cascina Castlet.

Per continuare a leggere l’articolo, è possibile effettuare il download del pdf, nel riquadro a sinistra

Tag Packaging

16 / 03 / 2013

2013 - Rassegna dell’imballaggio: Dalla bottiglia all’esperienza d’acquisto

Il punto di vista del designer: Creare l’immagine di un vino

Giacomo Bersanetti, Chiara Veronelli e Francesco Voltolina di SGA, agenzia specializzata in corporate identity e packaging di prodotto.
«Vestire un vino in modo adeguato è un percorso che non può essere compiuto secondo regole standardizzate. Per creare l’immagine di un vino e di una cantina è fondamentale procedere ad un’analisi che consente di capire diversi aspetti; oltre alla storia specifica del produttore importanti sono il contesto culturale e territoriale a cui appartiene, quali sono gli obiettivi e la filosofia che caratterizza la produzione, quali i competitor, ecc..

Contadi Castaldi bottle

Ed è solo dopo aver compiuto questa ricognizione ed aver definito le linee guida, che possiamo concentrarci sul singolo vino, piuttosto che su una linea, per coglierne in profondità le caratteristiche specifiche che determinano la personalità. Si tratta anche di entrare in sintonia con la capacità evocativa che da sempre al vino appartiene, dando accesso all’immaginario che quel particolare vino nasconde. Sono i riferimenti simbolici e il linguaggio archetipico il mezzo attraverso il quale possiamo comunicare alla sfera più intima dell’individuo, veicolando valori che non sono mera apparenza ma riflettono qualcosa di estremamente concreto come la personalità e le qualità del vino». L’evoluzione qualitativa che ha caratterizzato il mondo del vino in questi ultimi trent’anni si riflette anche sul modo di vestire la bottiglia, attraverso l’etichetta. Ma lo studio di un packaging appropriato può, sempre più spesso, comportare anche il progetto di una bottiglia originale. La forma della bottiglia è un ottimo strumento di comunicazione che può risultare determinante per comunicare distintività, posizionamento più elevato, ma anche per veicolare l’identità di marca come nel caso del progetto realizzato per Contadi Castaldi. E, ancora, un progetto di packaging va oltre la bottiglia per contemplare tutto ciò che ruota intorno all’imballo secondario, fino alla logistica, soprattutto considerando che sempre più il vino italiano è destinato ai mercati esteri.

Per leggere tutto l’articolo, è possibile effettuare il download del pdf, nel riquadro in alto, a sinistra

Tag Global design, Packaging

08 / 03 / 2013

Identity, evoluzione dell’architettura

Il punto in cui sorge non è casuale, è un luogo leggendario. La leggenda vuole che il fondatore della città, alla sua morte, qui fosse rapito da un’aquila e portato in cielo. Parliamo di Roma, di Romolo e del Pantheon.
Adriano, l’imperatore che lo volle, non conosceva i termini “brand identity” ma era profondamente consapevole della potenza dell’architettura nel comunicare caratteristiche e valori di un “nome” (oggi brand).

Ogni forma architettonica sviluppa un suo codice di comunicazione, attraverso una grammatica crea episodi individuali che traghettano il lettore in un percorso che, come le navigazioni memorabili, avviene in acque sconosciute.
L’architettura può plasmare il futuro, le scelte, l’incontro dello sguardo con una realtà architettonica coinvolge sempre la memoria, l’architettura stessa è memoria, ci emoziona e ci spinge a ricercare e ritrovare quelle emozioni in oggetti della memoria.
Il linguaggio dell’architettura è fatto di luce, di materiali, di proporzioni, di acustica, di storia.
Nasce da un pensiero simbolico, si esprime attraverso simboli e metafore e non può prescindere dalla realtà che lo ha generato e di cui darà la percezione più lirica.
Lo spazio architettonico porta sempre qualcosa di nuovo in sé grazie alla complessità degli elementi che lo compongono e dei vissuti che ospita.

alois

Lo spazio non è mai questione di dentro e fuori, di cosa contiene o non contiene, non è solo una percezioni fisica; lo spazio è cultura.
È lo spazio dell’immaginazione, lo spazio del non conosciuto, dell’invisibile, non è quello che percepiamo fisicamente è celebrazione di un’arte ispirata dal tempo, dalle tradizioni, perciò dinamica, soggetta a molte influenze, aperta a nuove viste e nuovi orizzonti.
“Non c’è bisogno di integrare la comunicazione con l’architettura: l’architettura è comunicazione, se non comunica non serve assolutamente a niente. Un cubo neorealista tristissimo può essere altrettanto stupido e brutto di una forma estremamente dilatata o priva di geometrie classiche o semplici. Il problema sono le idee e la magia che comunicano. L’architettura se non riesce a comunicare e non riesce a dare quella magia che ci manca , non ha senso.” Queste sono parole di Massimiliano Fuksas l’architetto contemporaneo più visionario capace di materializzare sogni in spazi e architetture di pochi metri cubi come in opere gigantesche come la sua “Cloud” in cantiere a Roma.

Queste peculiarità rendono l’architettura fonte di ispirazione per brand che nascono da un’evoluzione, un’estensione dei concetti e dei valori intrinsechi del progetto.
Non un’attività spontanea ma uno studio che trasferisce il valore visivo della struttura architettonica in identity, in brand, in packaging.
A motivare questa scelta ci sono valori non solo condivisi ma correttamente espressi e rappresentati nelle forme grafiche, nei volumi, nelle sensazioni che prodotto e luogo ispirano in sinergia. Sono tratti che si colgono sia consapevolmente che inconsapevolmente: chiunque percepisce, nel vedere la cantina Ca’ Marcanda di Angelo Gaja in Toscana progettata dall’arch. Giovanni Bo, il gioco architettonico dei tetti riportato poi, con senso grafico, nelle etichette che creano un piacevole e singolare collegamento emozionale e materico.
Così come anche l’occhio più distratto non può non sorprendersi alla vista delle etichette dei vini Alois Legeder di Magrè, la forma obbliga l’occhio e la mente ad una ricerca che risponda alla domanda più ingenua: perché questa forma? La forma dell’etichetta corrisponde alla pianta della cantina, progettata dallo studio Abram & Schnabl, e attribuisce al prodotto un forte senso di origine, una garanzia genetica.

Petra

Sicuramente uno degli oggetti architettonici utilizzati in un’estensione molto incisiva nel brand aziendale è la cantina Petra di Suvereto, progettata dall’arch. Mario Botta: fortemente caratterizzante la struttura architettonica è risolta in stile minimal nel brand trasferendo all’occhio le stesse sensazioni calde, energiche.
Non sappiamo se i progettisti fossero consapevoli del fatto che la sfera di influenza delle loro opere si sarebbe allargata all’identità del prodotto, cogliamo attraverso queste realizzazioni la potenza, la capacità di interpretazione e di comunicazione di valori che vestono il prodotto trasferendo, al consumatore, una missiva che stimola alla degustazione come ad un’esperienza sublime.

Tag Global design

07 / 03 / 2013

2013 - Wijnalmanak magazine: De Pro

Sara Mutti works for SGA design, an Italian design agency that specializes in wine branding. For thirty years, they have provided the image of well-known wineries: from wine names to logos and from bottles to websites. Italian wineries as Berlucchi, Gaja or Lageder are amont their clients, but also the American Kendall Jackson. For each client SGA develops a specific communication strategy.

Tenuta di Arceno

How can you summarize what you do?
“You can consider it the postproduction of a wine. Today, the look of a wine is enormously important: there are so many competitors, how you jump out? Wine is such an emotional product, almost a lifestyle that consumers want to identify with a particular image. Every wine producer tells a story - the packaging is the translation.”

Sounds good, but how does such a ‘translation’ look like in practice?
“We engage in numerious conversations with the winery. What is the history, what are the specific features of the soil? We try to find unique clues. Alois Lageder is a good example. He was one of the first producers who was very concerned with the environment - its logo and bottles had to convey this philosophy. We have done that in collaboration with contemporary artist. We do not go along with trends. The design should be timeless, yet it should stand out in the crowded store shelves. And it should be appealing both in Italy as well as abroad.”

The design is reflected in labels and logos, but there are other ways?

“Striking design goes much further than just the logo. Berlucchi launched a specific type of Franciacorta, the ‘61, with which they not only brought an ode to the origin year of Franciacorta, but also wanted to be a kind of retro brand appealing to younger drinkers. We have translated this into a clear-sixties look, from the bottle to the stands where the wine was served. We were inspired by mood boards with pictures from that time.
Another example: Cascina Castlet in Piedmont, is a very young and modern working winery that forms a contrast with the companies in the region that bend on a long family tradition, with castles and such. Therefore we designed modern graphic shapes for them that are imprinted on the bottle. Sometimes even we design an eye-catching bottle - like that of the brand Bocchino. With everything we do we want to escape conventions.”

Tag Intervista, Press

22 / 02 / 2013

Quando le idee si incontrano e si accoppiano

Viviana Varese è astemia, Enrico Bartolini è un discreto bevitore, Matteo Baronetto è un pragmatico degustatore.

Alberto Longo

Ecco, questa la sintesi che ha portato la mia mente ad effettuare un volo raso su alcuni concetti che poco hanno a che fare con la cucina, molto con l’estetica. Estetica strutturale, l’estetica di un gioco perfetto, un equilibrio fantastico, come i fiocchi di neve: non ce n’è uno uguale all’altro.
“Quando le idee fanno sesso” il concetto con cui Matt Ridley ha spiegato il valore dello scambio nella generazione di intelligenza collettiva o intelligenza sistemica come la definisce Peter Senge: le persone mantengono la propria diversità, sono soggetti che si coordinano in base a un pensiero comune emergente dalle loro interazioni che estendono le loro capacità, influiscono sugli interessi, sui comportamenti, senza omogeneizzarli, motivando l’emergere di una forma di complicità.
Torniamo in cucina, parlando con questi chef della complicità tra cibo e vino, tra loro e i sommeliers, tra l’estetica del vino e l’estetica del cibo, sono emersi due valori comuni: condivisione e libertà.

Viviana Varese

Nella foto, una creazione di Viviana Varese

La libertà sembra essere il manifesto di Viviana Varese e Sandra Ciciriello, sua socia e sommelier, un valore molto femminile e un po’ obbligatorio visto che Viviana non degusta vino. Sandra decide, sceglie la sua cantina e, in questa scelta, hanno molta importanza sia il passato che il presente: Sandra era pescivendola ha insegnato l’arte di conoscere, amare e scegliere il pesce a Viviana e, di questo ingrediente principe della cucina di “Alice”, conosce ogni sfumatura degustativa. Ciò le consente di creare scenari da “tavola” nella sua mente, scenari costruiti sul gusto, sulle intuizioni e sulla storia dei singoli vini. Un quadro, dove l’estetica è manifesta nella sua più sottile e articolata rappresentazione: il cibo.
Viviana inventa, crea, in assoluta libertà con la consapevolezza, la certezza, che i vini proposti da Sandra, con il suo stile molto personale, esalteranno le sue creazioni. Ricordiamo tutti il “panino Bruciato”, brutto anatroccolo di Viviana, da cui nasce un’esperienza degustativa unica, un viaggio nel “paese delle meraviglie” di Alice, accompagnati dalle note sempre diverse di vini scelti con estrema padronanza da Sandra. In tavola, solo in tavola, avviene la magia dell’incontro.
Come poteva definire questo connubio Viviana? Vincente.

Sansonina

Enrico Bartolini riconosce il grande potere comunicativo dell’estetica in tavola, l’anima dei contenuti è accessibile dopo la scelta estetica. Ama sorprendere con misura il suo ospite con qualcosa di non completamente sconosciuto perché lasci traccia, crei un solco di ricordo nella mente di chi degusta. In questo abile lavoro di sensazioni deve tenere conto di consistenze tecniche o istintive, di profumi e sapori, di suoni interni ed esterni, di fattori che condizionano e modificano l’approccio con la tavola. Enrico è un artista appassionato, la sua passione si allarga al vino. “Io collaboro con Pino Savoia (direttore di sala amante del vino) e Giusy Romano sommelier. Essendo un discreto bevitore e attento appassionato, spesso mi lancio in suggerimenti e dritte. Mi rendo conto di essere molto pretenzioso. L’abilità di selezionare e proporre il vino “agli altri” sta proprio nel capire i desideri altrui ed essere convincenti con concretezza gustativa. Io ritrovo queste caratteristiche nella squadra che mi aiuta a condurre l’attività”.
Estetica del cibo ed estetica del vino sono affinità vincenti, pur essendo soggettivi i concetti di bello e buono, Enrico non sopporta le cose cattive e brutte.

Cracco

Nella foto, una creazione di Matteo Baronetto

Da un attento, creativo, fantasioso chef di Cracco non stupisce questa pacata dimensione pragmatica che ne distingue lo stile. Matteo si confronta quotidianamente con Alberto Piras, un sommelier preparato, propenso a studiare, a rinnovarsi, curioso. Ne offre questa definizione e la loro condivisione è un fatto di “naso”; il loro è un lavoro che si assomiglia, sostenuto dalla continua ricerca e scoperta, a naso capiscono cosa può assomigliarsi, cosa si sposa bene per natura e non è detto che “chi si assomiglia si piglia”.
La cucina è un “insieme” di prodotti, il vino da accostare è motivato da due filosofie diverse: un vino per ogni portata o 2 soli vini da abbinare a gruppi di portate. Matteo e Alberto perseguono quest’ultima; le scelte nascono da un percorso molto complementare, un interscambio di idee e condivisione di obiettivi. È una forma di collaborazione che genera entusiasmo, vivono un fermento evolutivo proprio consapevoli del cambiamento: non si beve per bere, il vino è in funzione del cibo, il cibo esalta il vino, l’ accoppiamento attribuisce un carattere unico alla tavola.
Per cultura, qui da Cracco, si persegue la strada della qualità delle materie prime che possono anche penalizzare l’estetica del piatto, i prodotti naturali, per esempio, hanno colori più modesti, ma l’estetica qui è fatta da una molteplicità di fattori e valori che sono visivamente rappresentati da oggetti e forme ma devono essere confermati da contenuti e gusto.

Altavita

Tutti gli chef concordano, in tavola, il vino ha un ruolo fondamentale, come quando si apre lo scenario di un’opera: tutti in silenzio, col fiato sospeso pronti ad essere emozionati dalla prima entrata in scena. Gesti e immagini di questi primi attimi apriranno o chiuderanno la ricezione degli spettatori, basterebbe una nota stonata, una bottiglia “non bella” per alterare gli equilibri e disperdere la magia di complicità affinate con maestria.

Tag Intervista

18 / 02 / 2013

La creazione di valore quale perno di un’azienda

Quanto è importante per un’azienda porre le basi, in maniera distintiva, per le proprie identità e immagine, nel momento in cui sta per entrare nel mercato o, nel caso già ci fosse, volesse migliorare la propria reputazione?
Il tema dell’identità in generale dell’impresa, ma devo dire specificatamente dell’impresa vitivinicola, è un tema centrale, decisivo e complesso; per ciò va affrontato con giusto rigore, come deve essere ogni argomento che ha nella sua risposta anche la soluzione. Ogni azienda del vino è anzitutto una storia, tanto più efficace quanto più è credibile.

Nino Negri-Giv

E da cosa è data la credibilità?
Da una serie di ingredienti, primo dei quali è la figura, la personalità, il carisma del titolare, o comunque quello che noi nel mondo del marketing chiamiamo testimonial dell’azienda. Chiaro che il carisma è come il carattere, se uno non ce l’ha è difficile trasfonderlo per endovena.
Tuttavia, la tua domanda iniziale è una domanda che bisogna porsi alla partenza della storia dell’azienda e continuare a porsi durante lo sviluppo; mi riferisco a quel particolarissimo feeling che si crea tra testimonial aziendale e l’azienda stessa. Feeling che a volte diventa così condizionante per cui il testimonial è l’azienda stessa e quando quegli non c’è più, si pone il problema di come sostituirlo.

Da dove parte quindi l’identità?
Non c’è dubbio, dalla figura dell’imprenditore ma non si esplica tutta in esso, è frutto infatti di diversi connubi. Dimenticarsi che l’identità è prima di tutto identità territoriale è estremamente pericoloso (il vino è prima di tutto territorio); non sono parole di circostanza, il territorio è decisivo nel generare coerenza e credibilità col personaggio che lo rappresenta. Non solo: anche proteggerlo, il territorio, è una responsabilità dell’imprenditore, una responsabilità che travalica quella dell’imprenditore stesso, giacchè diventa di tipo sociale; come dire, si tratta di una “doppia fertilizzazione”: porta vantaggi all’azienda e alla collettività, e anche di quelli della collettività l’imprenditore deve farsi carico. Quel che noi, uomini di marketing, chiamiamo mission aziendale.

Villa Sparina

Che cosa è esattamente una mission?
Uno dei grandi obiettivi dell’imprenditore (vitivinicolo), quello cioè di modellare il territorio e quindi la sua identità, come la storia della viticoltura, italiana e no, ha fatto; se noi pensiamo alle colline e alle aree vitate di tante zone, in realtà ci accorgiamo che il titolare dell’azienda è stato veramente l’architetto del paesaggio; e molto spesso questa architettura del paesaggio tanto più è rimasta, non dico integra nella tradizione, ma curata, sensibilizzata attraverso l’attenzione delle aziende, tanto più corrisponde a un successo di mercato.
Non credo invece all’opposto, cioè all’azienda che riesca a prescindere dal territorio.

Questo mi pare un dibattito assai acceso.
Lo è. Eccome. Spinge i produttori a chiedersi, per esempio, se aderire o no alle denominazioni, o - perchè insoddisfatti, soffocati - se uscirne.
Questo aspetto ha a che fare con il rapporto tra brand aziendale e brand collettivo, e di nuovo siamo dentro al problema dell’identità. Io dico che i due brand costituiscono un matrimonio perfetto, perchè riassumono in sè esigenze ugualmente necessarie.

Cascina Castlet

Una domanda che riguarda il passaggio generazionale. In Italia l’enologia ha lunga storia come produzione, ma recente come imprenditorialità, e solo da alcuni anni stiamo assistendo ai primi veri passaggi generazionali, che risultano molto delicati. Tu hai affermato che l’imprenditore che ha iniziato costituisce il punto di riferimento aziendale, ma cosa bisogna fare per non perdere il patrimonio che egli ha generato?
Io faccio il professore e quindi mi occupo di “passaggi generazionali”; anzi, li vivo, li soffro; talvolta mi ritrovo parte attiva di alcune situazioni familiari.
Su questo tema, mi sento ottimista, sin quasi all’ingenuità, e lo voglio dire davvero col cuore: vedo una nuova generazione straordinaria. Intanto è vero che la titolarità delle aziende vitivinicole italiane è giovane, ma nata da una scarsissima cultura d’impresa; quasi miracolistico il loro successo. Lo affermo con grande rispetto, sia chiaro, per i titolari e per chi ha creato da zero un successo mondiale.

Ma su cosa si è fondato questo successo?
Certo non sui “fondamentali” dell’economia; se li guardiamo sulla carta, spesso notiamo che sono stati davvero molto deboli in proporzione al risultato ottenuto; tuttavia, le aziende non solo sono cresciute ma addirittura si sono imposte, e questo probabilmente per un mix di circostanze: vuoi alla personalità del titolare, vuoi al momento del mercato, vuoi perchè il consumatore partiva da una conoscenza ridotta del prodotto e quindi aveva fame di domande e informazione.
Ora, quell’epoca in qualche maniera deve finire, come tutti i mercati il dinamismo chiede innovazione e cambiamenti, ed ecco che il passaggio generazionale diventa una grande occasione.

Donna Olimpia

Ma da dove ti viene questo ottimismo?
Da due fatti: 1, io cerco di laureare giovani che prima di tutto scelgono questo corso di laurea e professione per passione, anche quando sono figli d’arte (ma proprio la passione è il più importante ingrediente che un genitore possa desiderare per il figlio, qualunque sia il mestiere che faccia); 2, la formazione anche nel settore vino è, sebbene soltanto in parte, diventata d’impresa; laddove c’era in passato una larga componente tecnica (ottimi enologi, grandi esperti di viticultura e così via), oggi sempre più esiste la formazione di imprenditori, di manager, di uomini e donne che mettono al centro dell’attività proprio la cultura d’impresa.

Come è stato, viene e dovrebbe essere vissuto l’investimento da parte dell’azienda in tema di packaging e di identità aziendale?
È un tema molto vicino alla questione del passaggio generazionale e in generale con la cultura d’impresa. Permettimi prima un piccolo passo indietro: se ripercorriamo la storia delle imprese vitivinicole italiane, quando nascevano le prime personalità pioneristiche (e ne sono nate tante) portavano con sè elementi sia positivi sia negativi. Positivi: passione, cuore, carisma, spesso questi rappresentavano, inconsciamente, il “marketing aziendale” (la capacità dell’imprenditore di raccontare se stesso e la sua storia facevano comunicazione). Negativi: la dominanza dell’investimento aziendale era in vigna e cantina; fase, ovvio, del tutto necessaria all’inizio, ma con il limite di sottrarre all’imprenditore risorse finanziarie, mentali e fisiche che gli impedivano di guardare oltre. Lasciami dire anche perchè la stessa formazione ricevuta era prevalentemente di tipo tecnico (agricolo-enologico); le scuole infatti erano, nei casi migliori, perito agrario, o enologico, e hanno certo realizzato un lavoro prezioso, ma impostando l’azienda solo sul prodotto.
La svolta sull’impresa market oriented è invece diventata necessaria quando i mercati hanno cominciato a soffrire della saturazione di domanda (effetto che avviene in tutti settori), di condizioni concorrenzali e di investimenti elevati. Qui entra la disciplina che noi chiamiamo marketing ma che è più corretto chiamare orientamento al mercato e soprattutto al consumatore, a ragionare con la sua testa. Cosa però non così diffusa; ancora in tante imprese, la concentrazione è per due terzi dominata dal prodotto, solo per un terzo dal percepito del prodotto; l’indagine stessa su cosa vuole e cerca il consumatore non è così assodata, anzi è un mondo ancora da esplorare in larga misura. Io non credo alle ricette, però si possono ricavare degli elementi oggettivi da questa indagine: per esempio, un’altissima sensibilità del consumatore per l’estetica e per il packaging; fra l’altro, in un paese, come l’Italia, che è padre e madre di tutte le competenze del design, della moda, dell’arte.

Braida

Ma non è un paradosso?
Sì. Una prerogativa che dovrebbe essere specifica dell’Italia e centrale negli obiettivi d’azienda, diventa un freno, tanto che l’argomento è considerato più un costo anzichè un investimento. Tuttavia, e lo dico perchè ci credo, le ragioni dei grandi successi nel mondo dei brand aziendali italiani dipende principalmente dal rigore assoluto e da una grande attenzione, anche al minimo dettaglio, del design e dell’estetica. Questa coerenza fa parte della nuova cultura d’impresa e le nuove generazioni - eccolo il mio ottimismo - sono molto sensibili. Lo sono tanto che, probabilmente, rischiamo l‘eccesso opposto, anche se è un contraltare inevitabile di quello che dovrà avvenire, cioè trasformare un’impresa che fa un prodotto in un’impresa che fa eccellenza anche attraverso il modo in cui lo comunica.

E per venire alla mia domanda di prima…
Nella comunicazione moderna, il packaging, il design sono importanti, ma se non si limitano alle necessità spicciole del produttore: etichetta, bottiglia, confezione. La comunicazione viaggia in varie direzioni e oggi abbiamo grandi sfide (purtroppo, quando si parla di sfide, l’azienda pensa di norma al sito web, ma non basta averlo, il punto è come arrivarci e come raccontare una storia in tempi e strumenti diversi dalla parola tradizionale).

Come prepararsi a queste sfide?
Le sedi in cui si può studiare la cultura d’impresa sono certo le università, ma è inevitabile l’affidamento con chi lo fa di mestiere, tanto che dovrà diventare un tema continuo nella vita aziendale. Noi abbiamo avuto la fase cosiddetta dei “flying wine makers”: contavano solo gli enologi, questi non avevano prezzo, venivano addirittura contesi dalle aziende; auguro loro di continuare questo successo, ma sono convinto che in futuro sarà sempre più necessaria una stretta collaborazione con tutte le accezioni di cultura d’impresa, quindi anche del design. Abbiamo un patrimonio troppo grande per non sfruttarlo.

Sella&Mosca

Dalle origini della produzione imprenditoriale, la terra, le attrezzature (fondamentali nell’evoluzione del prodotto), le persone (per la formazione di una sapienza enologica) sono state fondamentali; oggi però, non si può rinunciare alla comunicazione, un investimento che dà benefici nel tempo. Perchè i produttori pensano invece che sia un passaggio quasi forzato e non una risorsa per la salute, la vita dell’azienda?
Mi piace poterti contraddire perchè, ho un’esperienza positiva; mi accorgo, soprattutto nei master, che quando porto testimonianze dirette come modello (non dimentichiamo che uno dei primi insegnamenti è imparare a guardare gli altri), anche l’imprenditore più sprovveduto viene preso da entusiasmo, da voglia nuova, da rinascita, tanto che spesso alla fine della lezione mi vengono a dire che vogliono tornare in azienda e mettere in atto nuove idee.

Un altro aspetto importante. Hai parlato di giovani ansiosi di lanciarsi e realizzarsi; ecco, per noi progettisti, è richiesta la capacità di vedere “prima” quali sono gli obiettivi e di metterli a fuoco, quale l’indirizzo che l’imprenditore vuole attribuire alla propria azienda.
Io non credo alla creazione del look fine a se stesso, che “prende” giovani e meno giovani, per quanto brava sia un’agenzia. Ci deve essere un obiettivo d’impresa. E’ quello, anche fuori dal mondo del vino, che noi docenti proviamo ad insegnare a pagina due del manuale aziendale e che chiamiamo creazione di valore. L’impresa “è” creazione di valore: una cosa che non esisteva l’ho creata, e se l’ho creata va custodita e cresciuta.
In una brutta, o falsa, economia di impresa, il valore è concepito come profitto. Non denigro il profitto, però l’identificazione di obiettivo con profitto non solo è datata ma ampiamente insufficiente. In altri termini, l’azienda cresce se cresce di produzione, di fatturato, di fette di mercato. Assolutamente no!, anche perché esiste una sorta di implosione se la crescita non è guidata.

Panizzi

Dunque, per prima cosa viene il valore. Ma che cosa è questo valore?
Per esempio, io credo moltissimo nell’impresa come istituto sociale, l’impresa è qualcosa che grazie alla creazione di valore, genera esternalità positive, ossia un bene pubblico che viene dato alla collettività e che assume varie forme: posti di lavoro remunerati, protezione, abbellimento, arricchimento del territorio, cultura a beneficio di tutti, rispetto di sè e di ciò che si fa.
Anche questo, se posso usare un parolone, è il valore etico dell’economia; significa che l’obiettivo non può essere raggiunto a prescindere, esistono alcuni riferimenti che poi anche il consumatore stesso riconosce. La chiarezza dell’obiettivo è decisiva.

Cosa è difficile per le nuove generazioni?
La cosa più difficile è identificare un obiettivo raggiungibile e coerente con il cuore dell’azienda. Le nuove generazioni fanno fatica a comprenderlo, se non hanno una guida. Tutte le cose che non nascono ben calibrate, oltre che per i progettisti, sono un enorme problema per le aziende stesse e pertanto, il loro mercato. I cambi di direzione in corsa e continui vengono colti dal consumatore con effetti nefasti.
Una battuta: l’azienda è sempre un’emergenza. Ciò costringe spesso a correre e raramente a riflettere. Ma la riflessione su quelli che sono i punti fondamentali sul percorso di crescita sono importantissimi.

Tag Intervista

10 / 01 / 2013

I mercati sono conversazioni

Cluetrain Manifesto 1999.
Questo è il grande cambiamento in corso, i comportamenti di acquisto sono sempre più condizionati da logiche di reputazione tra consumatori e di influenzamento tra pari. Le aziende, spesso, rimangono fuori da queste conversazioni, pur avendo a disposizione gli stessi mezzi dei consumatori non sanno come utilizzarli, come inserirsi nella conversazione.
Il modo in cui molte aziende comunicano appare goffo, inadeguato nel gestire le esigenze di reattività, innovazione e rapidità pretese dal mercato. Le nuove capacità richieste sono agilità, ridefinizione continua, rilevanza del servizio e dell’esperienza del cliente, ecc… invece assistiamo a continui sforzi di voler raccontare la propria “storia” ma l’empatia è la chiave di accesso alle conversazioni.

Berlucchi homepage

Guardiamo un attimo indietro, al 1492, l’anno che determinò il passaggio dal medioevo all’epoca moderna, Cristoforo Colombo è il personaggio che meglio rappresenta quel momento storico.
Storia intrigante, quella della scoperta dell’America. Se poi non facciamo l’errore di osservarla in modo lineare: qualcuno ha pensato di fare una certa cosa, ha pianificato il percorso per fare quella cosa ed è arrivato all’obiettivo. Non è andata così!
La scoperta dell’America è un risultato fortuito generato da una serie di errori oltre ad una ferrea volontà di raggiungere un obiettivo che non era quello raggiunto: Cristoforo Colombo rimase convinto, fino alla sua morte, di aver mostrato la via per le Indie Occidentali e non di aver scoperto un nuovo continente; ci sono voluti 20 anni per correggere questo errore; per capire che era stato scoperto un nuovo continente sconosciuto, gli abitanti dell’Europa occidentale, hanno dovuto cambiare le proprie convinzioni e costruire nuove mappe.
Questo succede nei momenti di grande cambiamento: si scoprono cose che non si pensava di scoprire, oggi, come nel 1492, viviamo un momento di grande smarrimento. Le nuove scoperte impongono nuove mappe per comprendere e comunicare.

Podere forte

Chris Anderson dice: “Noi non siamo più quello che diciamo di essere ma siamo quello che Google dice di noi”.
In questo scenario due grandi forze in campo si oppongono, espresse da ognuno di noi, poco conosciute: l’empatia sistemica e la stupidità.
La prima è, evidentemente, la forza positiva, favorisce la comprensione di persone, di gruppi, di community, che non conosciamo ma in cui ci immedesimiamo perché ci poniamo in una dimensione dia-logica che non ha nulla a che fare con qualsiasi irrazionalismo.
La stupidità è la forza più antica, ancestrale, quella dell’autocompiacimento ed ha un grande potere. “Non sottovalutare mai il potere della stupidità umana” ha scritto Robert Heinlein, non è stato l’unico: Isaac Asimov scrisse un intero affascinante racconto “Contro la stupidità, neanche gli dei possono nulla”; Flaubert aveva l’ossessione della stupidità , voleva scrivere un’enciclopedia della “betise”; anche J. L. Borges cominciò a scrivere una “Historia Universal de la Infamia” ma si arrese di fronte alla vastità del tema.
Fa parte della natura umana, non potremo mai sconfiggerla del tutto.

PF news

La rete è il media “sistematicamente empatico” per antonomasia trasformato in incubatore di superficialità dalla mancanza di modelli e dalla mancanza di competenze.
L’esperienza più frequente che possa accadere è quella di aprire siti web e non trovare strumenti di interconnessione, di condivisione, di ascolto, di informazione, ma “vetrine” impolverate dal tempo che “urlano”, come gli arrotini di una volta, messaggi inascoltati perché non rivestono alcun interesse per l’utente.
La rete è un “luogo non luogo” è un metamercato, non è come i semplici non luoghi fisici dove la gente si incontra ma si ignora (esempi tipici: gli aeroporti, le autostrade, le stazioni ferroviarie), in rete si ascolta, si attivano strumenti di ascolto per conversare ed essere ascoltati. In rete il cliente va “ingaggiato” perché è efficiente nello sfruttare, e far circolare, le informazioni sulle aziende e sui prodotti. Il concetto di confine, nel “luogo non luogo”, è una grande fascia verde che brulica di opportunità da cogliere, il consumatore è più pronto a coglierle rispetto alle imprese.

Le sincette

L’Empatia Sistemica è un processo da attivare, non è mai un evento casuale, attraverso fasi precise:
l’ascolto empatico, un’attenta analisi delle esigenze e delle aspettative;
il confronto, un’onesta verifica di quello che posso fare e dare;
la condivisione di obiettivi, una strategica definizione delle sinergie da attivare.
Da questo processo nascono sitiweb che sono vere piattaforme per la gestione globale della comunicazione digitale, strumenti di ascolto e di posizionamento, vere estensioni di imprese collaborative che conversano con l’esterno con flussi costanti di retroazione alimentati da valori consolidati da scelte strategiche che includono ogni forma di comunicazione.

Tag Brand, Global design, Sito Web

17 / 12 / 2012

Oltre l’azienda, lo stand

Superare l’azienda, andare oltre, si deve.
Trasferendo il valore del brand nello spazio fisico, con un linguaggio formale, comprensibile, perseguendo quell’atteso senso di sorpresa e coinvolgimento che contraddistingue i visitatori di una fiera.
Si tratta di trovare le correlazioni tra “dentro e fuori”, inteso come il rapporto tra l’azienda e il suo oltre, a favore dell’architettura della performance, senza declassare e soffocare il prodotto.
È una forma di architettura caratterizzata dalla temporaneità (a differenza dell’edificio che è progettato per durare per sempre), dalla flessibilità, dall’utilizzo di materiali idonei a sostenere e amplificare le sensazioni.

Cesari stand

Global identity Cesari: packaging, brochure, stand

Luogo di sperimentazioni tecniche e tecnologiche, campo di applicazioni per la comunicazione più innovativa, emozionale, virtuale e sensoriale dove il visitatore viaggia lungo un percorso in cui pause, ritmi, luce, movimenti e tempi di utilizzo dello spazio sono elementi imprescindibili.
Questi i contenuti di un’architettura espositiva efficace, comunicativa, risultato di un processo composito in cui le competenze sono trasversali e interconnesse: exhibition design, interior design, decorazione d’interni, marchandising, food design, esperienza.
Una disciplina un po’ indisciplinata ma un obiettivo preciso: esibire il prodotto in modo che stabilisca una relazione con il pubblico in un determinato contesto spazio-temporale.
Il design applicato al progetto rivendica, nel caso specifico dello stand, poiché spazio oltre l’azienda, il raggiungimento di obiettivi trainanti come il miglioramento dello stile di vita, concetto che diviene strategia applicata per offrire chiara percezione che l’azienda sia protagonista e competitiva.

Nel caso delle aziende vinicole, i valori rappresentati sono: arte, paesaggio, ambiente, storia e tutti quei valori simbolici e spirituali che hanno plasmato la nostra civiltà della degustazione e della convivialità rendendola famosa e simbolica in tutto il mondo.
Questa realtà storica e attuale è esemplificativa rispetto a tante altre realtà del pianeta a condizione che si operi ispirandosi alle forme perfette della natura, agli equilibri dell’ambiente e alle configurazioni morfologiche del nostro territorio.
Per riuscire in questa direzione è importante produrre quell’effetto leva che rende la pratica ripetibile perché correttamente sviluppata attraverso un processo logico:
sviluppo di un “sistema comunicazione” strutturato e controllato capace di interagire con il pubblico;
utilizzo di strumenti in grado di fornire adeguato supporto al processo decisionale;
riconoscimento da parte delle logiche di mercato (non solo i Clienti) di una pratica efficiente adottata dall’impresa.

Fedrigoni stand

Global identity Fedrigoni: immagine coordinata, box, stand

Che l’azienda attui processi compatibili con le necessità del mercato e dell’ambiente, può essere ulteriormente comunicato aderendo a “Classi di Esigenza”, stabilite da una normativa europea (UNI 8289) riadattate per lo specifico settore degli allestimenti.
Il sistema “allestimenti” si divide in due ambiti principali: ambito tipologico ambientale e ambito tecnologico. Questi 2 ambiti concorrono alla realizzazione di un luogo armonioso e compatibile con le esigenze dell’utente nella misura in cui sono allineati alle Classi di Esigenza:
Aspetto: è l’insieme delle condizioni relative alla percezione dell’allestimento da parte degli utenti;
Fruibilità: è l’insieme delle condizioni relative all’attitudine dello spazio ad essere adeguatamente utilizzato dagli utenti;
Gestione: è l’insieme delle condizioni relative all’esercizio dello spazio, in virtù del suo aspetto fondamentale, la temporaneità;
Benessere: è l’insieme delle condizioni relative allo stato d’essere delle parti costituenti l’ambiente, che sia adeguato al viverci, alla salute e al rendere gradevole lo sviluppo delle attività previste;
Sicurezza: è l’insieme delle condizioni relative alla preservazione dell’incolumità degli utenti, oltre alla difesa e prevenzione di danni dipendenti da fattori accidentali.

L’impegno del progettista è quello di applicare questi principi alle 3 macrofasi, parti imprescindibili di un insieme organico, il progetto: progetto di allestimento, progetto di utilizzo, progetto di dismissione.
Un progetto di comunicazione, perfettamente integrato con i valori dell’impresa, in grado di motivare il desiderio di stabilire accordi collaborativi etici e proficui.

Tag Global design

12 / 12 / 2012

La Triennale di Milano espone il progetto Monsordo

Fino al 24 Febbraio 2013 La Triennale di Milano ospiterà la mostra TDM5: Grafica Italiana.
L’esposizione si snoda fra più di mille prodotti grafici raccolti dai tre curatori: Mario Piazza, Giorgio Camuffo e Carlo Vinti. Nella sezione packaging, esposto il progetto Monsordo di Ceretto, curato da Giacomo Bersanetti e Italo Lupi.

Con la quinta edizione dal titolo TDM5: Grafica Italiana, Triennale Design Museum porta avanti il suo percorso di promozione e valorizzazione della creatività italiana, estendendo la ricerca a una storia che è sempre stata considerata minore e ancillare, per restituirle la giusta autonomia. Grafica Italiana rappresenta un’opportunità per presentare vicende, figure, fenomeni che hanno accompagnato e sostenuto gli sviluppi culturali, sociali, economici e politici del nostro paese, che rimangono ancora relativamente poco conosciuti, nella loro ricchezza, al di fuori delle comunità specializzate.
Partendo dalle premesse storiche, dalle radici culturali e dai momenti-chiave del graphic design italiano, il percorso espositivo si articola per tipologie di artefatti: lettere, libri, periodici, cultura e politica, advertising, identità visiva, segnali, film, video e packaging. Si configura una sorta di tassonomia, che va dalla scrittura ai progetti che si relazionano con il tema dello spazio e del tempo.

esposizione

Nella sezione packaging alimentare, esposto il progetto del vino Monsordo dell’azienda Ceretto.
L’identità visiva di questo prodotto nasce dalla sintesi fra il particolare profilo della bottiglia, disegnata da Giacomo Bersanetti, ed il lettering in rilievo nel vetro, pensato da Italo Lupi.

modelli

Una bottiglia fortemente radicata nel territorio che nasce, più precisamente, dal ridisegno della Poirinetta, un contenitore che ha origine verso la fine del ‘600 presso una vetreria di Poirino, nei pressi di Torino.

Il lavoro compiuto da Ceretto rappresenta un passaggio fondamentale che caratterizza l’intero ambito della comunicazione del settore vinicolo. Con i fratelli Ceretto si attua il trasferimento delle competenze progettuali relative all’identità del vino: dal fornitore al designer.

Tag Packaging

09 / 11 / 2012

Il lato estetico del vino: vestire l’eccellenza

Dal greco “aisthesis” sensazione, il valore estetico è il contenuto spirituale di un oggetto. Un segno che ha in sé qualità di struttura, equilibrio, armonia, eleganza esibendo queste qualità desta sensazioni lasciandosi apprezzare. È la trama dei valori che fa di un oggetto, un oggetto estetico.
Il vino deve essere assunto come oggetto di valore, non è un mero prodotto della natura, va, quindi, valutato nella sfera dei valori estetici, centrati sull’oggetto non sulle sue funzioni: la degustazione mira a cogliere il valore estetico del vino attraverso la comprensione spirituale dei valori dall’oggetto rappresentati.
Per chiunque degusti, non consumi, il vino presenta una magnifica molteplicità di aromi e sapori naturali, sorprende il suo non essere mai lo stesso, perché cambia il momento, lo stato d’animo, il cibo con cui si accompagna.
I segnali complessi che il vino lancia al nostro intelletto stimolano visioni di fatiche, di scienza e pazienza, di impegno, di volontà, di sinergie, tutte sensazioni che devono essere codificate e canalizzate attraverso la vestizione perché è il vestito ad attivare l’occhio, lo strumento primo e più sensibile che conduce al desiderio.

Giulio Ferrari

“Le Super Tre Stelle della Guida Oro Vini di Veronelli 2013”
Ferrari - Fratelli Lunelli - Trento Brut Riserva del Fondatore Giulio Ferrari 2002

La Viarte

Touring Club - Vinibuoni d’Italia 2013 - I Vini della Corona
La Viarte - Colli Orientali del Friuli Doc Schioppettino di Prepotto 2009

Manuele Pirovano, sommelier di Davide Oldani, responsabile della cantina del Ristorante D’O conferma che una delle prime lezioni impartite dalla scuola è stata “il Cliente, prima di tutto, beve l’etichetta”. La caratteristica “cucina pop” di Oldani, impone scelte mirate a valorizzare e sostenere il contenuto delle preparazioni e, il vino, ha un ruolo fondamentale. È il vino l’oggetto che attiva i ricettori sensoriali, l’occhio indaga subito la forma della bottiglia, legge l’estetica dell’etichetta e, inconsapevolmente, decide la qualità del contenuto. È una scelta che racchiude in sé la tesi, l’oggetto materiale, la bottiglia, qualifica la qualità e l’antitesi, la sensazione spirituale suggerisce valori racchiusi nell’oggetto.
È il pubblico femminile quello più attento al rito e al fascino intrinseco della scelta del vino, mentre il pubblico maschile osserva con criticità più specifica il prodotto: legge l’etichetta e ne giudica lo stile con più distacco, esibisce una certa competenza che, forse, spesso non ha, non lascia trapelare il fascino esercitato dall’estetica.
Manuele afferma che la forma della bottiglia ha il valore di “marchio di fabbrica” determina il pregio del contenuto, è un processo comunicativo indotto, inevitabile, i Clienti avvolgono con lo sguardo ciò che corrisponde all’estetica attesa a rappresentare un contenuto sublime.

Ca Marcanda

I Cinque Grappoli - Duemiavini 2013 - Ais Bibenda
Ca’ Marcanda - Bolgheri Rosso Camarcanda 2009

Prunotto

Cinque bottiglie - Guida de l’Espresso
Prunotto - Barolo Bussia 2008

Come si crea questo tipo di abito? Chiara Boni, la stilista milanese di adozione, toscana di nascita, ne racconta la creazione come un processo di affinamento culturale e stilistico sostenuto dalla comprensione e dalla condivisione di valori e si manifesta in un prodotto che, indossato, non lascia ombra di dubbio sulle qualità del contenuto.
“Il lavoro di affinamento stilistico di un abito nasce insieme all’idea della donna che lo indosserà”: le emozioni che il tessuto suggerirà, la ricerca per individuarlo, l’affinamento di collezioni che seguono il pensiero, l’evoluzione delle aspettative e delle esigenze, stagione dopo stagione, è un continuo divenire armonizzato da un rapporto diretto che acquisisce le sfumature più sofisticate. “Il valore intrinseco di un vestito risiede nella capacità di valorizzare il suo “contenuto”. Un taglio sapiente esalta la personalità, “il gusto” e la femminilità”.
Così i valori sostanziali di un vino eccelso, frutto della fatica e degli sforzi tesi al raggiungimento dell’eccellenza, possono perdersi se a vestire il vino sarà un abito generico, non un abito dal taglio sapiente che ne valorizzi fisico e carattere. Vestire il vino con un abito sartoriale equivale a patrimonializzare e consolidare il valore della propria opera. Costituisce l’ultimo passo da compiere nel percorso di creazione che porta un vino ad essere davvero compiuto.

Enrico Serafino

Tre bicchieri - Gambero Rosso
Enrico Serafino - Alta Langa brut Zero Cantina Maestra 2006

Tag Packaging

24 / 10 / 2012

2012 - ItaliaOggi: Sull’etichetta vince lo stile italiano

Un buon nome, il colore giusto e il design anticipano il gusto
Bersanetti (Sga) svela i segreti di una bottiglia perfetta. Come quella con una vecchia Vespa.

Italianità e stile. Un connubio che fa da volano anche al vino di qualità, soprattutto se ben comunicato attraverso un’etichetta d’autore. Come quelle che da oltre trent’anni Giacomo Bersanetti, anima e fondatore dell’agenzia Sga corporate & packaging design, crea con Chiara Veronelli e Francesco Voltolina. «A partire dalla metà degli anni 70 è partito un processo evolutivo che ha fatto crescere in parallelo la qualità, l’attenzione, la cura e la consapevolezza con cui il vino viene prodotto», spiega Bersanetti a ItaliaOggi. Parallelamente a questa evoluzione, «è cresciuta anche l’importanza del packaging, della vestizione della bottiglia. La crescita culturale dei produttori ha inevitabilmente visto crescere anche l’estetica del vino».

Sga

Da che cosa è nato questo fenomeno?
Trent’anni fa i produttori nazionali si sono improvvisamente trovati di fronte a nuovi competitor. L’export ha fatto in modo che ci dovesse confrontare con elementi qualitativi ed estetici che cambiavano le in gioco rapidamente.

Alcune tipologie prodotto sono cambiate prima di altre?
Spumanti e liquori hanno da subito dimostrato una maggiore propensione all’interpretazione della propria personalità in modo fantasioso. Vini fermi tradizionali hanno seguito subito dopo. In questi decenni comunque l’importanza del design si è estesa ad altri elementi: il nome del prodotto, per esempio.
La creatività si occupa di tutta una serie di aspetti identificativi dal nome allo studio del contenitore, al cosiddetto secondary pack (la scatola che contiene la bottiglia, ndr) fino alla comunicazione vera e propria, classica e web. Tutti gli ingredienti insomma che insieme concorrono alla creazione dell’identità aziendale.

Quanto incide un buon packaging sulla percezione della qualità del vino?
È ovviamente un elementofondamentale, imprescindibile dal prodotto. Un produttore che ha come obbiettivo quello di realizzare un ottimo vino non può non considerare il fatto che il percorso debba passare necessariamente anche dall’immagine. Un buon nome, un colore giusto, l’etichetta studiata su misura anticipano l’esperienza nel consumatore.
Prendiamo per esempio la tipologia denominata Satèn. Quando i produttori di Champagne vietarono al consorzio di Franciacorta l’utilizzo del nome Cremant per defi nire i vini più morbidi, la nostra agenzia propose il nome Satèn e un colore argento-platino come codice di riferimento, da declinare in tonalità più o meno calde a seconda della morbidezza del vino. Lo facemmo per Bellavista, ma fu un tale successo che venne poi esteso al consorzio dei produttori Franciacorta.

Quanto conta il colore nell’attirare l’attenzione del cliente?
Molto. Ma dipende da come si usa: bisogna farlo con attenzione e in modo mai banale. Prendiamo il Barbera La Monella, dell’azienda Braida. Abbiamo introdotto il colore azzurro per questo vino che, come tipologia, virava principalmente su colori di terra, naturali. Era il 1982 e abbiamo usato la tonalità che riprende l’acino dell’uva. La scelta di questo colore ha portato un po’ di scompiglio tra i concorrenti e continua ancora oggi a funzionare molto bene.

Monella

E i caratteri, come si utilizzano?
La scelta è indubbiamente delicata. Noi creiamo caratteri ad hoc per il prodotto perché, per quanto elegante e raffi nato possa essere un font, non potrà mai rispecchiare la personalità del prodotto al cento per cento. Carattere giusto va disegnato, cucito addosso all’etichetta.
Esempio? Il Barolo Riserva Fontanafredda. L’etichetta è composta da tre scritte «barolo» diverse a rispecchiarne l’unicità produzione. È infatti un vino proviene dalla fusione di tre diversi, vinifi cati separatamente e le cui selezioni migliori vengono fuse in un unico uvaggio barolo.

Barolo Fontana Fredda

Quali sono le tre regole non dimenticare per creare un’etichetta che funziona?
Prima di tutto, la conoscenza dei propri competitor italiani e internazionali. Poi, coerenza tra i valori di prodotto, quelli aziendali e il pack che li deve esprimere al meglio. Terza, saper individuare codici e simboli che possano vivere nel tempo grazie a una forte personalità.

Nell’era dei nuovi produttori emergenti, dal Cile alla Cina, quale sarà la sfi da che i nostri dovranno vincere sullo scaffale?
Per i prodotti di alto e altissimo livello è fondamentale comunicare l’italianità sin dal l’etichetta: eleganza, tradizione e innovazione. Difendere il made in Italy in ogni fase della comunicazione. In generale, comunque, sempre di più l’importanza del packaging non potrà essere sottovalutata da nessuno.

Cascina Castlet

Ci può fare un esempio di packaging di successo che ha utilizzato i simboli del made in Italy?
Un prodotto che ha curiosamente innescato un meccanismo di comunicazione incentrato sulla storia del made in Italy è il Barbera Vespa della Cascina Castlet. Sull’etichetta abbiamo messo una fotografia d’epoca in cui la produttrice giocava da bambina intorno alla Vespa del padre. Un’immagine che evocava stile, italianità, eleganza e ironia. Oltre ad avere successo tra i consumatori, ha suscitato anche l’interesse di una vera e propria community di appassionati della Vespa che organizzano tour dedicati alla degustazione di questo Barbera.
Valentina Giannella

Vai all’articolo web

Tag Intervista, Packaging, Press

16 / 10 / 2012

2012 - La Stampa: Anticipa il piacere e ne conserva la memoria

4 domande a Giacomo Bersanetti designer

Giacomo

Oltre a realizzarle, lei colleziona etichette?
«No, non l’ho mai fatto. Maconosco la passione che anima questo genere di collezionisti. Conservare le etichette valorizza la loro funzione, alimenta la memoria delle bottiglie bevute, ma anche dei luoghi, le persone, i cibi che hanno accompagnato quei momenti. E una collezione di 282 mila pezzi ha un valore storico e culturale altissimo».

Qual è la sua definizione di etichetta?
«L’etichetta è il racconto del vino, è un’anticipazione visiva di quanto andremo a conoscere attraverso altri sensi. Se c’è sintonia, i colori, le forme, i segni che vestono la bottiglia possono produrre sinestesie, ovvero relazioni con il vino che si berrà».

Come si è evoluto il modo di vestire le bottiglie?
«Le prime etichette erano oggetti molto semplici: riportavano solo il nome del vitigno e l’annata veniva applicata a mano: attaccarle costava. Poi, a metà Ottocento, sono comparsi i primi simboli araldici delle famiglie e i primi stili: i francesi riproducevano i propri chateaux, i tedeschi abbondavano di decorazioni, gli italiani riportavano le medaglie vinte ai concorsi internazionali.
Nel primo 900 è arrivata la fase degli artisti, mentre il design dagli Anni 70 ha portato molta innovazione».

E oggi?
«L’attenzione si è estesa a tutti i produttori. Il design italiano ha uno stile inconfondibile, fatto di eleganza, chiarezza e riconducibilità ai valori dell’azienda.
Scimmiottare stili che arrivano dall’estero è un errore, come voler essere originali a tutti i costi».
Roberto Fiori

Tag Intervista, Packaging, Press

27 / 09 / 2012

Bellavista: eccellenza per vocazione

Nel racconto di Mattia Vezzola, la vicenda professionale e umana, che lo ha portato insieme a Bellavista, a raggiungere vertici qualitativi capaci di esprimere l’assoluta unicità di identità e di stile di un’azienda e di un prodotto.
Un risultato ottenuto attraverso una perfetta integrazione fra le diverse componenti coinvolte: “…ho sempre sostenuto che le persone che collaborano con un’azienda, non si devono limitare a dare la loro prestazione professionale, ma possono sentirsi parte del progetto di crescita, addirittura partecipare come privilegiati all’interno del progetto. Ciò significa poter creare essi stessi, insieme alla proprietà, l’idea di brand aziendale…”

Come si presentava la Franciacorta all’inizio del tuo percorso?

Il territorio dal punto di vista geologico/enologico era straordinariamente vocato alla produzione di vini d’eccellenza destinati alla rifermentazione in bottiglia. Questo per cause naturali. Ma era anche, e soprattutto, un territorio che aveva in sé una grande energia intellettuale e propulsiva, grazie all’intelligenza di uomini e imprenditori che lo abitavano e vivevano con grande naturalità.
Il mio percorso nasce dalla valutazione della vocazionalità, del momento storico, dall’intuizione e volontà di perfezione di alcuni uomini che hanno poi dato alla Franciacorta la luce di un progresso e di un futuro. Tutto questo in un momento straordinario verso la metà degli anni 70; un momento di impulso e di energia focalizzato esclusivamente sulla produzione di qualità.


E come si è inserito il progetto di Bellavista?

Scandito nel tempo (non tutto subito, ma crescita graduale) e nella coerenza della direzione presa (una volta presa, sempre mantenuta).


Quali allora le tappe?

L’azienda è cresciuta sulla convinzione che la viticoltura vocazionale è basilare. In secondo luogo: la gestione in maniera prevalentemente naturale della viticoltura, che allora si iniziava, e il coinvolgimento emotivo/professionale degli uomini, come trampolino per lanciare il pensiero di fondo della proprietà. Terzo aspetto: un’analisi attenta all’indirizzo creativo del profilo sensoriale, ovvero fare vini che, pur nutrendosi della vocazionalità, potessero esprimere il valore specifico degli uomini impegnati a farlo e le caratteristiche di suadenza, eleganza e gentilezza che sono intrinseche nel territorio e nella materia prima. Quarto: applicare tecnologie di rispetto che fossero sinergiche tra principio della tradizione e avanguardia. Tutto questo, anche grazie ad incontri che hanno contribuito ad aprire la mente e a fissare dei punti di riferimento produttivi.

 

Avete così sia acquisito consapevolezza delle potenzialità del territorio sia definito il gusto di Casa Bellavista. Questa fase avrà richiesto tempo…

Si, circa trenta anni, ma è non ancora finita.


Ah, non è ancora finita… Avrete però definito delle linee aziendali.

C’è un disegno, certo, con la sua idea di fondo che nel tempo si perfeziona. Noi siamo partiti da 3 ettari e mezzo – oggi Bellavista può contare su 200 ettari, su un’età media dei vigneti di 20 anni, su 42 dipendenti con età media di 39 anni e con professionalità media di 10.


Mi vien da dire, il vero patrimonio aziendale.

Proprio così! Essendo un’azienda strutturata per dare valore alla manualità e al pensiero, è chiaro che la crescita professionale di ogni singolo collaboratore è determinante perché il dettaglio venga curato, valutato e valorizzato. Per ciò occorrono gli anni, il tempo, le generazioni.


All’interno di questo percorso, di ormai 35 anni, ci sono stati dei passaggi cruciali?

Sì, certo. La crescita è sempre avvenuta anche grazie al confronto, come dire, fra posizioni abbastanza contrapposte che però non hanno mai intimorito: ad esempio, percorrere la via della qualità va normalmente in conflitto con l’economia di una azienda. Il punto cruciale, quindi, è la convinzione ferrea, ferma e coraggiosa della proprietà che ha consentito di percorrere questa strada senza tentennamenti.
Sin dall’inizio, abbiamo individuato la strada maestra e quando si elabora un progetto nuovo, sono due le cose più importanti: la direzione e la velocità del passo. Bellavista non dico abbia indovinato tutto e con facilità, ma senz’altro ha sbagliato pochissimo; si è così trovata un patrimonio vitivinicolo e una filosofia di produzione ben radicati nella famiglia e nei collaboratori in primis e, per conseguenza, nel vino che va nel bicchiere.


Tra le varie sfide e le conquiste di Bellavista, il progetto Satèn. Non so quanti sappiano che proprio Bellavista è la madre di questo prodotto. Come nasce questa esperienza?

Nasce da una visione, da una fortuita, occasionale situazione e dal desiderio di rompere i pregiudizi, in particolare quello che considera un vino elegante, un po’ dolce, un po’ frizzantino, come più indicato per le donne. Un vino come questo veniva percepito inferiore e posizionato verso il basso, per un possibile consumatore non di qualità, o appunto di qualità bassa. Insomma, non proprio una felice premessa per un prodotto destinato al pubblico femminile.

Un aneddoto mi ha chiarito le idee: mi trovavo a Venezia, a cena, con un amico; vediamo camminare sul lato opposto del canale, una ragazza meravigliosa. Passo armonioso, grande femminilità e musicalità infinita; smettiamo di mangiare e come noi altre persone. È stata un’illuminazione. In particolare, ho capito che la femminilità che ha paralizzato un ristorante, meritava un vino con profilo qualitativo e gustativo diverso, più alto e non banale. Erano gli anni ‘83/84. Ho così pensato a uve chardonnay, di alta collina, esposte a sud e che danno origine a mosti, quindi vini, di grande garbo, freschezza, suadenza, croccantezza; questi vini, almeno per il 50% provenienti da mosti fermentati in vecchie botti, davano più complessità, più volume, più struttura, più persistenza.
Rifermentati poi in bottiglia con una atmosfera in meno di pressione, questi vini si manifestavano con una crema estremamente sottile e con una bollicina estremamente raffinata. Il termine Satèn che, non etimologicamente ma foneticamente, ricorda la setosità, che so, dello chiffon, di tessuti morbidi, è risultato il più efficace fra i nomi proposti da SGA. Il nome è stato poi depositato e regalato al Consorzio, con nostro grande piacere di vederlo adottato da tutto il territorio della Franciacorta.

E in tutto questo percorso, che ruolo ha la comunicazione?

Io ho le idee molto chiare sul tema. Faccio però un passo indietro: un’azienda può pure imporsi di fare il vino più buono del mondo, ma se poi viene distribuito o comunicato male, l’azienda non può che uscirne penalizzata.
E viceversa; un’azienda può far realizzare la più bella etichetta del mondo, affidare il mercato al miglior distributore, ma se il vino è mediocre, ne esce altrettanto penalizzata.
Intendo dire che un’azienda ha l’obbligo di cercare l’equilibrio tra la qualità (non dichiarata ma percepita dal consumatore), una comunicazione sobria e reale e un’immagine altrettanto corrispondente alla realtà.

Cosa vi siete proposti di comunicare, dunque?

Quello e quelli che siamo, attraverso la forma della bottiglia, dell’etichetta e dei colori in sintonia con il valore del vino percepito dal consumatore.
Io ho sempre sostenuto che le persone che collaborano con un’azienda, non si devono limitare a dare la loro prestazione professionale, ma possono sentirsi parte del progetto di crescita, addirittura partecipare come privilegiati all’interno del progetto. Ciò significa poter creare essi stessi, insieme alla proprietà, l’idea di brand aziendale, attraverso la sottolineatura della qualità oggettiva del prodotto.
Proprio perché questa armonia si realizzi, soprattutto l’agenzia deve vivere l’azienda nella sua complessità e nelle sue difficoltà; in caso contrario, la comunicazione diventa astratta, generica e potrebbe appartenere a qualsiasi altro prodotto di qualsiasi altra azienda.

Di cosa avete invece bisogno voi?

Che ogni virgola, ogni tratto, ogni colore, ogni rilievo testimonino l’impegno di 42 persone che lavorano per un obiettivo condiviso sin nel minimo dettaglio.
Per noi è un valore non indifferente: noi non scegliamo un grafico, o un fornitore, ma un compagno di viaggio, con cui raggiungere un’affinità di pensiero, di comportamento, di obiettivi. Parte agronomica, parte enologica, parte commerciale, parte comunicazione e grafica devono essere perfettamente allineate.


È un principio che tu usi da sempre.

Sì. Un fornitore, che è con te dall’inizio, sa come la pensi, cosa vuoi, non devi più spiegargli mille cose; le mille cose diventano dei pre-requisiti, per cui si cresce insieme nella sublimazione degli argomenti.


Si costruiscono delle relazioni più strette e tutti guardano nella stessa direzione.

Ripeto spesso una mia frase: “Non bisogna fare quello che piace, ma fare quello che resta”. Dire: “Mi piace più questo che quell’altro” è inutile, insignificante, superficiale, e se dopo un po’ di tempo non ti piace più, che fai, ricominci da capo? No, bisogna fare cose su cui c’è continuo allenamento e confronto; per tanti è banalità, per noi no.

Tag Brand, Intervista, Naming

21 / 09 / 2012

2012 - L’importanza dell’immagine nella fase di start-up: il progetto Rocca d’Orcia

Di fronte all’immagine ben studiata di un’attività o di un prodotto reagiamo in modo positivo e ne veniamo attratti: vogliamo conoscere ciò che ci piace.
Attraverso l’immagine riceviamo un’anticipazione, un racconto di quanto ci viene proposto; la scelta del naming e del simbolo risultano quindi determinanti nella definizione della propria identità di marca.

La brand è parte del prodotto come della propria attività e può determinare la sua affermazione, per questo motivo proprio nella fase di start-up la cura della propria immagine diventa una scelta strategica.
Questa scelta diventa ancor più decisiva quando le attività fra loro relazionate sono diverse, con mission distinte. La complessità dei rapporti che agiscono all’interno di un gruppo di brand è stata organizzata da SGA nel recente progetto per Rocca d’Orcia, antico borgo medioevale ancora intatto nel cuore della Toscana.

Il progetto è nato dal desiderio dell’imprenditore Pasquale Forte di rivitalizzare il borgo che circonda la Rocca di Tentennano; grazie al restauro accurato degli spazi che per secoli avevano ospitato attività artigianali legate alla tradizione, ed al loro rilancio.
In un simile contesto il lavoro di progettazione del brand design non può prescindere dalla ricerca di un linguaggio espressivo in grado di cogliere e valorizzare sia gli elementi tipici dell’attività imprenditoriale, sia i suoi punti distintivi nei confronti del mercato e del contesto nel quale la brand vivrà.
Per questi motivi il lavoro ha comportato un pensiero progettuale organico sia nella scelta del naming che nello studio del segno grafico.

perinqua

L’enoteca è stata battezzata Perinquà mentre l’adiacente e comunicante osteria: Perillà. Un binomio fonetico di particolare efficacia, facile da ricordare, originato dal dialetto locale. Due luoghi, le cui attività risultano affini, hanno ricevuto un unico lettering ed un unico simbolo, ma sono stati distinti da elementi fonetici che affermano le rispettive identità.

perilla

Per l’emporio toscano è stato scelto il nome Riamà, che sottolinea una più spiccata autonomia richiamando il tradizionale termine toscano rihamà. Termine che identifica l’attività del ricamo, ed evoca la manualità necessaria alla creazione dei prodotti proposti all’interno dell’emporio.

riama

Infine lo spazio espositivo battezzato Spazio Se, che ospiterà autori di fama internazionale operanti nell’ambito della ricerca fotografica e che ha aperto la stagione con una mostra dedicata a Francesco Radino.

spaziose

SGA, oltre ad aver progettato le quattro brand e ad aver svolto la ricerca relativa al naming necessaria per la definizione delle diverse entità “aziendali” ha curato la comunicazione integrata del progetto globale presentato di recente alla cerimonia di inaugurazione.

Il risultato del progetto nel suo complesso è visibile al seguente link.

 

 

Tag Brand, Naming

18 / 09 / 2012

2012 - Tre bicchieri Gambero Rosso: come si costruisce un vino di successo

Viaggio tra i segreti delle grandi agenzie di brand strategy

Bottiglie dal look vintage, etichette d’artista, concept minimalisti, loghi evergreen, packaging che strizzano l’occhio alle mode del momento. Anche il vino ha bisogno dell’abito giusto da indossare per presentarsi al suo appuntamento più importante: quello con il consumatore. Per questo sempre più aziende decidono di investire sul look del loro vino e si affidano a società specializzate.
Tre Bicchieri è andato a vedere quella che si può definire la “postproduzione del vino” parlandone con due agenzie che, come si dice, sanno il fatto loro: la Robilant Associati di Milano, fondata da Maurizio di Robilant, e la Sga Corporate & packaging design di Bergamo, nata dall’unione di tre “progettisti di immagine” (vogliono essere chiamati così), Giacomo Bersanetti, la moglie Chiara Veronelli (figlia del mitico Luigi) e Francesco Voltolina. Entrambe attive da trent’anni ed entrambe chiamate dal Consorzio Chianti Classico per rifare tutta la “corporate identity” della Doc toscana.

Cominciamo a sentire Paola Schettino, brand strategist e partner di Robilant Associati: “Rispetto al passato, oggi non c’è azienda del vino di una certa dimensione che non pensi anche all’immagine del suo prodotto. Una volta ci si fermava alla bottiglia e all’etichetta. Ora non basta più. Bisogna scavare più a fondo, nella storia del territorio e della cantina per tirarne fuori un “plus” e questo significa anche creare eventi, interagire con il territorio, progettare siti internet, creare il marchio e farne un valore imprescindibile dal prodotto”. Qualche esempio? “La case history di uno dei nostri clienti, la Cantina Tramin - continua Schettino - insieme abbiamo individuato quello che noi chiamiamo “talento” (carattere unico dell’azienda) partendo dal suo prodotto di punta, il Gewurtztraminer. Da lì al legame con l’olfatto il passo è stato breve e questo ci ha permesso di giocare sulla parte più emotiva del prodotto, sia in etichetta sia nel concept”. Il rapporto col territorio vale anche con i clienti esteri. Spiega ancora la brand strategist: È accaduto in Cina dove ci siamo occupati del marchio di Chateau Junding (una delle più importanti cantine della Nava Valley, proprietà del colosso pubblico dell’agroalimentare, Cofco; n.d.r.). Qui abbiamo deciso di abbandonare gli schemi e i codici europei e di vestire la bottiglia con abiti orientali”. È nato così il logo di Chateau Junding: versione stilizzata del copricapo dell’imperatore Kangxi della dinastia dei Qing, mentre l’etichetta riproduce l’immagine dello stesso Chateau.

E in Italia qual è la richiesta più frequente? Risponde Giacomo Bersanetti presidente di Sga: “I clienti ci chiedono come si può fare per aumentare la visibilità dei loro vini e per fare questo oggi più che originali bisogna essere unici e saperraccontare una storia”. Come la Sga ha fatto con Berlucchi ‘61, una linea di Franciacorta vestito con abiti anni ‘60, tributo all’anno in cui nacquero le prime bollicine bresciane. Grafica e colori (dalla bottiglia, ai cofanetti ai cataloghi) richiamano le prime minigonne alla Mary Quant, i capelli a caschetto e i 45 giri. Risultato? Una crescita media del 20% in tre anni.

Berlucchi

E poi ci sono i codici stilistici che non passano mai di moda, gli evergreen come il nero di Bricco dell’Uccellone dell’azienda Braida di Giacomo Bologna (uno dei primi clienti della Sga), il cui nome si ispira ad una vecchia signora sempre vestita di nero, che era stata soprannominata appunto “l’uselun” (uccello).

Braida

Altra “storia raccontata” dall’agenzia bergamasca è quella del vino Ai Suma della stessa azienda Braida: “Ai Suma in dialetto bergamasco significa “Ci siamo” riferito al vino. E infatti l’etichetta rappresenta le labbra sorridenti di Giacomo Bologna, il proprietario della cantina”. E l’arte che posto ha nel lavoro di un’agenzia di design come la Sga? “È fondamentale - risponde Bersanetti - collaboriamo con artisti internazionali come nel caso di Tenuta L’Illuminata (di Guido Folonari; n.d.r.) per cui l’artista greco Dimitris Kozaris ha cercato di cogliere la luce e l’ombra della luna sui grappoli e le foglie del vigneto attraverso una Polaroid e con la tecnica della rayografia.
O come nel caso della bottiglia di grappa Solchi dell’azienda Bocchino per cui ci siamo affidati allo scultore Giuliano Giussani che ha riproposto nel vetro della bottiglia i solchi del terreno. Come a dire l’abito non farà il vino, ma di sicuro lo fa vendere.”

Solchi

Tag Intervista, Packaging, Press

16 / 09 / 2012

2012 - GlamFood: Le forme parlano agli occhi

Chiavi universali di comunicazione

Si apre con una citazione di Giacomo Balla, l’artista futurista per antonomasia, la brochure “Study of the product” di SGA lo studio che da oltre 25 anni sviluppa progetti di corporate identity e packaging di prodotto.
“Si pensa e si agisce come ci si veste” è la citazione, l’etensione del concetto espresso nella brochure: “Può sembrare un paradosso, ma non lo è. Forma e sostanza, packaging e prodotto vivono in forte simbiosi, tanto da compenetrarsi. La percezione del valore di un prodotto nasce dalla capacità del progetto di esprimere la sua personalità.
Alla creazione di idee si lega la capacità di applicarle in base ad aspetti tecnicamente complessi: la forma degli oggetti, le caratteristiche dei materiali e la combinazione di tecnologie differenti danno vita a progetti dotati di quelle cartterisctiche di unicità e individualità che il prodotto deve possedere per affermarsi nella mente del consumatore”.

In un ambiente unico al mondo, sicuramente, dove ieri si respirava un’aria fragrante carica dei profumi della terra e dei fiori bagnati da un temporale estivo e il nuovo sole rendeva tutto evanescente, in Città Alta, a Bergamo, nella Casa Veronelli con Sara e Giacomo si parlava di questo.
Circondati da oggetti, bottiglie, create per contenere nettari sublimi, destinate a trasmettere con immediatezza e trasparenza valori eccelsi, ci siamo confrontati su quanto possa essere fatto per migliorare il trasferimento dei valori intrinsechi in alcuni Oli Extravergini di Oliva di alta qualità.
Ci siamo mossi dagli eventi degli ultimi tempi: Daniele Salvagno, vicepresidente FederDOP, durante il convegno di Puegnago sul Garda, ci ha ricordato che in 20 giorni il costo dell’olio di Oliva Extravergine alla borsa di Verona, è aumentato di 60 centesimi. Questo è stato possibile grazie al fatto che 3 norme del DL 3211 della senatrice Colomba Mongiello sono state stralciate e inserite nel Decreto Sviluppo approvato i primi di agosto, ciò ha generato fiducia da parte del mercato.

Podere Forte

Le 3 norme sono:
- la riduzione da 75 a 30 mg/lt di metil ed alchil esteri
- l’obbligo di riconoscere i panel di assaggio come mezzo di prova nei procedimenti giurisdizionali
- l’origine si deve intendere come il luogo di coltivazione e di allevamento della materia prima nonché il luogo in cui è avvenuta la trasformazione sostanziale.
Queste norme sono già legge e vanno applicate dalla prossima campagna di produzione, significa un’opportunità per i piccoli produttori di rendere manifesta e trasparente la qualità ed i valori del loro prodotto.
Secondo Pietro Salcuni, presidente Coldiretti Puglia, la crisi che ha visto una flessione nei consumi del 13% è motivata dalla mancanza di trasparenza sulla provenienza dell’olio. I 2/3 dell’olio acquistato è Extravergine di Oliva o presunto tale.
Causa le temperature alte e la siccità diffusa, la produzione 2012 sarà ridotta, secondo il prof. Maurizio Servili dell’Università di Perugia, questi fattori determinano un prodotto povero di aromi ma ricco di sostanze fenoliche bioattive, cioè antiossidanti.
Questi eventi fanno presagire una stagione di vendita in crescita sia sui mercati esteri che in Italia e rendono imperativo che l’immagine del prodotto sia caratterizzata da canoni di facile leggibilità, trasparenza nell’informazione e forte appeal.

Seggio Fiorito

Con Sara e Giacomo abbiamo analizzato le loro esperienze nell’universo “vino”, vent’anni avanti rispetto all’olio, per cogliere i segnali che ne hanno decretato il successo a livello mondiale: naming, brand, immagine e packaging giocano un ruolo determinante, le bottiglie di vino italiano sono riconoscibili per la classe stilistica, rappresentano degnamente il prodotto, anzi anticipano il piacere che deriva dalla degustazione del nettare contenuto.
Questo nell’Olio Extravergine di Oliva deve ancora succedere, sono pochi i produttori di alta qualità che trasferiscono nel packaging e nell’immagine i loro valori, i valori contenuti nel prodotto.
Le bottiglie sono tutte uguali, le etichette illeggibili, non aiutano il consumatore a scegliere. La pretesa è che il consumatore percepisca, non si sa per quali motivi, la qualità del prodotto ed i valori che rappresenta.
Il percorso intrapreso da SGA di avvicinamento al mondo dell’Olio Extravergine di Oliva è stato gratificato da alcuni piccoli produttori di Oli di Alta Qualità, riconosciuta da premi prestigiosi, che hanno capito quanto packaging, brand e naming potessero veicolare valori reali, potessero trasferire la loro cultura e potessero fare evolvere in modo tangibile la percezione del brand.

Vai all’articolo

Tag Packaging, Press

23 / 07 / 2012

Fan FranciacortAppassioNati: unconventional approach per il territorio della Franciacorta

FAN FranciacortAppassioNati è un’associazione nata una sera davanti ad una flûte di Franciacorta - non poteva essere altrimenti - da un gruppo di sette giovani, due ragazze e cinque ragazzi, con la passione per il proprio territorio e tanta voglia di fare.

Fan group

Lo scopo dell’associazione è quello di ampliare gli estimatori del vino Franciacorta fra le nuove generazioni, proponendolo secondo modalità non convenzionali, per attirare un pubblico di possibili appassionati a cominciare proprio dall’area nella quale viene prodotto.
L’associazione ha quindi l’obiettivo concreto di valorizzare il Franciacorta comunicando in modo accessibile, senza però sminuirne il forte valore percepito.

Il punto di partenza è un nuovo approccio al vino, attraverso aperitivi “on the road” e in locali di tendenza, nei quali i giovani produttori spiegano ad altri giovani il Franciacorta, guidandoli in assaggi piacevoli e coinvolgenti.

In questo contesto SGA ha avuto il piacere di contribuire alla creazione della giovane ed effervescente associazione (In particolare il naming FAN Franciacorta Appassionati e la brand), grazie alla sua consolidata esperienza in Franciacorta, maturata in molti anni di collaborazione con diverse cantine del territorio: Barone Pizzini, Bellavista, Berlucchi, Castello di Gussago, Contadi Castaldi, Corte Aura, Derbusco Cives, Ferghettina, Quattro Terre, Vezzoli.

Fan bottiglie

Proprio questa esperienza è servita a calibrare nella comunicazione il peso tra gli aspetti “giovani ed innovativi” che denotano l’associazione e la necessaria comunicazione dei valori di fondo che comunque devono accompagnare un prodotto complesso come il Franciacorta.

Il nome dell’associazione è nato giocando con l’assonanza tra “FUN” (acceso ammiratore e sostenitore sia nell’ambito dello spettacolo, come dello sport) e “FAN”, acronimo derivato dalla fusione di tre parole (FranciacortaAppassioNati). Il nome risulta quindi brevissimo, immediato, facile da pronunciare e da ricordare; un nome nel quale è facile riconoscersi.
Trasmette l’amore per il territorio di appartenenza e per il vino che ne scaturisce.

Il naming è poi completato da un giocoso segno grafico che ripete l’acronimo all’interno delle ormai celebri “bollicine” - di Franciacorta ovviamente - che è il termine più utilizzato per chiedere questo tipo di vino durante l’aperitivo.

L’obiettivo del brand è di supportare, attraverso gli eventi e le attività dedicate, alle quali è stato attribuito il titolo ‘Born to be: FAN’, lo sforzo divulgativo e di creazione della cultura del Franciacorta.
Con leggerezza; evitando di appesantirne la percezione con orpelli e rigidità formali che finirebbero per travisare la sua vera funzione: raccontare giovani che creano cultura del vino dialogando con altri giovani.

Tag Naming

12 / 07 / 2012

Comunicare il vino secondo Angelo Gaja

Angelo Gaja, l’artigiano del vino

A Barbaresco, un paesino di 400 anime famoso per la produzione dell’omonimo vino, incontriamo Angelo Gaja, erede di un patrimonio vitivinicolo che data oltre centocinquant’anni. Gaja, che si autodefinisce un “artigiano del vino”, è ormai da tempo un leader del settore riconosciuto a livello internazionale. Oltre a realizzare un prodotto di eccellenza, ne ha sempre curato con estrema attenzione anche l’immagine esteriore: dalla vestizione della bottiglia, all’imballaggio secondario, dalla grafica aziendale alla comunicazione. Con lui abbiamo parlato del rapporto tra vino e packaging e di come si accresce il valore di un marchio storico.

di Marco Senaldi



Affrontiamo subito il tema della comunicazione: dal punto di vista di un produttore, come si fa brand con il vino, quali sono le strategie comunicative vincenti?

Primo, proponendo vino della migliore qualità possibile, in relazione alle diverse fasce di prezzo; poi, con il marketing, curando il corretto ed appropriato posizionamento del prodotto sul mercato e con la visibilità dell’etichetta e la qualità della comunicazione aziendale. Inoltre, valorizzando sia i marchi individuali (brand aziendale, nome dei vini) che il patrimonio comune delle IGT, DOC e DOCG. Utilizzando le sinergie che il territorio di origine del vino esprime in cultura, storia, tradizione, modernità, ricchezze architettoniche… Integrando il vino alla territorialità.
 

Ma questa inarrestabile crescita del vino, sia in termini di consumo, che di valorizzazione economica, a cosa è dovuta?

Soprattutto al fatto che è aumentata la percezione del valore culturale del vino. Fino agli anni ’60-70, in Italia il vino era considerato la bevanda alimentare per eccellenza, poi si è trasformato in un bene voluttuario, spesso addirittura un bene di lusso. Certo, esiste ancora una fascia di bottiglie vendute a due euro, due euro e mezzo, che continuano ad avere ancora una funzione alimentare, ma dai dieci euro in su – fino a bottiglie che vanno sul mercato o alle aste a migliaia di euro – il vino risponde ad altre esigenze, ad altre gratificazioni e, in un Paese dove aveva un significato alimentare, ora è anche un genere di lusso.

…ma in un mondo globalizzato come il nostro è possibile sfuggire all’uniformità del gusto?

Certo che sì! – anzi: secondo me, chi rende variegato il settore sono proprio gli artigiani. L’artigiano è quello che nel fare il vino ci mette qualcosa di “suo”. Non è detto che sempre abbia successo, magari non trova riscontro nella critica – però ciò che più desidera è fare il vino a modo suo. È una scelta che solo gli artigiani possono fare: i Mondavi, gli Antinori, i Frescobaldi, la grande industria vinicola, anche se molto valida, non lo può fare, perché, per sostenere i propri volumi di produzione, deve confrontarsi con l’80% del mercato occasionale – cioè deve fare dei vini che incontrino anche quel gusto popolare. L’artigiano invece ha una funzione diversa, anche di ricerca. Questa ricerca della pluralità è la ricchezza dell’Europa, e dell’Italia in particolare.


A questo punto però sono obbligato a chiederle come si colloca Gaja: siete industriali o artigiani?

Essere artigiani significa soddisfare ad alcune condizioni: primo, non comprare uve, ma utilizzare solo quelle dei propri territori. Secondo, non comprare vino, perché il vino deve essere costruito nel proprio vigneto. Terzo, ci deve essere una presenza importante della famiglia, i cui membri dedicano essenzialmente e pienamente la loro attività a quel settore. Infine, l’azienda artigianale deve stabilire qual è la sua dimensione ottimale oltre la quale decide di non crescere. L’artigiano deve saper rinunciare a crescere, perché sa che se va oltre un certo limite, la qualità ne viene intaccata. L’artigiano non accetta volentieri la presenza di consulenti – ha la presunzione di saper fare da sé. Il primo obiettivo dell’industria è quello di soddisfare i consumatori – mentre quello non certamente è l’obiettivo dell’artigiano, che invece ha in mente di realizzare il proprio prodotto, il vino che vuole lui. Ecco perché noi siamo artigiani. Da anni abbiamo 100 ettari di vigneto; poi abbiamo acquistato dei vigneti in Toscana, ma anche lì abbiamo deciso di non andare oltre. E poi c’è il discorso del prezzo. L’ambizione dell’artigiano è di creare vini che abbiano un valore qualitativo elevato – e di conseguenza un prezzo sostenuto.

Un concetto che percorre lo stile italiano, e che comunque lo rende riconoscibile nel mondo, è quello dell’“eleganza” – che ne pensa?

Che bisogna distinguere l’idea di eleganza da quella di opulenza. Mi spiego meglio: nel settore enologico i consumatori occasionali sono anche quelli più attratti da vini “piacevoli”, che non presentano spigoli, hanno poca acidità, non hanno tannini, sono “rotondi” al gusto e vanno bene un po’ per tutti. Ma il concetto di eleganza non ha spazio per questa “perfezione” innaturale. La natura crea disuguaglianze; ci sono terreni, anche nella zona del barbaresco, che in termini di produzione non hanno le stesse potenzialità. Ciò che appare perfetto, dunque, spesso è stato contraffatto. L’eleganza invece non ha bisogno di perfezione. L’eleganza è qualcosa che bisogna metabolizzare e poi oltrepassare, e questo vale anche per il vino. I nostri vini sono segnati anche dalla mancanza di questo eccesso, di questa esagerata pienezza, di questa opulenza; possono persino sembrare imperfetti. Ma proprio quella piccola imperfezione è il segno ultimo dell’autentica eleganza.

A questa eleganza interiore deve corrispondere anche un’eleganza esteriore… per esempio, come vi è venuta l’idea di queste casse di legno “scanalate” con il marchio Gaja, che hanno una notevole leggerezza visiva?

Questa è un’idea sviluppata da SGA proprio perché il marchio Gaja appariva troppo pesante ed imponente sulla classica cassa di legno. L’idea è stata di riprendere il segno di una antica lavorazione del legno diffusa dalle nostre parti [ci conduce fuori a vedere una porta antica lavorata, appunto, scannellando il legno]… è una lavorazione che si chiama “grissinatura”, l’abbiamo voluta riproporre sulle nostre casse rafforzando così un legame con la tradizione.

[Nel frattempo, chiacchierando, ci siamo trasferiti nel Castello, dove sono raccolte le bottiglie con le etichette storiche]. Guardando queste antiche etichette si nota quasi una certa continuità nel tempo…

Guardi, questa è la prima etichetta di mio bisnonno, Gaja Giovanni e figli. Poi mio nonno ha adottato un’etichetta del 1900, con le medaglie che allora non erano riferite tanto al vino, quanto all’azienda, che aveva vinto questo o quel riconoscimento, medaglia d’oro o croce al merito. Nel 1937 mio padre opera una rivoluzione in termini di comunicazione: scrive il nome del produttore con caratteri enormi. “Gaja” sovrasta il nome del vino stesso. Il fatto è che lui vendeva il barbaresco ad un prezzo più caro del barolo e questo era inaccettabile, era una provocazione, perché il vino per eccellenza era il barolo. Ma il prezzo era dovuto alla qualità, alla lavorazione, al fatto di non imbottigliare le annate scadenti, e via dicendo: così, il nome in caratteri maiuscoli ben visibili GAJA aveva un significato preciso: “questo non è un barbaresco qualsiasi, ma quello di Gaja”. Era già un concetto di marketing!


Anche i nomi hanno la loro importanza, qui ne leggo di particolari: Spersss, Conteisa, Darmagi…

Abbiamo fatto una ricerca molto accurata sui nomi, andandoli a riprendere dalla tradizione del nostro dialetto. Spersss, ad esempio, con 3 esse, è una parola dialettale, che significa “nostalgia”, ma può essere pronunciata in lingue diverse…
“Nostalgia” – era un vigneto che mio padre avrebbe voluto acquisire, il suo sogno di una vita e che ho potuto realizzare solo nel 1988 quando sono riuscito a comprare il terreno. Conteisa invece significa “contesa”, era un vigneto che giaceva proprio al confine tra due territori, La Morra e Barolo, e conteso per quasi cento anni, fino a che è stato diviso. Darmagi invece, dal francese “Quel dommage!”, significa “che peccato! ”. Perché in quel vigneto avevo piantato il cabernet sauvignon, contro il parere di mio padre che in quell’occasione disse proprio così, “che peccato!” (per non averlo piantato a barbaresco).

Oggi qual è, secondo lei, il rapporto tra abbigliaggio, packaging e immagine globale che Gaja veicola a livello internazionale?

L’etichetta è sicuramente il primo messaggio trasmesso attraverso la bottiglia al consumatore. L’etichetta può aiutare anche a svelare l’animo del produttore, il modo di essere e le ambizioni dell’azienda. Identicamente contribuiscono forma, colore, peso della bottiglia, scritte e decori su cartoni e casse legno; fino ad arrivare alla carta da lettera intestata, ai biglietti da visita, le brochure e i depliant, al sito internet, gli incontri aziendali con i clienti, l’organizzazione di eventi, la presenza alle fiere, le degustazioni fuori casa. Tutto è comunicazione. L’immagine dell’azienda si nutre della qualità della sua comunicazione.

Là vedo un’etichetta marrone…

Questa fu fatta negli anni ‘70 da un designer che lavorava per la Baratti, una ditta di caramelle piemontese; qui c’era il concetto di oro e marrone, con il nome Gaja enorme…

…fino all’attuale etichetta bianca e nera, sobria e rigorosa insieme…

Sì – da quella etichetta lì, siamo arrivati per gradi a quella attuale, in bianco e nero, dove il nero rappresenta il passato, la tradizione, e il bianco significa l’oggi, il presente. Tutto è divenuto essenziale, senza alcun decoro, con una sua pulizia – lo definirei un “classico moderno”.

E il tipo di carta?

C’è tutta una tradizione degli anni ‘80 e ‘90 di carte uso mano, Fabriano e simili, per le etichette dei vini, perché risultano più morbide, più calde. Però quelle carte hanno due difetti: se scende una goccia di vino la sporca, e secondo, se la bottiglia è tenuta male all’esterno, o prende luce, si macchia, s’impolvera, si scurisce facilmente. Per questo alla fine abbiamo optato per una carta più lucida e, alla fin fine, più sobria.

Questa impaginazione classica e insieme efficace mi sembra una costante del marchio Gaja. Come si è evoluta l’immagine e la vestizione del prodotto in relazione agli ultimi progetti realizzati con SGA? Mi riferisco in particolare a Ca’Marcanda, Pieve Santa Restituta, Linea fagiani oro, Linee grappa Gaja.

Il restyling delle vecchie etichette di Gaja è stato portato avanti da SGA senza stravolgimenti, pulendo con misura, asciugando il decoro, e così facendo valorizzando ed impreziosendo l’essenziale.  Per Ca’ Marcanda e Pieve Santa Restituta si è guardato ad etichette che premiassero la visibilità, sempre seguendo un concetto di sobrietà e di pulizia, giocando su due colori, uniformando le scritte, proteggendo l’essenzialità.


In una parola, qual è il segreto di una collaborazione efficace tra azienda e packaging designer?

Sono convinto che ogni proposta di design deve accordarsi con la storia aziendale, col tuo passato e col tuo modo di essere… Ma un rapporto così non si improvvisa: il segreto di una collaborazione efficace sta nel fatto che richiede molto tempo. Come nel caso di SGA, perché è proprio grazie a un rapporto di fiducia che è durato nel tempo che siamo riusciti a creare insieme nuove idee.

Tag Global design, Intervista, Packaging, Restyling

09 / 07 / 2012

2012 - Blog Franco Ziliani: Franciacorta Extra Brut Sullali

Idee giovani, per anagrafe e per freschezza, si muovono in Franciacorta. Idee che vedono protagonisti figli d’arte di produttori franciacortini e che testimoniano l’emergere di una nuova generazione che cerca un proprio spazio nel campo del vino e lo fa con linguaggi, iniziative, mezzi decisamente diversi da quelli usati da genitori e nonni.

Fan brand

È notizia di qualche mese fa la nascita dell’Associazione FAN Franciacortappassionati, formata da una cinquantina di giovani franciacortini uniti dalla comune passione per la propria terra e ovviamente per il Franciacorta.
Un’associazione, come efficacemente è stato scritto, composta da “un manipolo di ragazzi che il Franciacorta lo producono (in famiglia, ma anche in proprio) e vogliono raccontarlo in un’altra maniera. Vogliono raccontare il Franciacorta in jeans (però di marca). Il linguaggio dei bar della movida serale, quello dei social network e quello dei blog”.
Giovani che vogliono entrare e dire la loro scompaginando alcune certezze acquisite, tipo quella che il Franciacorta è buono, ma è caro. E che si tratta di un prodotto più adatto agli adulti che ai giovani. Un prodotto che, chissà perché, anche nei bar franciacortini, viene proposto da molti gestori, nel “rito” dell’happy hour o dell’aperitivo, molto meno di sovente di quanto accada con un generico Prosecco.
Che non ha nessun legame con il territorio, ma costa poco (e consente al barista di guadagnare di più) e ha un nome che funziona bene. Anche in Franciacorta.

Questi giovani franciacortappassionati puntano invece a fare simpaticamente, in maniera diretta e non noiosa cultura, ad aiutare a distinguere tra un Satèn e un Extra Brut e un Dosage Zero, a promuovere un’idea di consumo consapevole e orgoglioso. E meritano di essere seguiti, anche sulla loro (poteva forse mancare?)  pagina Facebook

Come non essere del resto d’accordo con loro quando dichiarano che “solo se il Franciacorta inizierà ad essere riconosciuto e bevuto sul nostro territorio, solo quando i ragazzi che escono la sera per bere l’aperitivo chiederanno un Franciacorta con la chiara consapevolezza di cosa stanno bevendo, solo allora si avrà la certezza del successo di un vino e del suo territorio!”?
Tra i più attivi fautori di questa associazione, due autentici figli d’arte, rampolli di quel bravo produttore attivo ad Erbusco nella propria cantina di proprietà e nella “avventura” Derbusco Cives che è Giuseppe Vezzoli. Jessica e Dario Vezzoli non contenti di collaborare con i genitori e di essere insieme ad altri coetanei tra i principali fautori di FAN Franciacorta AppassioNati, hanno pensato bene di “inventarsi” un loro Franciacorta.
E lo hanno fatto in maniera del tutto personale, e giovane nel modo di presentarsi del vino, nel suo packaging e nella sua etichetta, che è opera di quel bravo “eno-designer” che è il bergamasco Giacomo Bersanetti, nel nome e nella concezione tecnica del vino. Nelle sue caratteristiche organolettiche.

Sullali packaging

Un vino, il Sullali Extra Brut, tiraggio 2009 sboccatura agosto 2011, prodotto da uve Chardonnay in purezza, 24 mesi di affinamento sui lieviti, che loro stessi definiscono, con un certo coraggio, come “un nuovo modo di concepire il Franciacorta” che “nasce dall’idea di creare un prodotto che rispecchi a pieno le qualità di una terra straordinaria.
La rivisitazione in chiave moderna del Metodo Ancestrale permette a questo Franciacorta di compiere la rifermentazione in bottiglia utilizzando gli zuccheri residui derivanti dalla prima fermentazione”.
La scheda tecnica ci dice che il Sullali “è un Franciacorta realizzato mediante l’uso di uve accuratamente selezionate, dalle quali si prende solo il mosto derivante dalla spremitura più soffice dell’acino. Dopo la prima fermentazione e la maturazione in vasche di acciaio, Sullali è imbottigliato con lieviti specifici per la rifermentazione, senza aggiunta di zuccheri esterni.
Alla sboccatura, una piccola aggiunta di liqueur d’expedition, prodotta utilizzando una parte del vino originale, permette di ottenere un prodotto in versione Extra Brut”.
Il risultato è un vino che anche grazie al suo nome, che richiama il Nabucco di Verdi, trasmette immediatamente un’idea vincente di leggerezza e di fragranza, un vino che senza indulgere in inutili giovanilismi è giovane, per idea e per gusto, adatto a giovani palati, ma capace di reggere bene l’affinamento in bottiglia.
Colore paglierino brillante molto luminoso, perlage sottile e continuo, presenta un naso molto fresco, fragrante, leggero, delicato, intensamente profumato di fiori bianchi e agrumi, con accenni di crosta di pane e una leggera cremosità.
L’attacco in bocca è fresco, ben secco e deciso, con dinamismo e bolla croccante, una certa consistenza e una notevole continuità, ottimo equilibrio, piacevolezza, acidità ben bilanciata che dà slancio al bicchiere e lo mantiene vivo e ben teso. Una prova d’esordio che lascia bene sperare per il futuro di questa giovane azienda e dei suoi giovani protagonisti.


Vai all’articolo

Tag Packaging, Press

05 / 07 / 2012

Comunicare il vino biodinamico: Le Sincette

Come afferma Jaques Mell (fondatore Bio-Dynamie Conseil e segretario Demeter Francia): il termine francese “agriculture” (agricoltura) è straordinariamente rivelatore, essendo composto dal prefisso “agri” (agricolo) e da “culture” (cultura/coltura).

Le Sincette Jacques Mell

E parlando di cultura nella produzione del vino una delle massime espressioni di complessità è proprio la coltivazione della vite secondo i metodi della biodinamica: la conoscenza della natura e dei suoi cicli, così come dei principi che regolano la vita del suolo e della vite in rapporto all’influenza degli astri, una cultura complessa che permette di esprimere col vino la qualità della terra.

Ma qual è il linguaggio corretto per comunicare questo livello di complessità?
Come poter coniugare l’amore e il rispetto per la natura e la precisione dei gesti che fanno nascere un vino biodinamico con l’esigenza di comunicare ad un consumatore sempre più preparato e sempre più attento a ciò che sceglie?

È infatti terminato il tempo delle etichette che scimmiottano un passato agricolo artificioso fatto di casolari, uccellini e paesaggi in fiore. Questo tipo di messaggio risulta in conflitto con questa nuova filosofia produttiva e con i valori culturali ed etici che la biodinamica rappresenta.
Ma appare ancor più inadeguato pensando a chi sempre di più si avvicina a questi vini cercando qualcosa di autentico, qualcosa di cui si possa fidare.

Prendiamo ad esempio l’evoluzione di una cantina situata sul lago di Garda, nella zona della Valtenesi: parliamo di “Cascina la Pertica”, nata 30 anni fa, e convertita da 12 anni al metodo biodinamico. Già a partire dal brand name è evidente il legame sopra citato con l’immaginario contadino e agricolo.

Eppure nel tempo proprio questo bagaglio di vissuto contadino ha perso,
come è successo più in generale nel food, la sua capacità di convincimento, poiché progressivamente indebolito dalla falsa comunicazione “naturale” che ha invaso il mercato di massa.

Per attrarre il consumatore di oggi la parola d’ordine è dunque “autenticità” sia nel prodotto che nella comunicazione. Per questo motivo nella definizione della nuova brand è stato deciso di cambiare il nome sostituendo Cascina la Pertica con “Le Sincette” un nuovo nome che oltre ad essere più semplice e memorizzabile corrisponde realmente, in quanto toponimo, ad una zona dei vigneti dell’azienda.

Le Sincette coordinated set

La nuova brand è formata dal logotipo “Le Sincette” e dal monogramma “LS” iniziali del nome; questi elementi sono composti da un carattere calligrafico disegnato appositamente e ispirato al movimento dei fili d’erba fatti crescere tra i filari per rivitalizzare il suolo.
Anche per la realizzazione del packaging dei vini e del sito www.lesincette.it, essenzialità e chiarezza sono i codici di un nuovo linguaggio che vuole comunicare la naturalità dei prodotti e raccontarci come il processo biodinamico si compie.

Le Sincette sito

Ma il compito di comunicare questa complessità non è solo una questione d’immagine, è necessario pensare ad una comunicazione più coinvolgente. Creare momenti d’incontro in cui la cantina si apra al pubblico per offrire la possibilità di condividere la propria visione e quelle conoscenze a cui il proprio operare si ispira.

La comunicazione diventa un percorso nel quale, come in biodinamica, nulla si compie in maniera forzata ma tutto contribuisce a determinare un’esperienza autentica che arricchisce non solo la nostra conoscenza ma anche le nostre emozioni.

Tag Biodinamica, Brand, Global design, Packaging, Sito Web

05 / 07 / 2012

2012 - Casa Veronelli

Protagonista la natura. Le Sincette e la biodinamica

Gian Arturo Rota

Non un cambiamento improvviso, a seguire l’onda di facili mode, ma meditato bene e a lungo.
Ruggero Brunori, imprenditore agricolo/vitivinicolo dal 1978, ha avviato il passaggio dalla produzione convenzionale a quella biodinamica una dozzina di anni fa, senza sonori proclami ma con una programmazione metodica e risoluta, con un modello di agricoltura sano e rispettoso della terra, supportato da rigore scientifico.
Una riconversione totale, che ha coinvolto non solo gli aspetti tecnico-produttivi; dal mutamento del nome dell’azienda (Le Sincette, rispetto a Cascina La Pertica, è individuale, non comune, non confondibile), alla semplificazione dei nomi dei vini (ora composti solo dalla denominazione e dal vitigno corrispondente, tranne che per Zalte, da cabernet sauvignon e merlot, in quanto antico toponimo), al ripensamento dell’immagine (un monogramma calligrafico LS – iniziali del nome – che si ispira al movimento dei fili d’erba, più un simbolo geometrico in richiamo alle fasi lunari, così importanti per i cicli naturali e di lavorazione in vigna), su progetto di SGA (www.sgaitalia.it).

Serietà, molta serietà e non ricerca di una nuova e diversa legittimità. Nuovo è il credo in una diversa agricoltura.
Maturato con l’aiuto di un consulente francese, tra i più esperti, attenti e sensibili in tema di biodinamica: Jacques Mell (www.biodynamieconseil.com), trenta e più anni di conoscenze, studi, esperienze.
E proprio lui, Ruggero ha voluto con sé al battesimo dei vini targati biodinamici; fosse lui a dialogare con i giornalisti ospiti, ad illustrare, più che cos’è, perchè abbracciare questa nuova agricoltura che, sostiene con inossidabile convinzione, modifica in meglio il rapporto dell’uomo con la natura.
Ne è uscito un confronto inaspettatamente molto serrato, dai botta e risposta dialettici, dalle curiosità sulla reale affermazione della biodinamica come una delle risposte (la risposta?) al miglioramento della qualità (dei prodotti, della vita) da un lato, dall’altro alla maggiore e migliore tutela dell’ambiente.
“È la qualità intrinseca dei prodotti“, dichiara Mell, “sono le forze in essi contenute, e non parlo qui a livello di analisi chimico-fisiche, che permetteranno agli uomini di pensare in modo sano. È il contadino che, modellando il paesaggio in modo armonico, fornirà una cornice di vita appagante alle riflessioni degli uomini”.

Quanto ai vini assaggiati – lo Chardonnay, il Marzemino, il Chiaretto e il Groppello, tutti segnati da doti di pulizia, mineralità, signorilità e carattere – va detto che già, con la viticoltura convenzionale, erano molto validi.
Più validi? Non so dirlo.
Forse più autenticamente riconducibili alle caratteristiche della terra di provenienza, se è vero che uno dei pilastri della pratica biodinamica (l’altro è mantenere la sanità delle piante perché resistano ale malattie) è la rigenerazione del suolo sia per l’influenza delle forze cosmiche sia attraverso il lavoro, ad esse direttamente collegato, dell’uomo (quest’ultimo ha più che altro, il compito di ascoltare la terra e di assecondarne coscienziosamente le necessità).

Sta di fatto che, per l’evidente soddisfazione di Ruggero, nonchè di Andrea Salvetti, il suo agronomo e, forse, l’intima gioia di Mell, i vini sono piaciuti.

Vai all’articolo

Tag Biodinamica, Global design, Packaging, Press, Restyling

05 / 07 / 2012

2012 - Largo Consumo

Bollicine nella rete

Un’analisi dei siti mostra qual è il panorama di svariate aziende italiane produttrici di spumanti, che si servono di Internet per arrivare in modo diretto al consumatore.

di Marco Mancinelli

Ribadire un’immagine incentrata sulla qualità, sul valore esclusivo di un prodotto fra i più tipici del made in Italy, sulla tradizione consolidata di un modo “alto” di produrre vini spumanti entrati da tempo nella storia del settore italiano: è questa la prevalente filosofia che emerge dall’analisi di dieci siti web di altrettante aziende italiane produttrici di vini spumanti. Si è in presenza di una filosofia che, per fiaffermarsi dal punto di vista della comunicazione, ricorre a immagini e acnhe a effetti di tipo grafico impattante, ma al tempo stesso sobrio e ispirato a parametri culturali che si rifanno a una certa “nobiltà” del prodotto: questo perché, in tale contesto, ciò che davvero fa la differenza consiste nel trasmettere al navigatore che accede al sito aziendale (consumatore, operatore del settore o della stampa) un senso di qualità, di gusto ricercato, di richiamo a radici culturali di pregio sul versante eno-gastronomico.

L’analisi, compiuta nei primi giorni di marzo 2012, ha riguardato i siti delle seguenti aziende: Contri, Gancia, Gruppo Mezzacorona, Mionetto, Fontanafredda, Berlucchi, Cantina di Soave, Carpenè Malvolti, Cesarini Sforza e Fratelli Martini (Sant’Orsola).
Dall’analisi emergono alcuni significativi tratti comuni alla tonalità dei siti web aziendali esaminati: primi fra tutti, l’accentuata rilevanza assegnata alla comunicazione del brand e il richiamo costante a concetti valoriali, quali la qualità e la tradizione, riferiti alla gamma dei prodotti. Il navigatore che accede ai siti internet della nostra selezionata “top ten degli spumanti” non può non notare che ognuna delle aziende in questione pone fortemente l’accento non solo sulla qualità e affidabilità, ma anche sul valore di gratificarsa con un acquisto strettamente connesso ai concetti di ricercato life style a tavola (anche per aperitivi e altre occasioni di socializzazione). Sono le stesse immagini inserite nelle varie pagine on line a richiamare i concetti di qualità ed esclusività: oltre alle immancabili foto dei prodotti sono ben evidenziate anche le foto ad alta definizione dei luoghi di raccolta e di produzione.

Non mancano, inoltre, immagini dell’azienda e altre relative alla sua storia, al fine di ribadire il concetto di consolidata tradizione nell’ambito della produzione di vini spumanti. Quanto viene comunicato al target dei consumatori e degli operatori della distribuzione commerciale, quindi, è il valore del brand, l’assortimento della range e, infine, ciò che l’azienda stessa considera essere il valore aggiunto dei propri prodotti.


Avvicinare il proprio target

Le aziende del comparto mostrano di avere pienamente afferrato la crescente incidenza della comunicazione aziendale effettuata sulla grande autostrada telematica mediante la gestione di un’apposita vetrina on line: lo scopo è certamente informare sul prodotto, ma anche ribadire la presenza e i valori stessi del brand, rafforzando la vicinanza nei confronti dei propri target di riferimento. E non è un caso che alcune delle aziende proprietarie dei siti analizzati riservino un’apposita sezione dedicata agli eventi rivolti ai propri consumatori e ciò, in particolare, nell’ambito dell’organizzazione di visite ad hoc presso l’azienda, coerentemente con l’obiettivo di creare vicinanza e condivisione tra l’impresa e i clienti (spesso non solo semplici consumatori, ma anche veri e propri appassionati cultori del vino di alta qualità).
Ma, in tema di ricorso al canale on line per creare e rafforzare vicinanza con i propri target di riferimento, c’è addirittura qualche azienda che si segnala per essersi ormai spinta oltre: in ossequio, è il caso di dirlo, alla cosiddetta “comunicazione 2.0”, basata sull’estensione del dialogo on line con i consumatori e con gli appassionato, si sono attivati blog e profili sui principali social network (per esempio Facebook).

Nello specifico, non si tratta di “iniziative doppione” né di iniziative contraddittorie: blog e profili sui più diffusi social network non fanno che amplificare la visibilità e l’autorevolezza del sito web aziendale, creando una sinergia ad hoc sul versante della strategia di comunicazione aziendale. In fondo, è il crescente livello di competitività che contraddistingue, in generale, il mercato globalizzato e, in particolare, il comparto dei vini spumanti a richiedere un costante sviluppo delle modalità di presenza e di comunicazione in Internet. Non va trascurato, inoltre, il ruolo dei principali motori di ricerca (in primis Google): per qualsiasi azienda, in base a determinati parametri (parole) chiave, essere più o meno rintracciabili in Internet rappresenta un vero e proprio plus irrinunciabile.


Pagina per pagina

Procedendo con l’analisi pagina per pagina dei siti in questione, non mancano alcuni ambiti rivolti agli operatori del comparto (distributori), mentre per quanto riguarda gli operatori dell’informazione giornalistica, non sempre sembra possibile reperire direttamente sul sito informazioni dettagliate relative all’azienda (bilancio, fatturato, ecc.), anche se va detto che, in qualcuno dei casi esaminati, vengono fornite news riferite a iniziative di vario genere e di indubbio interesse per la stampa specializzata e non (eventi, partecipazione a manifestazioni fieristiche, sponsorizzazioni sportive e/o culturali, nuovi prodotti e via dicendo). Per quanto concerne la modalità di contatto, si ha l’impressione che esse risultino forse un po’ troppo di tipo base: viene riportato il numero di telefono (centralino) e l’indirizzo generale di posta elettronica (“info@”). Ma, oltre a ciò emerge dall’analisi delle varie pagine on line (dalla home page fino alle pagine “finali” dedicate ai cosiddetti “credits”, cioè ai realizzatori materiali del sito) cosa intendono dire le aziende proprietarie dei suddetti siti web? E, in particolare, a chi è rivolto il web site aziendale? Al consumatore finale? Agli utilizzatori professionali?

Rivolgiamo queste domande a Francesca Facchetti, responsabile relazioni esterne di Berlucchi. «Il nostro sito web, che è stato oggetto di restyling alla fine del dicembre 2011, si rivolge tanto al canale trade quanto alla stampa (specializzata e non), oltre che al pubblico consumer. Offre, infatti, sia una lettura rapida sia la possibilità di approfondimenti: per esempio, i singoli Franciacorta sono raccontati in poche ed efficaci righe, ma con la possibilità di scaricare la scheda tecnica completa».
Per quanto riguarda la struttura contenutistica? «Il nuovo sito Berlucchi è l’ultimo tassello di un progetto globale di rilancio della nostra immagine aziendale e di prodotto. La struttura della narrazione distingue già dalla home page due ambiti. Da un lato, la sezione essere: il racconto di ciò che rappresenta l’unicità del brand, il percorso storico, il legame con un territorio unico, la filosofia produttiva e Palazzo Lana Berlucchi, luogo del primo incontro tra i fondatori. Dall’altro, la sezione fare, con i quattro brand che veicolano la nostra produzione raccontati approfonditamente, con testi e visual tesi a spiegare in modo univoco il mood della linea prodotti. Il nostro intento consiste nel fornire al visitatore tutte le informazioni necessarie a comprendere profondamente la nostra identità, entrando in relazione con il contesto in cui nascono i nostri vini. Un viaggio multimediale che precede l’incontro con i nostri prodotti».

Avete fatto ricorso a qualche altra iniziativa on line? «Abbiamo creato un blog, una piattaforma più friendly che aggiorna il visitatore in tempo reale sulle iniziative dell’azienda. In home page, il dinamismo è dato dalla presenza di news sempre nuove». In merito alla vetrina on line di Berlucchi, in effetti, particolare importanza è stata attribuita alla parte iconografica, con immagini impattanti che richiamano il mondo dell’azienda Berlucchi, dove storia, tradizione, ma anche attenzione alla tecnologia e all’ambiente giocano un ruolo comunicativo di rilievo. Il sito è orientato al futuro e in particolare ai nuovi dispositivi mobili. Inoltre, in base a quanto dichiarato da Francesca Facchetti, l’azienda Berlucchi ha rivolto una particolare attenzione all’analisi riferita all’accessibilità e usabilità del sito, in modo da garantire una navigazione chiara e agevole nella ricerca dei contenuti desiderati.
La realizzazione è il frutto della collaborazione tra la web agency Ocho Durando (www.ochodurando.com) e SGA corporate & packaging design (www.sgawinedesign.it), l’agenzia di riferimento di Berlucchi per la propria immagine aziendale: un chiaro esempio del fatto che le sinergie di comunicazione rappresentano il principale viatico per la realizzazione di un presidio on line di tipo avanzato sul versante della brand image.

Tag Global design, Press

12 / 04 / 2012

2012 - La Stampa

Cronache dal Vinitaly Incontri ravvicinati
Storie e persone alla kermesse di Verona

di Sergio Miravalle

Visti e incontrati
Il Vintaly è una bagarre, un tourbillon di incontri anche solo di pochi attimi. Scambio di biglietti da visita, aggiornamenti dei rispettivi numeri sui cellulari “fammi una squillo così ti registro”, promesse di “dobbiamo vederci”. Capiterà. Certamente al prossimo Vinitaly.

Bella chiacchierata con Giacomo Bersanetti sulle etichette e il suo modo di pensarle. Il suo studio lavora con gente come Gaja, Ceretto, Bellavista, Berlucchi, La Versa, Rotari, Tosti, Bocchino. “Le etichette vivono e quelle giuste non invecchiano mai”.

Vai all’articolo

Sergio Miravalle è giornalista professionista, astigiano, per oltre trent’anni firma del quotidiano La Stampa sui temi del vino ed è stato responsabile dell’edizione di Asti e caporedattore del settore province. Ha seguito in prima persona lo scandalo e il processo del metanolo. Ideatore delle confessioni laiche ai grandi dell’enologia italiana. Mantiene la collaborazione con il quotidiano e il blog “Giro di vite” su www.lastampa.it/miravalle
È stato presidente dell’Ordine dei giornalisti del Piemonte. Per la collana “I semi” Veronelli Editore ha pubblicato nel 2010 “La cometa del Roero”, biografia del vignaiolo Matteo Correggia.

Tag Press

26 / 03 / 2012

Il restyling della Brand, l’esperienza Berlucchi

di Marilena Colussi

Ho colto volentieri l’invito a scrivere, nel nuovo spazio di informazione e Confronto rappresentato dal blog SGA, su un tema molto importante e delicato che riguarda il restyling di brands agro-alimentari e viti-vinicole particolarmente importanti, in virtù di ciò che rappresentano sia dal punto di vista della nostra Storia, Tradizione e Cultura, sia per l’elevato valore simbolico e funzionale che i loro prodotti hanno presso i consumatori e più in generale nel sociale. Eccomi dunque ad offrire una mia chiave di lettura del recente restyling di una importante brand protagonista indiscussa del mercato dello spumante.

La Brand Berlucchi ha avuto una crescita costante negli ultimi vent’anni, fino a raggiungere la leadership delle vendite di spumanti italiani nella GDO, come ben poche altre brand hanno saputo fare.
Nel corso di questo ultimo decennio molte cose sono cambiate sia sul fronte del consumatore (tra cui la quotidianizzazione del rapporto con lo spumante, prima deputato a puro simbolo di festeggiamento) che del panorama concorrenziale degli spumanti e più in generale dei vini e delle “bollicine” (in primis lo sviluppo dei prosecchi) e non ultimo delle logiche distributive.

Le aziende che vogliono continuare a crescere sono quelle che tempestivamente sono in grado di intraprendere le azioni di cambiamento più consone ad evolvere intelligentemente la loro brand in sintonia con i cambiamenti di un sistema sempre più complesso.
Ma come può una brand del calibro di Berlucchi adattarsi al cambiamento senza stravolgere i propri asset valoriali, il riconoscimento percepito e lasciando il giusto spazio ad altre linee di prodotto?

Credo che la soluzione sia nata dalla capacità di coniugare, nell’intervento di ridefinizione della brand, un’attenta analisi del mercato e del consumatore con la rigorosa visione mai tradita di ciò che l’azienda Berlucchi è stata, è e vuole essere. Una regìa complessiva mirata a rafforzare anche il ruolo di centralità di Berlucchi nella storia del proprio territorio.

I risultati ottenuti da indagini di mercato da me condotte su ampi campioni di bevitori ed acquirenti di vini e spumanti di varie marche, evidenziano il profilo di un consumatore sempre più attento e sensibile all’evoluzione del posizionamento degli spumanti e delle brand. L’immaginario evocato dall’ampia categoria degli spumanti italiani appare ricco di emozioni e di significati importanti, tra cui emerge la cultura del SAPER BERE: più degli altri vini infatti, lo spumante richiede il bicchiere adatto, la giusta temperatura, il sorseggio ed insieme alle sue distintive bollicine e bottiglia-tappo in gabbietta vengono esaltate le dimensioni edonistiche e socializzanti.

A differenza dello Champagne, lo Spumante italiano è percepito inoltre come un vino più autentico, naturale, sicuro ed accessibile. Il legame sempre più stretto con i vari territori italiani vocati per gli spumanti – e tra i leader troviamo sicuramente la Franciacorta – promuove il riconoscimento di un valore distintivo sia sul piano emotivo che qualitativo.
Territorio e Brand sono assets sempre più importanti per rinnovare la fiducia del consumatore e rafforzare una relazione che dura ed evolve nel tempo, adattandosi in modo intelligente ai cambiamenti di tipo socio-culturale, ai costumi, ai miti e ai riti che caratterizzeranno il nostro futuro.

L’intervento ha dunque tenuto conto del profilo dell’attuale consumatore, molto più ricco sul piano delle emozioni e dei significati che assegna ai cibi e alle bevande e in particolare allo spumante. Il Piacere, l’Italianità, la Cultura e la Salute-Sicurezza, si uniscono alle attese di Socialità-Condivisione e di Autogratificazione. Il riconoscimento della Provenienza Territoriale dei cibi e dei vini, rinforza il valore percepito.

Il progetto di restyling della brand si è esteso ad un rinnovamento del packaging della Cuvèe Imperiale e delle altre linee di prodotti, facendo emergere la complessità della case-history Berlucchi senza stravolgimenti ma migliorando e potenziando l’espressione dei suoi impliciti contenuti.
Un’ estensione e una diversificazione della gamma produttiva permette di avvicinare target differenti, ma anche una più facile penetrazione dei diversi canali di vendita.

Il percorso di rinnovamento dell’immagine, curato interamente da SGA, ha comportato anche il restyling della linea Cellarius, il rinnovamento della cuvée storica, che ha dato origine alla linea ‘61, e la creazione della top-line Palazzo Lana. Inoltre l’ambito di intervento si è esteso allo studio dei secondary packaging, sia per i canali ho.re.ca che GDO, allo sviluppo dell’intera corporate identity, dei cataloghi prodotto, degli stand Vinitaly e, in collaborazione con la web agency Ocho Durando, del nuovo sito internet.
La realizzazione di un progetto globale per rispondere in modo efficace alle necessità di cambiamento che il contesto sempre più competitivo impone.

Berlucchi sito


La dott.ssa Marilena Colussi è Sociologa dei Consumi ed esperta in Tendenze Alimentari.
Ha recentemente condotto la ricerca “Atteggiamenti e comportamenti del consumatore del vino e nel rapporto con la GDO” commissionato da Veronafiere per il Vinitaly 2012.

Vai al sito Berlucchi

Tag Brand, Global design, Packaging, Restyling

03 / 01 / 2012

2011 - Blog Franco Ziliani: Derbusco Cives

Derbusco Cives: in Franciacorta è nata una stella

I più attenti lettori di questo blog si saranno chiesti per quale motivo in due distinte degustazioni che ho avuto il piacere di condurre per AIS nel giro di due settimane, quella del 24 novembre al Club Nautico di Viareggio e quella del 3 dicembre, riservata ai Rosé, a Madonna di Campiglio, io abbia scelto di inserire in degustazione, accanto a Franciacorta noti e affermati come quelli di Cà del Bosco, Bellavista e Il Mosnel, o di aziende più piccole ma dotate di una certa storia come Enrico Gatti o Faccoli, un nome poco noto ai più come Derbusco Cives.

Derbusco Cives brand

E si saranno anche chiesti, andando a visitare il sito Internet di questa azienda, dove spiccano le bottiglie di foggia molto ricercata e particolare opera (come le etichette e tutto il packaging) di quel mago che corrisponde al nome di Giacomo Bersanetti, se dietro a questa presentazione flamboyant (in inglese i vini vengono definiti Superlative Classic Brut of Franciacorta) che balza decisamente all’occhio e fa la differenza, se il sottoscritto si fosse improvvisamente convertito alla filosofia dominante che privilegia l’apparire sull’essere, il modo di presentarsi sulla sostanza.

Derbusco Cives wines

Nulla di più sbagliato. Se ho inserito due diversi Franciacorta, il Brut Doppio Erre a Viareggio ed il Rosé in Trentino, di questa azienda dal nome latino, che non significa altro che “Cittadini di Erbusco”, che ha sede ad Erbusco e conta su 12 ettari vitati tutti dislocati in questo borgo che i responsabili dell’azienda definiscono l’Epernay della Franciacorta, la “capitale morale, l’epicentro della regione”, ed il villaggio dove, con buona pace degli altri villaggi franciacortini, si troverebbero i vigneti valutati 100%, i cosiddetti “vigneti cinque stelle”, è perché sono assolutamente convinto di trovarmi di fronte ad una delle realtà produttive più significative di tutta la zona.

Vai all’articolo

Tag Packaging, Press

02 / 01 / 2012

2011 - Artribune: Alcolic Design

Bottiglie di design, etichette affidate ad artisti, poeti che inventano statement da pubblicare sulle bordolesi. Il mondo del vino e quello dell’immagine vivono una convergenza sempre più evidente. Almeno questa è la sensazione diffusa. Sensazione confermata dal nostro tour al Vinitaly di quest’anno.

Provate a girare per gli stand del Vinitaly per chiedere informazioni su grafica e packaging delle bottiglie, anziché sul vino. Passerete per marziani.
Alcune hostess stranite, nell’imbarazzo di non saper rispondere, riempiono il calice di vino, ma i proprietari, quelli che il vino lo fanno, sanno benissimo anche la storia dell’involucro. Si parla di packaging ed etichette e qui entra in campo il design, ma anche l’arte è spesso protagonista di queste progettazioni a tutto tondo.
Il fatto è che non poche case vinicole, soprattutto negli ultimi anni, hanno iniziato a dedicare molta attenzione, oltre che al loro prodotto, anche all’immagine aziendale e a tutto ciò che le gira attorno. In molti hanno iniziato ad affidarsi a veri designer che, oltre a studiare il logo, progettano etichette diverse e packaging studiati. Ma non solo. Sono sempre di più, infatti, le case vinicole che si appoggiano ad artisti e illustratori, a cui viene affidato il compito di ridisegnare l’etichetta. Rafael Pareja Molina, autore del logo di Artribune e invitato alla prossima Biennale di Venezia dall’Istituto Italiano di Cultura di Strasburgo, ha ad esempio impostato lo stile di alcune case trentine.

Artribune
Stand Vezzoli (dettaglio)

Ma avanti con altri casi. Si parte dalla Franciacorta, dove Le Cantorie della famiglia Bontempi, stufi della classica forma della bottiglia, hanno fatto realizzare da mastri vetrai alcune sagome squadrate che ricordano certe boccette di profumo. Si passa poi all’azienda agricola di Giuseppe Vezzoli con una bottiglia che, quando capovolta, ricorda il calice di vino. Giacomo Bersanetti è il designer che ha seguito Vezzoli in questo progetto, il suo studio è decisamente focalizzato in questo ambito e si occupa esclusivamente di corporate & packaging design legato al comparto wine and food.
Passaggio in Piemonte, nella zona del Gavi, dove molte aziende sono apprezzabili per semplicità di etichette nitide e facili da ricordare. Un esempio? Molinetto Carrea di Stefania e Diego Carrea. In Toscana, Palazzo Vecchio del vino nobile di Montepulciano è una di quelle aziende interessate all’arte che ha chiesto a un artista di realizzare opere-per-etichette. L’azienda Braida per il Montebruna Barbera ha scomodato grafici e poeti per accompagnare alle immagini anche un breve testo.

Ma il giro tra gli stand di Vinitaly non termina qui, perché passando da un’etichetta all’altra l’occhio cade anche sugli allestimenti. In alcuni casi – rari ma da sottolineare – gli allestimenti sembravano quasi installazioni d’arte. E quando vedi faretti inseriti in colli di bottiglie tagliate, ti sembra quasi di vivere un antipasto (anzi, un aperitivo) del Salone del Mobile.

Valia Barriello


Stand Cesari (dettaglio)

Vai all’articolo

 

Tag Press

01 / 01 / 2012

2010 - Bolzano: Design & Packaging

Un fattore strategico di successo. Come comunicare la cantina tramite l’etichetta. SGA, unica agenzia di packaging italiana, viene invitata a partecipare alla conferenza sul tema del design come elemento strategico per il successo delle aziende.

Nell’ambito del Simposio Introduttivo tenuto presso la sede di Museion, museo d’arte contemporanea di Bolzano, SGA, unica agenzia italiana di packaging, viene invitata a partecipare alla conferenza sul tema del design come elemento strategico per il successo delle aziende. L’intervento di SGA, attraverso il racconto di alcune case histories, traccia il profilo della propria metodologia progettuale.

Museion - museo d’arte moderna e contemporanea di Bolzano

Tag Biodinamica

01 / 01 / 2012

2011 - Wine and Design

Immersed in design
The first contact a consumer usually has with a wine is through the label, which means that design matters. We spoke to three design firms about their very different philosophies. Here, Massimiliano Hangler from SGA in Italy outlines their approach.

SGA is an Italian brand and packaging design agency with a focus on the wine and spirits business. Founded 25 years ago by art directors with backgrounds in both art and corporate design, the agency’s aesthetic links corporate branding to artistic expression. SGA mostly works for Italian companies, but has done some work for companies in the USA. Clients include Bellavista, Campari, GIV, Berlucchi, Gaja, Valdo, Fontanafredda and Ferrari, among many others. The agency’s philosophy is ‘give shape to value’, which is our motto. When we begin working with a winery, we go there and speak to the winemaker and try to understand the winery’s soul. I am not speaking about ‘mission’ and ‘vision’ and all those marketing words, but about understanding how the winemaker lives his wines, how he wants to get on the market and how his customers approach his wines and the category. After doing this, we usually get the concept. From our point of view, there is no difference in approach to Old World and New World. The important thing for us is to express what the wine is. When we visit, we talk with a lot of people. Afterwards we try and extract elements from that experience. In one case, Ceretto’s Grappa, we found a church in the vineyards that had an artistic work that was very colourful. We used the same colours for the label. We give the customers a piece of the winery experience. The communication is true, so the customer finds on the label what he finds on the ground of the winery. The important thing is to be true to the customer and to express something that is clearly different from competitors. When we start to work on the project, we get all the bottles and design labels of the main competitors. The main advantage is to avoid copying, but also to understand how much you can stand out from the rest of the labels.

Alois Lageder Classic Line

The importance of story
We have a lot of experience in the wine market and understand the vineyard language. Piedmont has a label language, Tuscany has another label language. You have to be part of this, but if you only use that language, you will not stand out from the crowd. For example, we rebranded a Piedmont winery, Enrico Serafino, for Campari. It had a typical Piedmont look, but it was old fashioned, so the market got bored. Campari began to rebuild the quality of the product and we rebuilt the imagery. We searched in their cellar and found a letter from the first owner. We used that to rebuild the wine’s image. We designed a font based on the handwriting in the letter and also focused on some elements of the region, Roero; it’s like Barolo but it’s a new one. From old pictures we saw that the main characteristic of that firm was that a train could stop in front of it. There were oak barriques all over the front of the company, so we linked the handwriting with the two first letters ‘E’ and ‘S’ in the brand. We wanted the design to give some fresh energy to the sales force, as well, because they are so important. They took the new brand all over Europe. We do not have precise sales figures, because the company is listing on the stock exchange and can’t give numbers, but they said there was an improvement in sales and orders around six months after the new image was presented. It also won a prize at Vinitaly last year. Because we want to create value, we also did a document that explained how the image was built. This was to we give the core team the idea of the project, because in wine, narrating a story is very important. Everybody needs a story, that’s clear. If you have got an interesting story founded on the winery’s history and you can show what the winery did to improve its quality, it lets people get in touch with something authentic. There are many quality wines out there, so it is important that they each bring something different. Our clients are very happy when we give their wine some additional value, to help express the quality of the wine. When the bottle goes into the sales channel, there is no one supporting it, but they know that the product can speak for itself.

Enrico Serafino Top Line

Archetypes
To create a long-term relationship between the customer, the bottle and the winery, we try to introduce some unconscious elements into the label that can speak to the customer. We use archetypes; we did some cultural research and found out that there are shapes that people all over the world associate with the same things. So when people see a square label or a square shape, they associate it with the earth. If you are talking about vineyards, you can use a square shape to tell them there is a deep link with the earth. We worked on a bottle of Tosti, which is a sparkling wine. We shaped the bottle so it had a belly on it. The reason we chose that shape is the bottle was going to be sold all over the world and the belly can be found everywhere. You can see it in ancient objects that have been found in Africa. Everyone is familiar with the archetype. We shaped the label around the bottle so when these bottles go on the shelf, there is always unconscious communication between the customer and the product. Another project we did was with Alois Lageder from Trentino, which had an oldfashioned product line with old-fashioned labels. In this case, we organised a contest with modern artists; we brought them around the winery, we made them speak with the winemaker and we told them to create a team to express the winery. This main thing with this winery is that they try to have as little impact on the environment as possible. They are biodynamic. At the end, we collected all of the art papers and chose teams to express what the winemaker is doing with his wines. When you see the pictures, you will see there are two archetypal elements: the circle and the square. The circle is an archetype of the sky and it can also express the continuity of nature. This means if you are biodynamic you respect the environment and have a circular life – if you use a lot of chemicals, on the other hand, you cannot have circular growth, because you will have to keep on using chemicals or have no fruit. So you see, these labels have three levels. The first is that they are nice to see, because they have art work on them; the second is that they express nature. In nature there are four themes: the ground, the wine plant, the wine maker and the wine itself. For the ground the artist’s work was about putting a stone on a paper and to brush it, so we got a label with an image of the ground that gave birth to the wine. The second label has a stylized vine leaf on it. The third step is that you can find the handprints of the winemaker on the label. This is a very modern design and it replaced a very old design.
The export manager was afraid to put this wine on the US market and also on the Italian one, because it was a break from the past. But in this case the label had a very interesting story to tell, because when you talk about how the artists worked, you are proving that we are really authentic. In the end they went with the label and the result was that they sold out.

Schiopetto wines

What not to do
The most common mistake is copying. If you go to a territory like Piedmont and visit maybe two or three of the wineries which have no conception of branding, marketing or design, you see they look the same. Maybe they have looked at each other, or looked at the leader, to get their design elements, but in doing this they are only working for the leader. They are reinforcing the leader’s ideas. Another very common mistake is to try and design something so new and unusual that is has no substance behind it. The third mistake is making a very nice design when the wine itself is not so good. Sometimes for the international market we are asked to design different labels for secondary lines. In this case, you can choose to design a label to be seen as typically ‘Italian’ and many do this. But nobody will remember your label or your brand, because you have made yourself into just another Italian wine. So even on the international market, we still prefer to design in such a way that it expresses the winery.

Tosti bottle

Vai all’articolo

Tag Packaging, Press

31 / 12 / 2011

2008 - Enografie: il design dei percorsi narrativi

di Giovanni Baule
Politecnico di Milano

Tra il processo di progettazione di design e i processi di produzione in campo enologico ci sono forme del percorso che si propongono come simili tra loro. Sono percorsi che sono anche ‘storie’: percorsi che racchiudono narrazioni. E confermano, a uno sguardo ravvicinato, l’esistenza di consonanze, di contiguità ben visibili tra il design - la nascita di un segno grafico o la genesi di una forma - e i cicli e le fasi della lavorazione vinicola. Quando un intreccio di culture e di sensibilità, di metodi e di approcci come questo si sviluppa su uno stesso terreno, quando un ‘tema’ coincide nel profondo, si supera il campo delle analogie di superficie e si aprono tracciati complessi, imprevedibili. Questa vicinanza di percorsi permette al design di costruire segni e forme in grado di comunicare il ‘prodotto vino’ evocandone l’essenza, evitando di sovrapporre maschere identitarie precostituite. Sono queste le enografie.

ENOGRAFIE. IL DESIGN RACCONTA I VINI DEL PIEMONTE. from SGA corporate & packaging design on Vimeo.

Le enografie mettono in primo piano la comunicazione come distillato, come sintesi di tutto un processo nascosto che sta alle spalle e che produce il senso finale. Queste enografie, dove il metodo della progettazione confina con il contenuto comunicato, generano veri e propri prototipi comunicativi: su di essi conviene riflettere perché trattengono in sé una formula di grande interesse. Se si prova a ripercorrere questi itinerari, si apre uno squarcio su un nuovo corso dell’immagine di prodotto e della sua progettazione: un approccio che pur mantenendo, ed esaltando, l’efficacia comunicativa dell’artefatto finale, utilizza modi propri del design della comunicazione lontani dagli schemi convenzionali della comunicazione di prodotto, lontani da quei progetti d’identità dei beni di consumo che percorrono in modo esclusivo le strade, ormai esauste ma ancora frequentatissime, della comunicazione marketing oriented. È, quest’ultima, una via univocamente finalizzata al target, che relega in secondo piano la missione di scoprire e illustrare l’essenza di un prodotto: una via tutta tesa a reiterare il potere della brand, e che rincorre le aspettative indotte degli utenti della comunicazione, assillata da un’ansia di massima affabilità, costretta solo a esercitare all’infinito tutte le declinazioni degli appelli fàtici.

Enografie Baule 1

La ricaduta sul piano progettuale delle logiche marketing oriented, che cercano nella vestizione grafica e nella costruzione formale dell’involucro tutte le garanzie di una grammatica consolidata fatta di ingredienti canonici e stereotipati, all’interno di un campionario di formule convenzionali, finisce per annullare qualsiasi mutamento dell’orizzonte di attesa (quello che i consumatori ci chiedono): fa inclinare verso il basso il piano di quel ‘patto comunicativo’ che lega messaggi e utenti, innescando un cortocircuito comunicativo. Ma ridurre il ventaglio della sperimentazione dei linguaggi comunicativi, dell’innovazione delle grammatiche significa perpetuare quella progettazione reticente che deprime il rapporto con i destinatari della comunicazione e sancisce il paradosso di una comunicazione ‘muta’, incapace di dire. Mentre l’applicazione di alcune regole sperimentate ma anche il trattamento e il ribaltamento delle tipologie codificate, l’utilizzo di espedienti per la riconoscibilità del prodotto ma anche lo slittamento dalle consuetudini aprono uno spazio di progettazione che si offre al designer che voglia operare oltre la filiera del ‘già visto’.

Molti sono i riferimenti che, da sempre, collegano l’atto della scrittura, della messa in pagina (dunque del design grafico), della lettura, al mondo della viticoltura e della vinificazione. Rifacendosi alla tradizione monastica, tipica nel saper fondere assieme i sapori e gli odori della natura e della scrittura, della grafica manoscritta e delle arti vinicole, Ivan Illich nel suo ‘Nella vigna del testo’, tutto dedicato a questo doppio percorso, descrive così il momento della lettura: “Quando legge, Ugo di San Vittore fa un raccolto: raccoglie i chicchi dalle righe. Egli sa che la parola ‘pagina’ può riferirsi a dei filari di viti uniti assieme. Le righe della pagina sono i vimini di un graticcio che sostiene le viti… Il latino ‘legere’ deriva da un’attività fisica: legere connota ‘raccogliere’, ‘fare un fascio’, ‘ammassare’... I dispositivi di ordinamento della pagina, l’impaginazione che è alla base dell’organizzazione grafica delle informazioni, fa parte di un insieme visivo che contribuisce a determinare l’intelligenza del lettore…”. È il grafico-amanuense che coltiva la vigna del testo ed è il lettore che a sua volta raccoglie e lega insieme i materiali della scrittura. Il rapporto tra viticoltura e grafica è ancora sancito, nominalmente e visivamente, da quelle piccole illustrazioni che in apertura di libro o di capitolo già nelle copie degli amanuensi ornavano gli incipit con fregi a forma di foglia o di tralci di vite: tralci e viticci intrecciati alludevano al testo come textura e, come riquadri di figure ornamentali, costituivano quelle che ancora oggi chiamiamo ‘vignette’. Questa matrice profonda che il design grafico coltiva è la logica che dà vita a ogni progetto editoriale, alla grafica dei testi dove di continuo si intessono insieme parole, righe, colonne, immagini, fino a comporre un insieme comunicativo (la pagina). Questo carattere originario della progettazione grafica è tutto presente nelle nostre enografie: è un metodo di lavorazione, quello del design, che opera sui contenuti, seleziona e coglie le parti significative e le rielabora fino a distillarne l’essenza per riproporla nelle forme di un marchio, o di una copertina, di un’illustrazione, di una vestizione, di un involucro che sono tutti concentrato visivo di un ‘testo’, o di un ‘contenuto’. Il risultato di questo lavoro ‘paratestuale’ - attorno al testo - è una sintesi evocativa, un insieme di segni ricco di storie, memoria di un processo di riduzione di cui conserva gli elementi di origine. Questo tipo di design grafico, fin dall’inizio, procede con un forte impulso modellizzante: propone al progettista un modello stereoscopico, un metodo che opera contemporaneamente su diversi piani comunicativi di riferimento e su diversi livelli di complessità. Il progetto deve poter tenere insieme tanti elementi diversi tra loro (tecniche, linguaggi, stili espressivi, legami semantici…) e disegna così il carattere di una moderna retorica comunicativa.

Enografie Baule 2

Enografia è la scelta di una morfologia narrativa e delle sue possibili sperimentazioni, l’opzione in favore di racconti che partono dalle tracce del territorio e dalle suggestioni che circondano i luoghi. Queste tracce vengono rilevate come impronte, e, trasferite in segni, vengono trascritte in forma di alfabeti. Divengono alfabeti ripetibili. A partire da un fulcro narrativo, si genera un linguaggio visivo che il progetto di design articola e declina. Il montaggio narrativo, dotato di una propria complessità, si traduce in un finale allestimento 11 scenico, dove l’involucro e la sua vestizione sono un tutt’uno. E ci sono territori e paesaggi che più di altri, forse per il clima e la particolare esposizione, inducono alla produzione di segni; come in una mappa di continue connessioni, i segni a loro volta rimandano ai territori da cui hanno preso origine, dove l’intreccio dei percorsi visivi, olfattivi, tattili si è ordinato in filari di percorsi narrativi. Il profilo di un paesaggio, uno scorcio tra le coltivazioni, la superficie di una pietra, la luce della luna, un reperto d’epoca, un antico sigillo, una testimonianza di memorie sono tanti microcosmi che, tramite alchimie di luce e di colore, e il filtro dello sguardo, e il trattamento dei linguaggi generano segni di terra; diventano, tramite un’accurata lavorazione, ‘materia’ narrativa. Nell’ambito del progetto di comunicazione, siamo qui all’esatto opposto di quelle mitografie bucoliche che, ormai moltiplicate a dismisura e clonate di seconda mano a partire dai primi ‘mulini bianchi’, affollano un paesaggio virtuale edificato senza scrupoli, inquinatissimo sul piano della credibilità comunicativa, asservito più alla logica della declamazione che a quella della narrazione. Sono mitografie che usano impropriamente il paesaggio come location e, sulle due dimensioni delle etichette di prodotto, costruiscono scenari da fiction non dissimili dai castelli in plastica delle Disneyland o ai borghi artificiali degli outlet. Con queste enografie, invece, si costituisce un particolare sistema narrativo, un doppio racconto che mantiene un legame felice, una memoria delle suggestioni del territorio e che procede in parallelo con la storia del prodotto, con alcuni suoi caratteri, condividendone il percorso e la fisionomia: anche nel proprio processo di produzione il vino porta a sintesi la luce dei suoi poggi, il colore delle sue terre, l’asprezza dei suoi pendii, l’ombra delle sue cantine; ed è anch’esso l’essenza, il concentrato di un processo narrativo… Il legame ‘materico’ di linguaggi e territorio crea una sequenza di concatenazioni che è alla base della struttura narrativa di queste enografie: racconti di segni e mille continui indizi rimandano all’esperienza dei luoghi e costituiscono veri e propri ancoraggi ai territori.

Enografie 3

Sul piano dei linguaggi grafici si crea una tipologia compositiva assai vasta che dà un ruolo di rilievo ai segni di terra e alla matericità delle scritture; delle quali fanno parte anche segni enigmatici, veri e propri reperti di un’archeologia dei segni. Nasce un sistema iconografico aperto, dove l’aura evocativa cresce attraverso scritture in versi, calligrafismi, ritmi del gesto, costruzioni tipografiche. Anche il progetto di naming, la definizione del nome proprio del prodotto, s’intreccia con il metodo del progetto visivo: ci sono nomi che nascono da tracce sonore catturate sul posto, da echi storici, da reperti verbali e modi dialettali (il dialetto come lingua dei luoghi, appunto); parole ‘antiche’ originate da ‘topofonemi’ (suoni legati a un luogo), che, mediante esperimenti retorici diversi, convergono tutte verso un obiettivo narrativo, il ‘sapore evocativo’ del racconto. E, infine, la stessa forma degli involucri lavora sulle tipologie storiche dei vetri per il vino, generate dall’intelligenza artigiana per la materia: le riprende, le elabora, le ridisegna, le trasforma, le reinventa. 13 A differenza del puro utilizzo sull’etichetta di un’immagine ‘artistica’, nata altrove per altre occasioni espressive e affiancata per casuali assonanze, qui ‘immagine’ e ‘contenuto’ nascono assieme, vivono un percorso comune e si coniugano condividendo tracce e itinerari. Questi itinerari incrociati nella costruzione del prodotto e nella costruzione dell’identità di prodotto ci suggeriscono un metodo nel progetto della comunicazione dell’identità. Che non può essere puramente descrittivo, perché il linguaggio dell’evocazione non passa per scritture didascaliche. Che non può nascere altrove per essere importato e utilizzato all’occorrenza. Ma che deve avere radici comuni e saper correre sul piano dell’analogia con linguaggi e alfabeti propri, con consonanza e coerenze profonde. E che non può disgiungere forma e contenuto, ‘involucro’ e ‘vestizione’, ma operare nella logica del paratesto, del legame che avvolge contenuto e apparato comunicativo in un continuum narrativo. Il progetto delle enografie diventa allora una lezione di metodo, un paradigma comunicativo per tutto il design della comunicazione, una chiave utile per garantire una nuova qualità del patto comunicativo. Per questa progettazione che trova nei territori, nelle loro suggestioni e nei loro prodotti le tracce per i propri alfabeti e li sa riproporre tramite una lavorazione accorta e consapevole, potremmo parlare a pieno titolo di un design di origine controllata.

Enogragie 4

Giovanni Baule è professore ordinario di Disegno Industriale all’interno della Facoltà del Design presso il Politecnico di Milano, dove è Presidente del Corso di Laurea in Design della Comunicazione e Vicecoordinatore del Dottorato in Disegno Industriale e Comunicazione Multimediale.
Direttore, dal 1985, di Linea Grafica, bimestrale di grafica, comunicazione visiva e multimediale (XVII Premio Compasso d’Oro).
Si occupa di metodologia della comunicazione visiva, di progettazione e ricerca sui sistemi di editoria elettronica multimediale.

Tag Global design, Video